Corte di Cassazione sentenza n. 2768 del 6 febbraio 2013
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – RAPPORTO DI LAVORO – LICENZIAMENTO COLLETTIVO – COMPARAZIONE PER L’AVVIO ALLA MOBILITÀ – RESTRIZIONE AL PERSONALE DI UN’UNITÀ O DI UN SETTORE AZIENDALE – LEGITTIMITÀ – CONDIZIONI
massima
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In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità, può essere limitata agli addetti dell’unità o del settore da ristrutturare, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o a un settore dell’azienda, in quanto ciò non sia l’effetto dell’unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma sia obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione di personale.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
P.D.G. convenne in giudizio la ex datrice di lavoro L.I. srl e, lamentando un pregresso demansionamento, l’erronea liquidazione del TFR maturato e l’illegittimità del licenziamento intimatogli il 5.5.2005 in esito a procedura collettiva di mobilità, chiese il risarcimento dei danni asseritamene patiti, la riliquidazione del TFR e la declaratoria dell’illegittimità del recesso, con conseguente applicazione della tutela reale.
Radicatosi il contraddittorio e sulla resistenza della parte datoriale, il Giudice adito respinse le domande.
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 23.3 – 5.4.2010, accogliendo per quanto di ragione il gravame del lavoratore e in parziale riforma della pronuncia di prime cure, accertò l’illegittimità del licenziamento; condannò la parte datoriale alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno, liquidato in un’indennità pari alle retribuzioni mensili (euro 4.826,06) maturate dal gennaio 2007 sino alla reintegrazione; confermò la decisione di rigetto delle altre domande svolte in primo grado; compensò le spese dei due gradi nella misura della metà e condannò l’appellata alla rifusione della metà residua, liquidata in complessivi euro 5.000,00 oltre Iva e Cpa.
A sostegno del decisum, per ciò che ancora qui specificamente rileva, la Corte territoriale osservò quanto segue:
– spettava alla Società, anche secondo il generale criterio di ripartizione dell’onere probatorio nell’ambito dell’inadempimento contrattuale, dimostrare di aver correttamente applicato i criteri legali di scelta di cui all’art. 5 legge n. 223/91;
– in base all’accordo sindacale raggiunto all’esito della procedura di mobilità, non era stato fatto uso di criteri di scelta diversi da quelli legali, che erano stati espressamente richiamati; tali criteri dovevano quindi essere applicati “in concorso tra loro” (art. 5, primo comma, legge n. 223/91) e della modalità della loro applicazione doveva essere data puntuale indicazione nell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità (art. 4, comma 9, legge n. 223/91);
– l’attività societaria di acquisizione, progettazione (design) e costruzione dei siti di radio mobile, cosiddetta attività ADC, era distribuita tra i due settori ed uffici, Operation 1, facente capo alla sede di Milano Segrate, e Operation 2, facente capo alla sede di Roma; responsabili di tali identici settori erano rispettivamente il P.D.G. ed altro quadro, tale B.A., di minore anzianità aziendale;
– trattandosi di uffici in cui si effettuavano le medesime attività ed essendo la ragione della riduzione del personale, addotta dalla Società, collegata alla tipologia di attività e non esclusivamente all’attività svolta presso l’ufficio Operation I, l’ambito di applicazione dei criteri di scelta doveva riguardare all’intero complesso aziendale relativo all’attività da ridimensionare;
– nella comunicazione si era infatti parlato di futuro definitivo abbandono della vendita di servizi ADC, funzionalmente suddivisi, in Nord e Centro Sud, e se anche all’epoca dell’apertura della procedura (marzo 2005) l’attività dell’ufficio romano era oramai già ridotta, anche in termini di personale, non per questo potevano essere esclusi dal numero i due lavoratori esuberanti, in quanto comunque addetti a tali tipologie di attività, sebbene non presenti nell’ufficio di Milano;
