CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 maggio 2018, n. 13265
Rapporto di lavoro – Sanzione disciplinare – Sospensione dal lavoro – CCNL – Licenziamento – Inquadramento nella qualifica superiore
Rilevato
che con sentenza 20 luglio 2016, la Corte d’appello di Venezia rigettava l’appello principale di H. & B. s.p.a. (incorporante la H&B Diffusion s.r.l., datrice di lavoro di S. M.) avverso la sentenza di primo grado, che aveva: accertato l’esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro tra le suddette società; dichiarato illegittimi e annullato la sanzione disciplinare di tre giorni di sospensione con lettera 7 dicembre 2011 e il licenziamento intimato con lettera 10 gennaio 2012; condannato la società alla reintegrazione del lavoratore e al risarcimento del danno in suo favore in misura della retribuzione globale di fatto dalla data di licenziamento a quella di reintegrazione, detratto l’aliunde perceptum, oltre accessori e contributi; rigettato le domande del lavoratore di annullamento delle ulteriori sanzioni disciplinari impugnate, di risarcimento del danno da mobbing e di accertamento del diritto ad inquadramento nella superiore qualifica di I livello del CCNL Commercio;
che in riferimento a quest’ultima domanda, la Corte territoriale, in parziale accoglimento dell’appello incidentale del lavoratore, ne riconosceva il diritto all’inquadramento al II livello del CCNL cit. dalla data di assunzione, condannando la società datrice alla relativa differenza retributiva, liquidata in € 343,83 oltre accessori; che avverso tale sentenza H. & B. s.p.a. ricorreva per cassazione con cinque motivi, cui resisteva S. M. con controricorso, con ricorso incidentale con quattro motivi, cui replicava la società con controricorso; che non svolgevano invece difese gli intimati M. A. e Alfonso Altieri; che la società comunicava memoria ai sensi dell’art. 380bis c.p.c., con allegazione di un’ordinanza di merito inammissibile, a norma dell’art. 372 c.p.c., siccome non riguardante la nullità della sentenza impugnata, né l’ammissibilità del ricorso o del controricorso;
che il difensore del lavoratore depositava la revoca del proprio mandato;
Considerato
che la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 1 e 3 I. 604/1966, 7 I. 300/1970 e artt. 220/227 CCNL Commercio Terziario, anche in relazione agli artt. 1361 ss. c.c., 30, primo e terzo comma I. 183/2010, per erronea interpretazione dell’art. 225, quarto comma CCNL cit., di previsione del licenziamento disciplinare in caso di “recidiva oltre la terza volta nell’anno solare In qualunque delle mancanze che prevedono la sospensione fatto salvo quanto previsto per la recidiva nei ritardi” (a proposito della quale lo stesso comma specifica essere causa di licenziamento “la recidiva nei ritardi ingiustificati oltre la quinta volta nell’anno solare, dopo formale diffida per iscritto”), come verificatosi nel caso di specie, per l’intimazione del licenziamento disciplinare il 15 dicembre 2011, alla quinta mancanza dopo le precedenti in date 8, 18, 21 e 24 novembre 2011, essendosene verificate (quand’anche esclusa la terza, sanzionata con una sospensione di tre giorni, per ravvisata mancanza di prova) comunque tre, nell’irrilevanza per la seconda (nonostante la contestata sottrazione di merce aziendale) della mancata irrogazione di una sanzione (la prima essendo stata sanzionata con tre ore di multa e la quarta con una sospensione di tre giorni): non potendo la disposizione contrattuale collettiva essere intesa alla stregua di reiterazione nelle sanzioni anziché nelle mancanze, in contrasto con il suo chiaro tenore letterale e con la prescrizione di un controllo giudiziale rispettoso dei corretti limiti di verifica dei presupposti di legittimità e di tipizzazione delle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo negoziate dalle parti collettive (primo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2119 c.c., 1 e 3 I. 604/1966, 7 I. 300/1970, 220/227 CCNL Commercio Terziario, 30, primo e terzo comma I. 183/2010 ed omesso esame di fatti decisivi controversi, per mancata considerazione, né tanto meno motivazione, in ordine alla contestazione, nell’addebito del 15 dicembre 2011 comportante il licenziamento, dell’aggravante della recidiva ai sensi