CORTE DI APPELLO BRESCIA – Sentenza 30 novembre 2016, n. 444
Stranieri – Assegno di natalità – Requisiti – Soggiornante di lungo periodo
Svolgimento del processo
Con ricorso ai sensi del rito speciale di cui al combinato disposto dell’art. 28 d.lgs. 150/2011 e dell’art. 702 bis c.p.c., avanti al Tribunale di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, B.L.A., E.G.E.M. e E.B.K. hanno agito per ottenere l’accertamento del carattere discriminatorio della condotta tenuta dall’INPS che aveva loro negato il diritto all’assegno di natalità previsto dall’art. 1 c. 125 L. 190/14 in quanto non soggiornanti di lungo periodo. Hanno chiesto la cessazione di detta condotta e la condanna dell’Istituto alla corresponsione di quanto previsto dalla norma, allegando di avere il requisito reddituale richiesto.
Con ordinanza del 9 agosto 2016, il giudice ha accolto il ricorso e ha dichiarato il carattere oggettivamente discriminatorio della condotta tenuta dell’ente previdenziale nei confronti dei ricorrenti, accertando il loro diritto a percepire la prestazione richiesta. Il Tribunale, in particolare, ha disapplicato la norma, che esclude la provvidenza per i cittadini stranieri lavoratori, atteso che il requisito di essere lungo soggiornante non può riguardare le prestazioni in materia di sicurezza sociale a favore di lavoratori ma solo quelle di assistenza.
Avverso l’ordinanza l’Inps, con ricorso depositato il 6 settembre 2016, ha proposto appello ai sensi dell’art. 702 quater c.p.c., censurando la decisione sotto vari profili.
Gli appellati si sono costituiti tempestivamente in giudizio e hanno resistito all’impugnazione.
All’esito dell’odierna udienza, la causa è stata discussa e trattenuta in decisione.
Motivi della decisione
E’ pacifico che gli appellati hanno presentato regolare domanda di assegno di natalità e che lo stesso non è stato concesso dall’Inps per mancanza del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, che è effettivamente requisito indefettibilmente richiesto dall’art. 1 co. 125 L. 190/2014.
Il primo giudice, in accoglimento delle loro tesi, ha ritenuto sussistesse contrasto tra la norma citata e l’art. 12 direttiva 2011/98, volta a garantire parità di trattamento ai cittadini di paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa ai quali è consentito lavorare nonché ai cittadini dei paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, con i lavoratori cittadini dello stato membro in cui soggiornano, nel settore della sicurezza sociale, come definito dal regolamento CE 883/2004.
Essendo il termine per il recepimento della direttiva 2011/98 scaduto il 25 dicembre 2013 e non essendovi dubbio che la disposizione dell’art. 12 è di portata chiara ed incondizionata, la stessa, secondo il primo giudice, deve trovare direttamente applicazione nel nostro ordinamento con conseguente disapplicazione delle norme nazionali eventualmente contrastanti: ne conseguiva che l’assegno doveva certamente essere concesso, in quanto l’obbligo di applicazione diretta non grava solo sull’autorità giudiziaria, ma anche su tutti gli organi della PA, e dunque anche sull’Inps.
Con il primo motivo d’appello l’INPS censura che il Tribunale abbia errato nel ritenere, nella fattispecie, la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione ai sensi dell’art. 28 d.lgs.150/2011 e art.44 TU Imm., atteso che esso ente si sarebbe limitato ad applicare una disposizione legislativa, valida, vigente ed efficace. Deduce poi che, ove fossero ravvisabili frizioni tra la Direttiva CE n.2011/98, i principi di parità e l’art.1 comma 125 L.190/2014, la questione avrebbe dovuto essere rimessa alla Corte Costituzionale.
Inoltre, la prestazione in esame, non configurandosi come prestazione assistenziale di contenuto essenziale, in quanto non è altro che una integrazione del reddito che ben può essere sottoposta al requisito del radicamento nel territorio, non fa parte delle prestazioni famigliari a cui si riferisce il regolamento 883/2004, ma rientra nell’accezione di cui all’art. 3 lettera j dello stesso regolamento.
Ritiene la Corte che l’appello non possa essere accolto.
Quanto al potere di disapplicazione della normativa nazionale (dovendosi al contrario, secondo l’ente, passare attraverso l’incidente di costituzionalità ovvero il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea) e alla sussistenza di una condotta discriminatoria attribuibile ad esso ente, che si è limitato ad applicare una legge, questa Corte ha già avuto modo di esprimersi, pur consapevole della difficoltà della condotta che si pretende dall’istituto.