– dalla comunicazione di apertura della procedura, allegata in atti, così come dalle deduzioni sul punto contenute nella memoria di costituzione di primo grado, non erano emerse quali fossero state le precise ragioni tecnico organizzative che avrebbero giustificato una delimitazione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta al solo ufficio milanese; e, al riguardo, doveva rilevarsi che la risposta non poteva essere quella della chiusura di tale ufficio, perché sarebbe stata affermazione tautologica o, ancor meglio, che avrebbe finito per confondere la causa con l’effetto;
– in conclusione non era stato in alcun modo dedotto e, quindi, provato, che l’eccedenza di personale dovesse essere limitata all’ufficio milanese, per essere le due unità romane caratterizzate, come specificato da richiamata giurisprudenza di legittimità, da “autonomia e specificità delle professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre”, presenti presso l’ufficio di Milano;
– in particolare era stato escluso il dipendente B.A., assunto ben dopo il P.D.G. e che aveva svolto le sue identiche mansioni di coordinamento dell’attività ADC presso l’ufficio di Roma;
– né poteva ritenersi rilevante la circostanza, confermata dalla responsabile delle risorse umane, sentita come teste, dell’invio in Algeria del B.A., “in maniera quasi concomitante alla cessazione di Operation 1”, perché nulla aveva precisato la società relativamente a precise esigenze tecnico organizzative che avessero richiesto la presenza di tale dipendente, piuttosto che del P.D.G., presso il cantiere algerino, sempre relativo a commessa avente ad oggetto pianificazione e costruzione di reti radiomobili;
– la mancata comparazione globale tra tutti i lavoratori che dovevano invece ritenersi esuberanti si era inevitabilmente ripercossa sulla comunicazione ex art. 4, comma 9, legge n. 223/91, che doveva così ritenersi effettuata in violazione di tale disposizione, determinando anche l’inefficacia del licenziamento;
– il risarcimento del danno conseguente alla accertata illegittimità del licenziamento non poteva essere liquidato nella misura delle mensilità decorrenti dalla data del recesso datoriale, avvenuto nel maggio 2005, non potendosi escludere che le conseguenze dannose del licenziamento illegittimo (concretizzatesi nella mancata retribuzione per tutto il tempo intercorso tra detto licenziamento e la reintegrazione) si fossero in realtà verificate anche con il concorso di colpa del danneggiato, al quale, ai sensi dell’art. 1127, comma 2, c.c., è richiesto un intervento attivo e positivo, volto non solo a limitare, ma anche evitare le conseguenze dannose;
– nel caso in esame il ricorso del P.D.G., pur tempestivamente presentato, aveva subito un rallentamento dovuto ad una irregolarità attribuibile al medesimo (mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione su tutte le domande azionate), irregolarità che aveva determinato la sospensione del processo, la sua riassunzione e, quindi, la fissazione della nuova udienza, solo dopo alcuni mesi; il danneggiato aveva quindi concorso, almeno sino alla fine del 2006, alla causazione di tale danno e l’indennità risarcitoria doveva pertanto essere limitata alle retribuzioni maturate solo dal gennaio 2007 sino alla reintegrazione.
Avverso tale sentenza della Corte territoriale, la L.I. srl ha proposto ricorso per cassazione fondato su cinque motivi.
L’intimato P.D.G. ha resistito con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, fondato su quattro motivi, a cui la ricorrente principale ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi vanno riuniti perché proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia violazione dell’art. 5, comma 1, legge n. 223/91, deducendo che, avendo deciso di sopprimere soltanto l’ufficio di Segrate, dandone compiuta indicazione nella comunicazione alle organizzazioni sindacali, correttamente aveva tenuto conto dei lavoratori addetti a tale ufficio, tutti posti in mobilità, non essendo necessario provvedere ad ulteriori esami comparativi, stante la non riferibilità della procedura ad altre unità produttive.
Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia vizio di motivazione in ordine all’interpretazione del contenuto della comunicazione preventiva della procedura di licenziamento collettivo resa dalla Corte territoriale, di cui lamenta l’errata valutazione per i motivi esposti nella precedente doglianza.
