CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 6135 depositata il 7 marzo 2024

Lavoro – Pagamento differenze retributive – Cancellazione della società dal registro delle imprese – Rigetto – qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione

Rilevato che

1. La Corte d’Appello di Ancona ha accolto in parte l’appello di Z.U. e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato M.C. e S.C., in solido, al pagamento in favore del lavoratore della somma di euro 36.718,16 a titolo di differenze retributive.

2. La Corte territoriale ha premesso che il procedimento, instaurato nei confronti della S.A. snc di C.S. & C., era stato interrotto a seguito della cancellazione della società dal registro delle imprese e poi riassunto, a istanza del lavoratore, nei confronti dei soci M. e S.C.; ha respinto l’eccezione di inammissibilità della riassunzione, sollevata dagli appellati, sul rilievo che l’atto di riassunzione contenesse tutti i requisiti formali e sostanziali richiesti dall’art. 303 c.p.c.; ha accertato la tardiva costituzione della società nel giudizio di primo grado ed ha dichiarato la stessa decaduta dalle istanze istruttorie e, di conseguenza, non utilizzabili i mezzi di prova raccolti su impulso della medesima; ha ritenuto, sulla base delle prove testimoniali assunte, delle dichiarazioni rese da S.C. nel corso dell’interrogatorio, dei documenti acquisiti e dell’esito della c.t.u. espletata in appello, che fosse provato lo svolgimento di lavoro straordinario da parte del dipendente e quindi il diritto del medesimo alle differenze retributive (per lavoro straordinario ed altre voci) come calcolate dal consulente d’ufficio.

3. Avverso tale sentenza M.C. e S.C. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi, illustrati da memoria. Z.U. non ha svolto difese.

4. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.

Considerato che

5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza e del procedimento in relazione all’art. 125 disp. att. c.p.c., agli artt. 110, 300, 302, 303, 305 c.p.c. e all’art. 2312 c.c. sul rilievo che la riassunzione del processo, seguita alla interruzione dello stesso, è stata effettuata con un ricorso contenente l’editio actionis esclusivamente nei confronti della società cancellata dal registro delle imprese anziché nei confronti di M. e S.C. quali persone fisiche, con conseguente inammissibilità dell’atto di riassunzione ed estinzione del giudizio.

6. Con il secondo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 125 disp. att. c.p.c. e degli artt. 110, 300, 302, 303, 305 c.p.c. e dell’art. 2312 c.c., per avere la Corte d’appello errato nel dichiarare infondata l’eccezione di inammissibilità della riassunzione contenente conclusioni solo nei confronti della società, soggetto estinto, e notificata a M. e S.C. “quali soci della cancellata S.A. snc di C.S. & C.”.

7. Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c. e in relazione all’art. 92 disp. att. c.p.c., la nullità della sentenza e del procedimento per nullità della c.t.u., tempestivamente eccepita e non esaminata dalla Corte di merito, per avere il consulente d’ufficio individuato i contratti collettivi applicabili (e calcolato in base ad essi le differenze retributive) senza aver provocato un chiarimento o una integrazione del quesito da parte del Collegio, così esorbitando dai propri poteri ed omettendo di prospettare distinti calcoli, elaborati in base a diversi contratti collettivi potenzialmente applicabili.

8. Con il quarto motivo si censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 92 disp. att. c.p.c.; si deduce inoltre la nullità per violazione del procedimento (art. 360 n. 4 c.p.c.) nonché l’omesso esame di un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.) e la violazione dei contratti collettivi applicabili (art. 360 n. 3 c.p.c.). Si osserva che il lavoratore ha omesso di depositare le versioni integrali dei contratti collettivi che pretendeva di vedere applicati (avendo depositato solo schede riassuntive degli stessi) e che la Corte d’appello, in violazione dell’art. 2697 c.c., ha delegato al c.t.u. il compito di individuare il contratto collettivo applicabile; che il c.t.u., nonostante le osservazioni del consulente di parte, ha omesso di sollecitare un chiarimento o una integrazione del quesito da parte del Collegio ed ha individuato il contratto collettivo applicabile, così esorbitando dai propri poteri e senza prospettare distinti calcoli, elaborati in base a diversi contratti collettivi potenzialmente applicabili.

9. Con il quinto motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 421 e 437 c.p.c. per avere i giudici di appello errato nel non considerare indispensabili, e come tali ammissibili ai sensi delle disposizioni citate, le prove dedotte dalla società (tardivamente costituita in primo grado) e reiterate in appello.

10. Con il sesto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 r.d.l. 692/1923, dell’art. 3 d.lgs. 234/2007 e dell’art. 11 bis c.c.n.l. Autotrasporto Merci Artigianato 10.5.2001 sottoscritto da Confartigianato Trasporti – FAMAR CISAL; inoltre, l’omesso esame di due fatti decisivi per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., concernenti la natura discontinua del lavoro svolto e l’autonomia del lavoratore nell’esecuzione dell’attività e nell’utilizzo, anche per fini personali, del mezzo di trasporto.

