CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 settembre 2013, n. 21470
Fallimento ed altre procedure concorsuali – Fallimento – Società e consorzi – Società con soci a responsabilità illimitata – Fallimento della società e dei soci
Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 24.10.011, ha respinto il reclamo proposto da C.C. contro la sentenza del Tribunale di Forlì che, ai sensi dell’art. 147 I. fall., aveva dichiarato il suo fallimento in estensione di quello della N.S. s.a.s. di R.C. & C., quale socio accomandante indebitamente ingeritosi nell’amministrazione della società.
La corte territoriale, dopo aver affermato che anche alla luce del nuovo testo dell’art. 147 I. fall., così come novellato dal d. Igs. n. 5/06, è assoggettabile a fallimento il socio accomandante che, violando il divieto di cui all’art. 2320 c.c., perda il beneficio della responsabilità limitata, ha riesaminato il materiale istruttorio acquisito agli atti, traendone il convincimento che vi fosse ampia prova del compimento da parte del C. di atti di gestione della N.S..
La sentenza è stata impugnata da M.C. con ricorso per cassazione affidato a tre motivi ed illustrato da memoria, cui ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato da memoria, la creditrice istante A. di R. G. & C. s.r.l.
Il curatore dei Fallimenti della N.S. s.a.s, di R.C. e di C.M. e l’altra creditrice istante, B.M., non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
1) Con il primo motivo di ricorso M.C. denuncia violazione degli artt. 1 e 147 L. fall., 2320 c.c., 14 preleggi e 3 Cost.
Sostiene che il disposto dell’art. 147 I. fall., secondo cui la sentenza che dichiara il fallimento di una s.n.c., di una s.a.s. o di una s.a.p.a. produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, va applicato unicamente ai soci la cui responsabilità illimitata appartenga alla normativa del tipo societario e non a qualsiasi socio che, per evenienze varie, si trovi a rispondere, in tutto o in parte, delle obbligazioni sociali. A dire del ricorrente, pertanto, il fallimento della s.a.s. si estende al socio accomandatario, ma non all’accomandante che si sia ingerito della gestione sociale, la cui responsabilità illimitata è solo eventuale e accidentale.
A sostegno del proprio assunto, C. richiama la giurisprudenza di questa corte che, nel vigore del testo dell’art. 147 l.fall. non ancora riformato dal d.Igs. n. 5/06, ha sempre escluso la fallibilità del socio unico di società di capitali, sul rilievo che la norma si applica solo alle società in cui esistono istituzionalmente soci illimitatamente responsabili e che la previsione della responsabilità illimitata dell’unico azionista o quotista non si ricollega alla tipologia sociale, quanto, piuttosto, a particolari ipotesi tassative di legge correlate alla violazione di obblighi sociali e deroganti il regime di responsabilità esclusiva della società. Rileva che tali principi ben possono essere applicati anche al socio accomandante, che non assume responsabilità illimitata né per la natura del tipo societario né per contratto sociale, che non è titolare del potere di gestione e che risponde verso i terzi delle obbligazioni sociali solo nel caso in cui abbia violato il divieto di immistione. Deduce, ancora, che in tal senso depone anche la nuova formulazione dell’art. 147, così come modificato dalla legge di riforma, che esclude espressamente il fallimento in estensione del socio unico di società di capitali illimitatamente responsabile, ai sensi degli artt. 2325 co. 2 e 2462 co. 2 c.c., ed osserva che, secondo quanto sostenuto dalla dottrina maggioritaria, la norma è espressione di una più generale volontà legislativa di non coinvolgere nel fallimento i soci che non sono sempre illimitatamente responsabili, ma lo divengono soltanto nel momento in cui infrangono le regole del tipo societario cui appartengono. Aggiunge che mentre, dopo la riforma del diritto societario, per il socio unico di società di capitali il regime di responsabilità illimitata è contemplato come uno dei modi dell’ atteggiarsi del suo rapporto con la società, per l’accomandante ingeritosi nella gestione tale regime discende solo dalla violazione di un divieto ed è causa di esclusione dalla s.a.s. ai sensi dell’art. 2286 c.c. Deduce, inoltre, che l’art. 147 è sicuramente norma eccezionale, insuscettibile di applicazione analogica od estensiva, e che è priva di rilievo l’ulteriore ratio posta dalla corte di merito a fondamento della decisione, che risiede nella rilevata limitazione del periodo temporale nel quale il socio unico di società di capitali risponde illimitatamente delle obbligazioni sociali e dalla conseguente diversità della massa passiva, rispetto a quella sociale, che conseguirebbe al suo fallimento.