Con il terzo motivo la ricorrente principale denuncia vizio di motivazione in ordine all’erronea interpretazione delle risultanze istruttorie rispetto all’obbligo di comparazione, deducendo che il distacco del dipendente B.A. all’estero nel momento di avvio della procedura di licenziamento, disposto per poter seguire progetti di implementazione di siti, “rappresentava l’oggettiva ragione del sua non annoverabilità nella platea dei lavoratori in esubero”, senza che potesse essere imposta ad essa ricorrente la prova circa l’esistenza di fatti che imponessero il distacco del B.A. piuttosto che del P.D.G.; tale richiesta si porrebbe infatti in contrasto col potere imprenditoriale di determinare la propria struttura organizzativa, quale portato della libertà d’impresa ai sensi dell’art. 41 della Costituzione, nel mentre la decisione di distaccare il B.A. all’estero costituiva la ragione di natura organizzativa e produttiva (come tale annoverata dall’art. 5, comma 1, legge n. 223/91) che impediva di poter comparare la posizione del predetto dipendente con quella dell’odierno controricorrente.
Con il quarto motivo la ricorrente principale denuncia violazione degli artt. 1227, comma 2, c.c. e 18, comma 4, legge n. 300/70, deducendo che la condanna risarcitoria avrebbe dovuto essere contenuta nella misura minima di cinque mensilità di retribuzione, attesi la mancata ricerca da parte del P.D.G. di un’occupazione lavorativa e il suo rifiuto delle consistenti offerte conciliative formulategli.
Con il quinto motivo la ricorrente principale denuncia vizio di motivazione in merito all’assenza di prova fornita dal P.D.G. circa una sua ricerca di lavoro successiva al licenziamento e al suo rifiuto delle proposte conciliative, nulla avendo la Corte territoriale detto e motivato sul punto.
Con il primo motivo il ricorrente incidentale, denunciando violazione di plurime disposizioni di legge, nonché vizio di motivazione, si duole della disposta riduzione del risarcimento conseguente all’illegittimità del licenziamento deducendo che:
– i fatti ostativi all’insorgenza dell’indennità risarcitoria ovvero comportanti la sua determinazione in misura inferiore a quella prevista dall’art. 18 legge n. 300/70, costituendo oggetto di eccezione da parte del datore di lavoro, non potevano essere rilevati d’ufficio e la loro formulazione sarebbe dovuta avvenire ai sensi dell’art. 416, comma 2, c.p.c., nel mentre la parte datoriale nulla aveva eccepito al riguardo nel corso del giudizio di primo grado e, con il ricorso d’appello, si era limitata a dedurre l’aliunde perceptum, assumendo di essere venuta a conoscenza del fatto che il lavoratore licenziato svolgeva un’attività lavorativa (anche di natura imprenditoriale) per la quale percepiva un reddito; la disposta riduzione dell’indennità risarcitoria aveva quindi concretizzato la violazione per extrapetizione del disposto dell’art. 112 c.p.c.;
– in subordine, quand’anche si fosse ritenuto che l’eccezione fosse stata proposta con l’atto d’appello, si sarebbe comunque trattato di eccezione nuova, come tale inammissibile ai sensi dell’art. 437 (e non 347, quale indicato nel controricorso per evidente lapsus calami), comma 2, c.p.c.;
– comunque il tempo necessario alla tutela giurisdizionale dei propri diritti non poteva rilevare al fine della riduzione del danno, a maggior ragione laddove, come nel caso di specie, il lavoratore avesse immediatamente presentato ricorso;
– la motivazione addotta sul punto dalla Corte territoriale era peraltro insufficiente poiché: il tentativo di conciliazione era stato proposto fin dall’inizio anche in relazione alla domanda di mancata corresponsione del TFR, nella quale avrebbe dovuto ritenersi ricompresa quella relativa alle differenze retributive incidenti sul calcolo dello stesso TFR per erroneo computo del valore dell’auto aziendale; l’istanza integrativa alla Direzione Provinciale del Lavoro era stata presentata il 5.7.2006, onde non si spiegava per quale ragione il risarcimento fosse stato fatto decorrere dal 1° gennaio 2007; il tempo necessario per l’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione era giuridicamente “neutro” ai sensi dell’art. 410, comma 2, c.p.c..
