La Corte di Cassazione sez. lavoro con la sentenza n. 22398 depositata il 1° ottobre 2013 intervenendo in materia di licenziamento afferma, per un verso, la dichiarazione di invalidità del licenziamento non comporta automaticamente per il datore di lavoro la condanna al risarcimento del danno nella misura stabilita dal quarto comma, con esclusione di ogni rilevanza dei profili del dolo o della colpa ne! comportamento del recedente, e cioè per una forma di responsabilità oggettiva, atteso che l’irrilevanza degli clementi soggettivi è configurarle, per effetto della rigidità al riguardo della formulazione normativa, solo limitatamente alla misura minima delle cinque mensilità. Infatti, l’esonero dal risarcimento, è consentito solamente quando il datore di lavoro dimostra che il suo inadempimento dipende dall’impossibilità della prestazione non imputabile allo stesso. Per altro verso, tale circostanza non può prescindere dall’illegittimità del recesso, essendo sufficiente, per il caso in esame, una sanzione conservativa. Per cui, il risarcimento viene fissato nella misura minima (cinque mensilità) in quanto le giustificazioni fornite dalla stessa sono errate e inadeguate: tale aspetto, infatti, ha fuorviato il datore di lavoro nella sua valutazione.
La questione relativa alla sussistenza della responsabilità risarcitoria deve ritenersi regolata dall’art. 1218 c.c., secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno in caso in cui fornisca la prova che l’inadempimento consegue ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile.
La vicenda ha visto protagonista un dipendente a cui era stato notificato il licenziamento e che aveva impugnato il provvedimento inanzi al Tribunale, in veste di giudice del lavoro, che riconosceva la illegittimità del licenziamento e quantificava in cinque mensilità la misura del risarcimento del danno. La sentenza veniva confermata anche dalla corte di appello
Per i giudici della corte territoriale, infatti, afferma che “ai fini della determinazione del danno doveva farsi riferimento alle norme del codice di civile in tema di risarcimento del danno conseguente ad inadempimento delle obbligazioni non introducendo l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori elementi che consentissero differenziazioni. Ha affermato in particolare la necessità di applicare l’art 1218 codice civile in base al quale si doveva accertare che l’inadempimento conseguiva ad impossibilità della prestazione per causa non imputabile. Nella specie la società era stata determinata al licenziamento dalla condotta osservata dalla lavoratrice che, per quanto non di gravità tale da legittimare la sanzione espulsiva, aveva creato i presupposti per l’adozione del provvedimento disciplinare.”
Avverso la decisioni della Corte di Appello la datrice di lavoro ricorre alla Corte Suprema per la sua cassazione basandolo su tre motivi di censura.
Gli Ermellini hanno ritenuto meritevole di accoglimento solo il secondo e terzo motivo affermando che “il difetto di colpa dei datore di lavoro nel determinarsi al licenziamento, derivante dalle giustificazioni, erronee o fuorvianti, fomite dal lavoratore in relazione alla propria condotta in sede di procedimento disciplinare, non esclude l’illegittimità del licenziamento, ove questo non risulti sorretto da giusta causa o giustificato motivo, all’esito degli accertamenti effettuati nel giudizio di impugnazione del licenziamento, ma può incidere sulla diversa domanda di risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento illegittimo, per la parte eccedente la misura minima garantita, consentendone la liquidazione in misura inferiore rispetto alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.”
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