Il motivo deve essere respinto.
Come già rilevato da questa corte con la sent. n. 22256/012, le cui motivazione va pienamente condivisa, nel vigore del testo dell’art. 147 I. fall, anteriore alle modifiche apportatevi dal d.Igs. n. 5/06 non si è mai dubitato che il fallimento di una s.a.s. potesse estendersi al socio accomandante ingeritosi nella gestione, atteso che, nelle società di persone, la fallibilità del socio è la regola e la limitazione della responsabilità del socio accomandante un’eccezione, la quale suppone il rispetto della rigida distinzione tra titolarità e gestione dell’impresa, in conformità del modello legale. Per contro, come ricordato dallo stesso ricorrente, pur nel regime anteriore alla novella, in cui la lettera del 1° comma dell’art. 147 si limitava a prevedere che il fallimento della società con soci a responsabilità limitata produceva il fallimento anche di questi ultimi, senza operare apparenti distinzioni fra società di persone e società di capitale, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente ritenuto incompatibile la disposizione con il principio, connaturato alle società di capitale, della limitazione di responsabilità del socio, anche con riferimento ai casi in cui, per vicende particolari previste dalla legge, la limitazione possa venir meno.
Il d.Igs, n. 5/06, che ha modificato il 1° comma della norma prevedendo espressamente l’estensione del fallimento del socio illimitatamente responsabile per le sole società in nome collettivo e in accomandita (semplice o per azioni), ha di fatto recepito tale secondo insegnamento giurisprudenziale, ma non ha in alcun modo inciso sul primo, che anzi viene ad essere rafforzato dalla modifica: se davvero, come sostenuto dal ricorrente, il legislatore della novella avesse inteso riferirsi soltanto ai soci la cui responsabilità illimitata sia strutturalmente legata alla costituzione della società, risulterebbe infatti incomprensibile la mancata previsione della non fallibilità in estensione dell’accomandante che ha violato il divieto di immistione.
Al contrario, poiché si tratta di socio illimitatamente responsabile ai sensi dell’art. 2230 c.c., la norma (senza che si renda necessaria una sua interpretazione estensiva od analogica) non solo non ne esclude la fallibilità, ma la afferma.
2) Col secondo motivo, denunciando violazione degli artt. 2320, 1387, 1399, 2697 c.c. 115 c.p.c., 33 L. fall., 24 e 111 Cost., nonché vizio di motivazione, C. nega che sia emersa la prova della sua ingerenza nella gestione sociale e contesta la rilevanza, a tal fine, di ciascuna delle risultanze istruttorie sulle quali la corte territoriale ha fondato la decisione. Lamenta, inoltre, la mancata ammissione dei capitoli di prova testimoniale articolati a confutazione degli elementi emersi a suo carico.
Il motivo non merita accoglimento.
Va innanzitutto rilevato che, anziché evidenziare gli errori di diritto nei quali il giudice del merito sarebbe incorso nell’applicazione degli articoli che regolano la formazione della prova, o sollevare problemi di interpretazione delle disposizioni che assume violate, il ricorrente si duole dell’errata valutazione dei fatti sottoposti all’esame della corte territoriale, e pertanto si limita a sindacare la sentenza sotto il profilo del vizio di motivazione.
Esaminata sotto tale profilo, la censura risulta inammissibile.