Con il secondo motivo il ricorrente incidentale, denunciando violazione di plurime disposizioni di legge, nonché vizio di motivazione, si duole che la Corte territoriale, non tenendo conto dell’effettiva formulazione della domanda, abbia omesso di pronunciarsi sulla richiesta condanna al pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
Con il terzo motivo il ricorrente incidentale, denunciando violazione dell’art. 429, comma 3, c.p.c., lamenta che la Corte territoriale, nel liquidare l’indennità risarcitoria, abbia omesso di pronunciare la condanna al pagamento degli interessi e della rivalutazione monetaria.
Con il quarto motivo il ricorrente incidentale si duole della violazione delle disposizioni concernenti la liquidazione delle spese di lite, siccome avvenuta in misura inferiore ai limiti legali.
2. Secondo quanto reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità, può essere limitata agli addetti all’unità o al settore da ristrutturare, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un’unità produttiva o a un settore dell’azienda, in quanto ciò non sia l’effetto dell’unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma sia obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione di personale (cfr. ex plurimis e fra le più recenti, Cass., nn. 13705/2012; 2429/2012; 9711/2011; 25353/2009).
Ne deriva, per contro, che ove il progetto di ristrutturazione aziendale non si riferisca in modo esclusivo a un’unità produttiva o a un settore dell’azienda, la platea dei lavoratori comparabili dovrà riguardare tutti quelli che, nell’intero complesso aziendale, siano in possesso di professionalità equivalenti in relazione all’attività oggetto di ristrutturazione.
2.1 La Corte territoriale, avendo interpretato la comunicazione preventiva di cui al combinato disposto degli artt. 24 e 4, comma 2, legge n. 223/91 nel senso, quale diffusamente esposto nello storico di lite, che la ragione della riduzione del personale, addotta dalla Società, era collegata alla tipologia di attività (cosiddetta ADC) e non esclusivamente a quella espletata presso l’ufficio di Milano Segrate, ha fatto quindi corretta applicazione dei suddetti principi.
2.2 La dedotta violazione dell’art. 5, comma 1, legge n. 223/91 (insussistente, per le ragioni testé indicate, alla luce della lettura data dalla Corte territoriale alla comunicazione preventiva) presupporrebbe quindi l’erronea interpretazione della manifestata volontà datoriale, ossia l’errore interpretativo sul contenuto effettivo della ridetta comunicazione.
Secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione degli atti di autonomia privata è riservata al giudice del merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica e per vizi di motivazione, restando escluso che possa ritenersi ammissibile la censura consistente nella mera contrapposizione di un’interpretazione ritenuta più confacente alle aspettative della parte o più persuasiva di quella accolta nella sentenza impugnata, con il corollario che le censure basate sulle suddette violazioni devono essere specifiche, con indicazione dei singoli canoni ermeneutici violati e delle ragioni della asserita violazione, mentre le censure riguardanti la motivazione devono riguardare l’obiettiva insufficienza di essa o la contraddittorietà del ragionamento su cui si fonda l’interpretazione accolta, potendo il sindacato di legittimità riguardare esclusivamente la coerenza formale della motivazione, ovvero l’equilibrio dei vari elementi che ne costituiscono la struttura argomentativa (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 14850/2004; 4948/2003; 8994/2001).
Le doglianze svolte dalla ricorrente principale non rispettano tali indispensabili requisiti, non essendo stati neppure indicati i canoni ermeneutici dall’applicazione dei quali la Corte territoriale si sarebbe discostata, né l’eventuale (ma in effetti del tutto insussistente) contraddittorietà delle argomentazioni motivazionali svolte; ed in effetti la ricorrente principale si è limitata a contrapporre una propria lettura della nota di comunicazione divergente da quella resa nella sentenza impugnata, sollecitando questa Corte ad un’inammissibile indagine di merito.