dell’art. 7 I. 300/1970, per la riconduzione delle mancanze contestate “nel recentissimo passato” a un disegno unitario, da valutare nella sua globalità (secondo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. (anche in relazione alle citate norme del CCNL), 1 e 3 I. 604/1966, 7 I. 300/1970, 112, 115, primo e secondo comma, 116, 437, secondo comma c.p.c., 2697, 2721, 2727, 2728, 2729 c.c. ed omesso esame di fatti decisivi controversi, per erronea esclusione della responsabilità del lavoratore in ordine agli addebiti disciplinari, con specifico riguardo al primo episodio contestato di spegnimento dell’impianto di antitaccheggio (5 e 6 dicembre 2011), in esito ad un’arbitraria e non corretta ricostruzione dei fatti, in spregio alle risultanze documentali e testimoniali, con malgoverno dei principi in particolare regolanti il regime delle presunzioni (terzo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2119 c.c. (anche in relazione alle citate norme del CCNL), 1 3, e 5 I. 604/1966, 7 I. 300/1970, 112, 115, primo e secondo comma, 116 c.p.c., 2697, 2721, 2727, 2728, 2729 c.c. ed omesso esame di fatti decisivi controversi, per analoghe censure formulate in merito al secondo episodio contestato di spegnimento dell’impianto di antitaccheggio in data 9 dicembre 2011 (quarto motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 c.c. (anche in relazione all’art. 41 del CCNL di categoria: declaratorie di inquadramento), 2097, 2098 c.c., 112 c.p.c. ed omesso esame di fatti decisivi controversi, per vizio di ultrapetizione nel riconoscimento di un livello di inquadramento (II) neppure richiesto dal lavoratore (che aveva domandato esclusivamente l’attribuzione del I livello) e comunque non spettante, in quanto non corrispondente alle mansioni né alle responsabilità in concreto esercitate, alla luce delle risultanze istruttorie (quinto motivo);
che a propria volta il lavoratore controricorrente, in via di ricorso incidentale, deduce falsa applicazione degli artt. 100 CCNL Commercio Terziario e 2103 c.c., per erronea attribuzione, in ragione delle mansioni svolte, del II anziché del I livello di inquadramento, per una non corretta individuazione delle loro caratteristiche distintive (primo motivo); violazione dell’art. 7 I. 300/1970, per la mancanza di proporzionalità della sanzione comminata (tre giorni di sospensione) al fatto contestato del 24 novembre 2011 (sottrazione di capi d’abbigliamento), soprattutto in confronto con le due precedenti contestazioni, non meno gravi, per cui comminate tre ore di multa (la prima dell’8 novembre 2001) e nessuna sanzione (quella del 18 novembre 2011) (secondo motivo); omesso esame del fatto decisivo e controverso della mancata previa affissione del codice disciplinare, comportante l’illegittimità di tutti i provvedimenti disciplinari comminati (terzo motivo); falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., per l’erronea e contraddittoria esclusione di un comportamento di mobbing nei confronti del lavoratore (quarto motivo);
che il collegio ritiene che il primo motivo principale sia infondato; che, in via di premessa, occorre ribadire la spettanza, in sede di legittimità, della diretta interpretazione delle clausole dei contratti o accordi collettivi di lavoro, denunciate di violazione o falsa applicazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. (come modificato dall’art. 2 d.lg. 40/2006 n.40), per la loro parificazione sul piano processuale a quella delle norme di diritto, in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (artt. 1362 ss. c.c.) come criterio interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione dell’esattezza e della congruità della motivazione: senza più necessità, a pena di inammissibilità della doglianza, di una specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, né del discostamento da parte del giudice di merito dai canoni legali assunti come violati o di una loro applicazione sulla base di argomentazioni illogiche o insufficienti (Cass. 19 marzo 2014, n. 6335; Cass. 9 settembre 2014, n. 18946); che una tale operazione interpretativa presuppone l’ovvia verifica dell’integrale produzione in giudizio (nel caso di specie avvenuta), ai fini di procedibilità ai sensi dell’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., del CCNL in esame (Cass. 4 marzo 2015, n. 4350; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 23 novembre 2017, n. 27493), per il pieno adempimento della funzione nomofilattica di questa Corte e la necessità di applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c., anche mediante l’esame di altre clausole collettive diverse da quelle denunciate (Cass. 16 settembre 2014, n. 19507);