11. Con il settimo motivo si imputa alla sentenza la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in ragione della soccombenza reciproca delle parti; la Corte d’appello ha riconosciuto al lavoratore crediti per euro 36.000,00 circa a fronte della richiesta di somme per euro 92.000,00 circa ed ha respinto il motivo di appello sulla condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

12. I primi due motivi, da trattare congiuntamente, pongono la questione del contenuto del ricorso in riassunzione proposto dal lavoratore, che si assume inammissibile perché recante conclusioni nei confronti della società estinta anziché nei confronti dei successori, M. e S.C.. Essi non sono fondati.

13. Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 6070 del 2013, hanno statuito che “La cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della “fictio iuris” contemplata dall’art. 10 legge fall.); pertanto, qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 e ss. cod. proc. civ., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ.; qualora l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso”.

14. Con particolare riferimento alle società di persone, si è precisato che “la cancellazione della società di persone dal registro delle imprese determina l’estinzione della società stessa, privandola della capacità di stare in giudizio, sicché, quando ciò intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la medesima è parte, ancorché questo non sia interrotto per mancata dichiarazione del corrispondente evento da parte del suo difensore, la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ai sensi dell’art. 110 c.p.c., ai soci quali successori a titolo universale divenuti partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione” (Cass. 13183 del 2017).

15. La riassunzione della causa deve avere il contenuto stabilito dall’art. 125 disp. att. c.p.c. e comporta la prosecuzione dell’originario giudizio.

16. Nel caso di specie, la corte di merito ha interpretato l’atto di riassunzione rilevando come risultasse “chiara, dal tenore dell’atto, la volontà dell’U. di rivolgere la propria domanda nei confronti dei soli C.S. e C. M. i quali, già soci della società cancellata, secondo la prospettazione attorea, sono i legittimi successori del rapporto originariamente facente capo alla società” (sentenza d’appello, pag. 3, sesto cpv.).

17. Il ricorso in riassunzione è stato notificato ai signori C. M. e S. e l’indicazione degli stessi come (già) soci della società rileva al fine di evidenziarne la legittimazione processuale dopo la estinzione della società oltre che la titolarità sostanziale quali destinatari della pretesa.

18. A proposito di riassunzione del processo in caso di morte di una delle parti, quindi di un fenomeno successorio analogo a quello di cui si discute, questa Corte ha chiarito che “La morte di una parte nel corso del giudizio comporta la necessità della prosecuzione del procedimento nei confronti dei suoi eredi, ma la circostanza che questi ultimi non vengano citati con la formale enunciazione di tale qualità non implica, di per sé, un difetto di legittimazione passiva degli stessi, allorché dall’atto di riassunzione emerga in modo inequivoco che i predetti sono stati evocati in giudizio non in proprio, ma quali successori della parte defunta (Cass. n. 20406 del 2013; v. anche Cass. n. 14100 del 2003).

19. Non ricorrono pertanto i vizi denunciati con i motivi di ricorso in esame.

20. Il terzo e il quarto motivo possono essere trattati congiuntamente perché pongono questioni tutte afferenti allo svolgimento della consulenza tecnica d’ufficio. Essi non sono fondati.

21. Occorre anzitutto precisare che l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi è imposto, a pena di improcedibilità del ricorso, unicamente per il giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ. (v. Cass. n. 4350 del 2015; n. 6255 del 2019) e detto onere può dirsi soddisfatto solo dalla produzione del testo integrale del contratto collettivo, adempimento rispondente alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione e necessario per l’applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c. c. (v. anche Cass. n. 10434 del 2006; n. 14461 del 2006; n. 8037 del 2007; n. 3027 del 2009; n. 16295 del 2010 in motivazione); al contrario, nel giudizio di merito, ove si ritenga indispensabile l’acquisizione del testo integrale del contratto collettivo, il giudice può utilizzare i poteri istruttori d’ufficio (così Cass. n. 14527 del 2021 in motivazione). Il ricorso in esame dà atto della avvenuta produzione, da parte del lavoratore, di “schede riassuntive” dei contratti collettivi ritenuti applicabili (cfr. ricorso per cassazione, pag. 16, quarto cpv.) e tanto basta ad escludere la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c.

22. La censura di violazione dell’art. 92 disp. att. c.p.c., formulata sul rilievo della individuazione del contratto collettivo applicabile ad opera del c.t.u. che, nonostante le contestazioni del consulente di parte, avrebbe omesso di sottoporre la questione al Collegio, è parimenti infondata atteso che la Corte di merito ha fatto proprie le conclusioni del c.t.u. “in quanto frutto di esaurienti ed accurate indagini, immuni da vizi logici o da errori di metodo e, comunque, adeguatamente chiarite anche in seguito alle osservazioni formulate dai consulenti di fiducia di entrambe le parti” ed ha riconosciuto come corretti i calcoli delle differenze retributive dal medesimo eseguiti in base alle disposizioni contrattuali ritenute applicabili (v. sentenza d’appello, pag. 6, ultimo cpv.); né, d’altra parte, gli attuali ricorrenti contestano specificamente come erronea l’applicazione del contratto collettivo in concreto effettuata, prospettando ad esempio l’adesione di parte datoriale ad associazioni firmatarie di altri accordi, con conseguente diverso calcolo degli importi riconosciuti a titolo di differenze retributive; la censura quindi appare anche priva di decisività. Tale rilievo esclude che possa configurarsi la violazione dei contratti collettivi ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. Neppure può dirsi integrato il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., atteso che l’omesso esame non riguarda un fatto, inteso in senso storico (v. Cass., S.U. n. 8053 e n. 8054 del 2014), ma investe la questione giuridica della individuazione del contratto collettivo atto a regolare il rapporto di lavoro.