L’art. 12 della direttiva 2011/98/UE non è stata recepita nel nostro ordinamento ma non vi è dubbio, per quanto si vedrà, che si tratta di una direttiva con efficacia diretta in quanto il precetto è sufficientemente preciso, incondizionato, in quanto lo Stato non deve svolgere alcuna attività per applicarlo, e riguarda rapporti di efficacia verticale.
In materia, dunque, contrariamente a quanto sostenuto dall’ente previdenziale, la direttiva ha efficacia diretta ed è quindi “autoesecutiva”, nel senso che trova ingresso nell’ordinamento interno senza necessità di alcuna norma di recepimento: la stessa nella gerarchia delle fonti normative si pone al di sopra della legislazione nazionale, la quale, se contrastante, va pertanto direttamente disapplicata.
Inoltre, essendo chiaro il significato della norma comunitaria, neppure vi è motivo per un rinvio alla Corte di Giustizia.
Va poi osservato che, in ogni caso, se l’applicazione della norma in esame pone lo straniero lavoratore in una situazione di svantaggio rispetto al cittadino italiano lavoratore (come pacificamente nel caso di specie), si realizza una discriminazione oggettiva (per la cui configurabilità non è necessaria alcuna volontà diretta a porla in essere), con ogni conseguenza in tema di ammissibilità della relativa azione speciale.
Per quanto riguarda la questione della attribuibilità all’Inps di una condotta discriminatoria per aver omesso di applicare direttamente la normativa comunitaria, prevalente su quella interna incompatibile, questa Corte, come ricordato dall’Inps, ha già avuto modo di rilevare come si tratti di questione delicata che va valutata caso per caso, tenendo conto anche del contesto che ha interessato l’azione dell’ente previdenziale (cfr. sent. n. 172/2015, dep. il 9-6-2015).
Tuttavia, deve osservarsi che secondo consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia l’obbligo di applicazione diretta della norma comunitaria grava su tutti gli organi dello Stato, ivi comprese le pubbliche amministrazioni. In tema merita citare, per tutte, la pronuncia CGE 103/88, F.lli Costanzo.
L’Inps, dunque, aveva l’obbligo di disapplicare la norma interna, creando tale disposizione una situazione di disparità di trattamento ai danni dei ricorrenti, se in contrasto con la direttiva di cui si è trattato sino ad ora.
Non può quindi negarsi, come accertato dal Tribunale, che l’ente previdenziale (omettendo di disapplicare la norma interna nel caso di specie) abbia tenuto una condotta oggettivamente discriminatoria ai danni dei ricorrenti, a prescindere dal relativo intento.
Nel merito, infatti, la Direttiva invocata stabilisce «una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare a fini lavorativi nel territorio di uno Stato membro, al fine di semplificare le procedure di ingresso e di agevolare il controllo del loro status» (art. 1, paragrafo 1); inoltre, stabilisce «un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, a prescindere dalle finalità dell’ingresso iniziale nel territorio dello Stato membro in questione, sulla base della parità di trattamento rispetto ai cittadini di quello Stato membro» (art. 1, paragrafo 2).
L’art. 12, che si occupa del diritto alla parità di trattamento, prevede che:
1. I lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c), beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne:
a) le condizioni di lavoro, tra cui la retribuzione e il licenziamento nonché la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro;
b) la libertà di associazione, adesione e partecipazione a organizzazioni di lavoratori o di datori di lavoro o a qualunque organizzazione professionale di categoria, compresi i vantaggi che ne derivano, fatte salve le disposizioni nazionali in materia di ordine pubblico e pubblica sicurezza;
c) l’istruzione e la formazione professionale;
d) il riconoscimento di diplomi, certificati e altre qualifiche professionali secondo le procedure nazionali applicabili;
e) i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004;
f) le agevolazioni fiscali, purché il lavoratore sia considerato come avente il domicilio fiscale nello Stato membro interessato;
g) l’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi, incluse le procedure per l’ottenimento di un alloggio, conformemente al diritto nazionale, fatta salva la libertà contrattuale conformemente al diritto dell’Unione e al diritto nazionale;
h) i servizi di consulenza forniti dai centri per l’impiego.
2. Gli Stati membri possono limitare la parità di trattamento:
a) in ordine al paragrafo 1, lettera c):
i) restringendone l’applicazione ai lavoratori di paesi terzi che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa e sono registrati come disoccupati;
ii) escludendo i lavoratori di paesi terzi che sono stati ammessi nel territorio nazionale ai sensi della direttiva 2004/114/CE;
iii) escludendo le borse di studio e i prestiti concessi a fini di studio e di mantenimento o altri tipi di borse e prestiti;
iv) stabilendo requisiti specifici, tra cui il possesso di conoscenze linguistiche e il pagamento di tasse scolastiche, conformemente al diritto nazionale, per quanto riguarda l’accesso all’università e all’istruzione post-secondaria, nonché alla formazione professionale che non sia direttamente collegata all’attività lavorativa specifica;
b) limitando i diritti conferiti ai lavoratori di paesi terzi ai sensi del paragrafo 1, lettera e), senza restringerli per i lavoratori di paesi terzi che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati.