2.3 Dal che discende il rigetto dei primi due motivi del ricorso principale.
2.4 Considerazioni in larga parte analoghe conducono al rigetto anche del terzo motivo del ricorso principale, atteso che:
– la censura svolta non specifica quale eventuale elemento di giudizio sarebbe stato erroneamente apprezzato dalla Corte territoriale nella sua effettiva concretezza fattuale (la Corte ha in effetti dato atto, sulla scorta della ricordata testimonianza, che il dipendente B.A. era stato inviato in Algeria “in maniera quasi concomitante alla cessazione di Operation 1”);
– l’accertamento fattuale, da parte della sentenza impugnata, in ordine alla circostanza che il cantiere algerino era sempre relativo a commessa avente ad oggetto pianificazione e costruzione di reti mobili, ossia la stessa tipologia di attività (cosiddetta ADC) alla quale era stata collegata dalla stessa parte datoriale la ragione della riduzione del personale, conduce logicamente a dover ricomprendere nella valutazione comparativa il personale dell’intero complesso aziendale addetto a tale attività, indipendentemente dalla localizzazione territoriale del suo svolgimento;
– sempre in via di accertamento fattuale, la Corte territoriale ha rilevato che la parte datoriale nulla aveva indicato in ordine alle precise esigenze tecnico organizzative che avrebbero eventualmente richiesto la presenza del B.A., piuttosto che del P.D.G., in Algeria.
2.5 Esclusa dunque la sussistenza di vizi riconducibili al paradigma di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., deve rilevarsi l’inammissibilità della doglianza nella parte in cui la stessa si traduce nella deduzione di presunte violazioni di legge, posto che, secondo l’orientamento di questa Corte, il vizio di motivazione denunciabile come motivo di ricorso per cassazione (appunto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.) può concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, ma non anche l’interpretazione e l’applicazione delle norme giuridiche (cfr, ex plurimis, Cass., SU, nn. 21712/2004; 261/2003; Cass., nn. 10922/2004; 194/2002; 4593/2000).
Per completezza di motivazione deve comunque rilevarsi che tali profili di violazione di legge sono insussistenti:
– quello afferente alla pretesa violazione dell’art. 5, comma 1, legge n. 223/91, perché, come detto, in difetto di specifiche indicazioni di ragioni tecnico organizzative diverse da quelle riconosciute nella sentenza impugnata, il dipendente B.A. non avrebbe potuto essere escluso dalla comparazione;
– quello della pretesa rilevanza ai fini de quibus del principio di libertà dell’iniziativa economica privata (art. 41 della Costituzione), perché l’esercizio del potere di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità è soggetto al rispetto di limiti di carattere interno, come l’osservanza di criteri coerenti, oggettivi e razionali, e di carattere esterno, derivanti dal divieto di discriminazioni fra i lavoratori e dagli obblighi di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. (cfr, in relazione alla sospensione per collocazione in CIG, ma con affermazione di principio che ben si attaglia anche al collocamento in mobilità per riduzione di personale, Cass., n. 18296/2002) e perché la libertà di iniziativa economica non può dirsi compressa dalla prescritta osservanza di determinate forme procedimentali, finalizzate a consentire un controllo sulla corretta applicazione di misure (adottate dal datore di lavoro nell’ambito della propria libertà di iniziativa economica) direttamente incidenti sui diritti dei lavoratori e, quindi, di rilevanza sociale (cfr. per arg., Cass., n. 10504/2001).
3. Il quarto e quinto motivo di ricorso principale, nonché il primo motivo di ricorso incidentale, vanno esaminati congiuntamente, siccome tutti inerenti, sotto speculari profili, alla riduzione dell’indennità risarcitoria ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.