23. Parimenti infondato è il quinto motivo di ricorso. Non è in contestazione l’avvenuta tardiva costituzione, nel giudizio di primo grado, della società convenuta. È altrettanto pacifico che il tribunale aveva ammesso le prove richieste dalla società convenuta ritenendo, sulla base di una errata interpretazione ed applicazione dell’art. 155 c.p.c., che la stessa si fosse tempestivamente costituita. La Corte d’appello, interpretando l’art. 155 c.p.c. in sintonia con la giurisprudenza di legittimità, ha accolto il motivo di appello sul punto del lavoratore ed ha rilevato la tardiva costituzione della parte convenuta e la conseguente decadenza della stessa dalle istanze istruttorie. Gli attuali ricorrenti censurano la decisione d’appello per violazione dell’art. 437 c.p.c. sul rilievo che le prove, già raccolte in primo grado su istanza della società e reiterate in appello, erano indispensabili e pretendono di desumere tale requisito dal fatto che le stesse erano state poste a base della decisione del tribunale, di rigetto delle domande del lavoratore. Simile censura non può, tuttavia, trovare accoglimento. Come chiarito da questa Corte, nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile “quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado” (Cass., S.U. n. 10790 del 2017; Cass. n. 24164 del 2017; n. 24129 del 2018; n. 15488 del 2020; n. 401 del 2023). L’art. 437 c.p.c. fa riferimento a prove non solo indispensabili, ma anche “nuove”, quindi non dedotte in primo grado (sebbene debbano essere stati allegati in primo grado i fatti costitutivi, estintivi o impeditivi oggetto di prova). Si è infatti sottolineato che “in nessun caso il potere del giudice d’appello di ammettere la prova indispensabile potrebbe essere esercitato riguardo a prove già in prime cure dichiarate inammissibili perché dedotte in modo difforme dalla legge o a prove dalla cui assunzione il richiedente sia decaduto a seguito di particolari vicende occorse nel giudizio di primo grado, non essendo queste – a rigori – neppure prove «nuove»” (così Cass., S.U. n. 10790 del 2017 in motivazione). Nel caso di specie manca il carattere di novità dei mezzi di prova dedotti in appello o il collegamento degli stessi a “piste probatorie” emerse nel corso del processo, dovendosi escludere che l’indispensabilità di tali mezzi di prova possa desumersi dall’esito della relativa assunzione, avvenuta contra legem nel giudizio di primo grado.

24. Il sesto motivo è inammissibile nella parte in cui denuncia la violazione di legge perché la parte ricorrente non specifica in che termini e in quale atto processuale abbia sollevato la questione relativa al carattere discontinuo del lavoro svolto da U. con applicabilità dell’art. 11 bis del c.c.n.l. citato.

25. Come affermato da questa S.C., qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. n. 23675 del 2013; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 11166 del 2018).

26. La censura è inammissibile nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. atteso che la questione relativa al carattere discontinuo e autonomo del lavoro involge non un mero fatto storico ma una qualificazione dell’attività avente conseguenze giuridiche e si colloca all’esterno del perimetro della disposizione citata (v. Cass., S.U. n. 8053 e n. 8054 del 2014). Inoltre, la Corte d’appello ha preso in esame la deduzione di parte datoriale secondo cui “gli orari di lavoro venivano autogestiti dall’U.” (sentenza, pag. 5, penultimo cpv.) ed ha ricostruito, in base alle prove raccolte, il tempo di lavoro del predetto.

27. Il settimo motivo, con cui si censura la decisione per mancata compensazione delle spese di lite in ragione della soccombenza reciproca, è parimenti infondato.

28. In tema di spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte anche solo parzialmente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese poiché tale condanna è consentita dall’ordinamento solo per l’ipotesi eccezionale di accoglimento della domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa (Cass. n. 1572 del 2018; n. 26918 del 2018; n. 13212 del 2023). Il sindacato della Corte di cassazione è pertanto limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca che negli altri casi consentiti dalla legge, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti minimi e massimi fissati dalle tabelle di volta in volta vigenti (cfr. Cass. n. 19613 del 2017; n. 8421 del 2017; Sez. 6 n. 24502 del 2017). Le critiche di parte ricorrente sulla regolazione delle spese esulano dall’ambito del sindacato di questa Corte di legittimità.

29. Le considerazioni svolte conducono al rigetto del ricorso.

30. Non si fa luogo alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità poiché la controparte non ha svolto difese.

31. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.