Inoltre, gli Stati membri possono decidere che il paragrafo 1, lettera e), per quanto concerne i sussidi familiari, non si applichi ai cittadini di paesi terzi che sono stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo non superiore a sei mesi, ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi a scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è consentito lavorare in forza di un visto;
c) in ordine al paragrafo 1, lettera f), per quanto concerne le agevolazioni fiscali, limitando l’applicazione ai casi in cui i familiari del lavoratore di un paese terzo per i quali si chiedono le agevolazioni abbiano il domicilio o la residenza abituale nel territorio dello Stato membro interessato”.
I ricorrenti hanno sostenuto di rientrare nella lettera e) e di aver lavorato già da lungo tempo, non rientrando quindi nell’eccezione sopra citata.
Ai sensi dell’art. 3 paragrafo 1, la Direttiva si applica solo ai cittadini di paesi terzi «che chiedono di soggiornare in uno Stato membro a fini lavorativi» o ai cittadini di paesi terzi ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, «ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002, circostanza questa non negata dall’INPS.
Sotto il profilo oggettivo la prestazione richiesta, sebbene assistenziale secondo una distinzione propria dell’ordinamento italiano, ricade nel settore della sicurezza sociale oggetto del regolamento comunitario richiamato dalla direttiva, perché è diretta a tutelare economicamente la maternità e paternità, in modo continuativo fino al compimento dei tre anni di età del bambino, ed è corrisposta in modo automatico e non discrezionale laddove sussistano i requisiti di reddito prescritti.
Infatti, il Regolamento 29/04/2004 n. 883, all’art. 3, che si occupa dell’ambito d’applicazione «ratione materiae», prevede:
1. Il presente regolamento si applica a tutte le legislazioni relative ai settori di sicurezza sociale riguardanti:
a) le prestazioni di malattia;
b) le prestazioni di maternità e di paternità assimilate;
c) le prestazioni d’invalidità;
d) le prestazioni di vecchiaia;
e) le prestazioni per i superstiti;
f) le prestazioni per infortunio sul lavoro e malattie professionali;
g) gli assegni in caso di morte;
h) le prestazioni di disoccupazione;
i) le prestazioni di pensionamento anticipato;
j) le prestazioni familiari.
2. Fatte salve le disposizioni dell’allegato XI, il presente regolamento si applica ai regimi di sicurezza sociale generali e speciali, contributivi o non contributivi, nonché ai regimi relativi agli obblighi del datore di lavoro o dell’armatore.
3. Il presente regolamento si applica anche alle prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo di cui all’articolo 70.
4. Tuttavia, le disposizioni del titolo III del presente regolamento non pregiudicano le disposizioni legislative degli Stati membri relative agli obblighi dell’armatore.
5. Il presente regolamento non si applica:
a) all’assistenza sociale e medica;
b) alle prestazioni per le quali uno Stato membro si assume la responsabilità per i danni alle persone e prevede un indennizzo, quali quelle a favore delle vittime di guerra e di azioni militari o delle loro conseguenze, le vittime di reato, di omicidio o di atti terroristici, le vittime di danni causati da agenti dello Stato membro nell’esercizio delle loro funzioni, o le persone che abbiano subito un pregiudizio per motivi politici o religiosi o a causa della loro discendenza”.
Non può dunque negarsi che l’assegno di natalità rientri nell’art. 3 lett.b) e non soffra eccezioni.
Con riferimento agli altri requisiti, l’attestazione ISEE è idonea a provare il possesso dei requisiti di reddito, fatto peraltro riconosciuto dall’INPS stesso che, in sede amministrativa, non aveva contestato la sussistenza dei presupposti di legge per l’erogazione dell’assegno se non sotto il profilo della mancanza del permesso di lungo soggiornante.
Come già affermato dal primo giudice, la mancata erogazione dell’assegno di natalità ha, dunque, carattere oggettivamente discriminatorio alla stregua della normativa comunitaria.
L’appello, dunque, non può trovare accoglimento.
Per quanto attiene alle spese del presente grado di giudizio, le stesse vanno poste a carico dell’Inps in quanto soccombente.
Trattandosi di rigetto integrale dell’impugnazione, l’Inps è altresì tenuto al versamento dell’importo previsto dall’art. 1, co. 17, legge 228/12.
P.Q.M.
Respinge l’appello avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale di Bergamo in data 9 agosto 2016, nell’ambito del procedimento ex art. 28 del d.lgs. 150/2011; condanna l’Inps al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, liquidandole in complessivi € 1800,00, oltre accessori di legge.
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