La corte di merito ha compiuto una minuziosa disamina di tutte le, molteplici, circostanze acquisite agli atti del giudizio che deponevano per l’ingerenza del C. nella gestione della società (la trattativa condotta per iscritto dal ricorrente, per conto di N.S., per la locazione di un capannone industriale da destinare a nuova sede della società; la sottoscrizione di un allegato, contenente l’elenco delle opere e delle modifiche che avrebbero potuto essere apportate all’immobile senza obbligo di ripristino, integralmente trasfuso nel contratto definitivo; il convincimento del legale rappresentante della locatrice di trattare con la s.a.s., desumibile dall’immediato avvio dei lavori di modifica, prima della stipula del definitivo; l’inesistenza di una procura conferita dall’accomandatario al C. per l’affare, ancorché l’operato dell’accomandante fosse stato successivamente ratificato dalla società; la deposizione del teste M., titolare di un ditta cui C. si era rivolto per l’acquisto di macchinari da adibire all’esercizio dell’impresa; la dichiarazione di un agente della Zurich Ass.ni di aver concordato con l’accomandante le condizioni di una polizza assicurativa della s.a.s.; l’invio da parte del C. di lettere, fax e mails ai creditori di N.S. per concordare un piano di rientro), esponendo – con motivazione esaustiva e nella quale non è dato ravvisare contraddizioni o deficienze aventi rilevanza causale decisiva sulle conclusioni raggiunte – le ragioni del proprio convincimento.
E il ricorrente, lungi dall’evidenziare le contraddizioni che inficiano il ragionamento probatorio su cui si fonda la decisione, dall’indicare la decisività delle circostanze che il giudice del merito avrebbe omesso di considerare o dal chiarire in qual modo, e sotto quali esatti profili, l’iter argomentativo seguito dalla corte territoriale non rispetterebbe i canoni della sufficienza e della coerenza, muove una serie di doglianze che si risolvono nella richiesta di sostituire all’interpretazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice a quo la propria personale interpretazione. Le doglianze, infatti, attengono alle medesime questioni già dedotte dal C. nei precedenti gradi del giudizio e già respinte dalla corte bolognese in base a valutazioni di merito non sindacabili nella presente sede (ad es.: la corte ha ritenuto irrilevante il fatto che il ricorrente avesse sottoscritto il preliminare di locazione del capannone e l’elenco allegato delle modifiche da eseguire nell’immobile in proprio, e non in nome e per conto di N.S., a fronte dell’ integrale recepimento del contenuto dei documenti nel contratto definitivo e dell’avvio delle opere di ristrutturazione da parte della locatrice ancor prima che il contratto venisse stipulato, che dimostravano che il C. aveva condotto le trattative per conto della società e che i suoi interlocutori fossero di ciò convinti; ha ritenuto inequivoche le dichiarazioni del teste M. e dell’agente assicurativo; ha accertato che l’accomandante era solito presentarsi quale soggetto titolare del potere di trattare per la s.a.s. sulla scorta di una molteplicità di documenti il cui esatto contenuto non è stato neppure richiamato nel ricorso).
Trova dunque applicazione il principio, ripetutamente enunciato da questa corte, secondo cui i vizi della sentenza posti a base del ricorso per cassazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice del merito o che siano attinenti alla difforme valutazione delle prove da questi operata, rispetto a quella pretesa dalla parte (Cass. nn. 17901/010, 10657/010, 7992/07, 12467/03).
Il controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza non può infatti spingersi fino alla rielaborazione del giudizio di fatto espresso dal giudice del merito, alla ricerca di una soluzione alternativa rispetto a quella ragionevolmente raggiunta, solo perché ritenuta la migliore possibile (Cass. n. 21153/010), non essendo in discussione la giustizia o meno della decisione, ma la presenza di difetti sintomatici di una possibile decisione ingiusta, che tali possono ritenersi solo se l’errore oggetto di possibile rilievo in cassazione abbia avuto adeguata incidenza causale sulla stessa (Cass. nn 12468/03, 7635/03, 5235/01).
La censura, poi, è inammissibile anche nella parte in cui il ricorrente lamenta la mancata ammissione delle prove orali richieste, senza riportarle nel motivo e senza indicare gli atti di causa o i verbali d’udienza in cui le avrebbe articolate.
3) Palesemente infondato, alla luce dell’accertamento compiuto dal giudice del merito in ordine alla sistematica e protratta ingerenza del C. nell’amministrazione della società, é infine il terzo motivo di censura, con il quale il ricorrente contesta che l’eventuale compimento da parte sua di singoli atti di gestione abbia comportato violazione del divieto di cui all’art. 2320 c.c.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore di A. di R. G. & C. s.r.l., che liquida in € 5.200, di cui € 200 per esborsi, oltre accessori di legge.
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