3.1 Secondo il condiviso orientamento ermeneutico di questa Corte, l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso (di cui al primo comma dell’art. 1227 c.c.) va distinta da quella (disciplinata dal secondo comma della medesima norma) riferibile ad un contegno dello stesso danneggiato, che abbia prodotto il solo aggravamento del danno senza contribuire alla sua causazione, giacché, mentre nel primo caso il giudice deve procedere d’ufficio all’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, dello stesso, la seconda di tali situazioni forma oggetto di un’eccezione in senso stretto, in quanto il dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale espressione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede (cfr. ex plurimis, Cass., nn. 3240/2012; 12714/2010; 4799/2001).
Da ciò la conseguenza, sul piano processuale, della necessità che l’eccezione in parola, nel rito del lavoro, sia proposta dal convenuto con la comparsa di costituzione di primo grado, giusta la previsione dell’art. 416, comma 2, c.p.c., e che la stessa parte eccipiente, secondo le regole generali di ripartizione dell’onere probatorio, fornisca la prova dei fatti su cui l’eccezione si fonda; l’inosservanza del termine di proposizione dell’eccezione, posto a pena di decadenza, è poi rilevabile d’ufficio, senza che si renda necessaria una sollecitazione in tal senso da parte dell’attore (cfr, fra le tantissime, e per tutte, Cass., SU, n. 5680/1985); e, per ulteriore conseguenza, l’eccezione in senso stretto proponibile ma non ritualmente proposta in primo grado non può essere svolta, per la prima volta, in grado d’appello, giusta il disposto dell’art. 437, comma 2, c.p.c. (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 13076/2004; 8739/2003; 8855/2002; 923/2001; 4763/1999).
3.2 Nel caso che ne occupa la stessa parte datoriale, nel controricorso al ricorso incidentale, riconosce che, nel proprio atto d’appello (e non quindi già in prime cure), aveva eccepito che la somma eventualmente dovuta avrebbe dovuto essere ridotta e compensata con quanto il lavoratore avesse nelle more percepito in ragione delle attività da lui prestate ovvero di quanto avrebbe potuto ricevere qualora si fosse diligentemente attivato per trovare una soluzione professionale e reddituale alternativa alla propria occupazione.
Ne discende che, anche a voler ritenere che tale eccezione potesse essere ricondotta, almeno nella seconda parte, sotto il paradigma dell’art. 1227, comma 2, c.p.c., la stessa, oltre che inammissibilmente generica, era irrimediabilmente tardiva e, come tale, non esaminabile dalla Corte territoriale, tanto più che nessun accenno risultava svolto con riferimento alla ritardata decisione della controversia per effetto del mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione in ordine a tutte le domande azionate.
Né, al riguardo, vertendosi in tema di preclusioni processuali sottratte alla disponibilità delle parti, avrebbero potuto essere valorizzati l’omesso rilievo da parte del lavoratore della tardività dell’eccezione ovvero un’eventuale sua accettazione del contraddittorio (a cui si fa riferimento nel controricorso al ricorso incidentale), e ciò fermo restando che la presentazione della documentazione afferente ai redditi percepiti deve ritenersi pertinente alla distinta eccezione di aliunde perceptum e, comunque, come pure riconosciuto dalla datrice di lavoro, effettuata aderendo ad una richiesta della Corte territoriale.
3.3 Per completezza di motivazione deve poi rilevarsi come il quarto e il quinto motivo del ricorso principale presentano altresì evidenti profili di inammissibilità per violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo ivi specificate quali fossero le emergenze processuali (nonché i tempi e i modi della loro rituale acquisizione) dalle quali dovrebbe desumersi il dedotto accertamento della mancata ricerca da parte del P.D.G. di un’occupazione alternativa (la sentenza impugnata essendosi limitata ad affermare che tra le ordinarie attività richieste al lavoratore creditore per ridurre il danno rientra anche la sua iscrizione alla liste di collocamento, ma nulla avendo detto sulla concreta ricorrenza di tale circostanza nel caso di specie, che, infatti, neppure è posta a sostegno della operata riduzione dell’indennità risarcitoria) e del suo reiterato rifiuto di consistenti offerte conciliative.
3.4 Inoltre, sempre per completezza di motivazione, deve rilevarsi che la decisione assunta sul punto dalla Corte territoriale si pone in contrasto con il condivisibile principio, già affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di risarcimento del danno cui è tenuto il datore di lavoro in conseguenza del licenziamento illegittimo e con riferimento alla limitazione dello stesso, ex art. 1227, secondo comma, c.c., in relazione alle conseguenze dannose discendenti dal tempo impiegato per la tutela giurisdizionale da parte del lavoratore, le stesse non sono imputabili al lavoratore tutte le volte che – sia che si tratti di inerzia endoprocessuale, che di inerzia preprocessuale – le norme attribuiscano poteri paritetici al datore di lavoro per la tutela dei propri diritti e per la riduzione del danno (cfr. Cass., n. 9898/2005, che ha riconosciuto l’esistenza di analoghi poteri del datore di lavoro proprio in ordine al promovimento del tentativo di conciliazione; cfr. altresì, Cass., n. 5993/1995).
3.5 In definitiva, restando assorbiti gli altri profili di doglianza svolti sul punto dal ricorrente incidentale, il quarto e il quinto motivo del ricorso principale vanno rigettati, mentre il primo motivo del ricorso incidentale risulta fondato.
4. In ordine al secondo motivo del ricorso incidentale, deve osservarsi che la previsione, in ipotesi di declaratoria di inefficacia del licenziamento, di condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione è espressamente contemplata dall’art. 18, comma 4, legge n. 300/70 (nel testo, modificato dalla legge n. 108/90, applicabile ratione temporis alla presente controversia); non avendo la Corte territoriale pronunciato la pur richiesta condanna della parte datoriale al pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali, il motivo di ricorso all’esame deve ritenersi fondato (cfr. ex plurimis, Cass., nn. 29936/2008; 4261/2005), vertendosi in tema di omessa pronuncia e non già di mero errore di calcolo, come sostenuto dalla parte datoriale.
5. Deve altresì ritenersi la fondatezza del terzo motivo del ricorso incidentale (anche in questo caso vertendosi in tema di omessa pronuncia e non già di mero errore di calcolo, come sostenuto dalla parte datoriale), poiché il diritto del lavoratore al risarcimento dal danno per l’illegittima risoluzione anticipata del proprio rapporto di lavoro sorge alla data di tale anticipata risoluzione, sicché dalla stessa data devono decorrere rivalutazione ed interessi sul relativo credito, il quale rientra nella nozione di credito di lavoro ai sensi dell’art. 429, comma 3, c.p.c., dato che la pretesa risarcitoria del lavoratore, sebbene non sinallagmaticamente collegata alla prestazione lavorativa, rappresenta pur sempre l’utilità economica che lo stesso avrebbe tratto dall’esecuzione della prestazione, se non impedita dall’illegittimo comportamento dell’imprenditore (cfr. Cass., nn. 4672/1993; 5993/1995; 10043/1996; 11718/2000; 29936/2008, cit).
6. L’accoglimento dei primi tre motivi del ricorso incidentale, comportando la necessità, previa cassazione della sentenza impugnata, di una nuova decisione nel merito e, conseguentemente, di una nuova liquidazione delle spese di lite, determina l’assorbimento del quarto motivo del ricorso incidentale.
7. In conclusione risultano fondati il primo, il secondo e il terzo motivo del ricorso incidentale, con assorbimento del quarto, mentre il ricorso principale va rigettato; consegue la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio al Giudice designato in dispositivo, che pronuncerà conformandosi ai suddetti principi di diritto e provvedere altresì sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il primo, il secondo e il terzo motivo del ricorso incidentale, dichiara assorbito il quarto e rigetta il ricorso principale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.
Così deciso in Roma il 12 dicembre 2012.
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