che appare corretta l’interpretazione dell’art. 225, quarto comma CCNL Commercio Terziario, resa dalla Corte territoriale (a pg. 17 della sentenza), nel senso dell’esclusione tout court della facoltà datoriale di licenziamento, in caso di “recidiva oltre la terza volta nell’anno solare in qualunque delle mancanze che prevedono la sospensione fatto salvo quanto previsto per la recidiva nei ritardi” (ossia “oltre la quinta volta nell’anno solare, dopo formale diffida per iscritto”), sul presupposto
dell’irrilevanza delle tre mancanze, in quanto non seguite tutte dall’irrogazione di una sanzione disciplinare;
che il termine “mancanza”, oltre che atecnico, è in sé neutro, potendo essere associato alla sola contestazione ovvero alla sanzione: in questo ultimo senso appare deporre la sua collocazione (nell’art. 225, rubricato “Provvedimenti disciplinari”) in immediata correlazione causale, nell’ambito della “inosservanza dei doveri da parte del personale dipendente” proprio “in relazione all’entità delle mancanze”, con i provvedimenti disciplinari (enumerati da 1 a 5 al primo comma), tra i quali appunto il “licenziamento disciplinare senza preavviso” (al n. 5), anche per l’ipotesi qui scrutinata;
che l’automatismo di comminazione della massima sanzione disciplinare, per il solo ricorrere della recidiva (senza neppure previa diffida, come invece previsto per i ritardi) in “mancanze che prevedono la sospensione” (art. 225, terzo comma CCNL cit.), declinata, come ogni altro provvedimento disciplinare, in termini di applicazione (“si applica”), per l’esigenza di un obiettivo riscontro di accertata ricorrenza (oltre che di valutata gravità) della “mancanza” , suffraga l’interpretazione della sua accezione nel senso di “sanzionata”, piuttosto che di meramente “contestata”; che, infatti, la contestazione costituisce una fase, di semplice avvio, del procedimento disciplinare, seguita dalle successive di giustificazione difensiva del lavoratore, di istruzione e finalmente di deliberazione: comportante la non trascurabile conseguenza che la mancata adozione della sanzione esclude (se non anche la materiale sussistenza, certamente) la rilevanza disciplinare della mancanza contestata; che l’avere questa Corte ritenuto che, ai fini disciplinari, la recidiva presupponga per sua stessa natura, non solo che un fatto illecito sia posto in essere una seconda volta, ma che lo sia dopo che la precedente infrazione sia stata “quanto meno” contestata formalmente al medesimo lavoratore (Cass. 20 ottobre 2009, n. 22162), per il palese tenore concessivo dell’affermazione, non orienta certamente nell’interpretazione della norma collettiva in esame: come neppure il precedente di questa stessa Corte che, in relazione ad annullamento di un licenziamento comminato dopo una sospensione disposta per una quarta mancanza, ai sensi dell’art. 225 CCNL aziende del terziario del 18 luglio 2008, ha ritenuto la consumazione definitiva del potere disciplinare del datore di lavoro per l’avvenuta irrogazione al lavoratore di una sanzione conservativa in luogo di quella espulsiva (pure astrattamente applicabile in forza di previsione contrattuale), senza peraltro assumere, in quanto non necessario, un’esplicita posizione sull’odierna questione interpretativa (Cass. 12 settembre 2016, n. 17912); che inoltre, a fronte della già rilevata non decisività del canone di interpretazione del tenore letterale, gerarchicamente prioritario su quelli interpretativi-integrativi, non ex se chiaramente rivelativo della comune intenzione delle parti (art. 1362 c.c.), così da non escluderne la concreta operatività in quanto da solo insufficiente (Cass. 15 luglio 2016, n. 14432; Cass. 21 agosto 2013, n. 19357; Cass. 28 agosto 2007, n. 18180), soccorre in particolare il criterio finale di equo contemperamento, per la natura onerosa del contratto di lavoro, dell’interesse delle parti (1371 c.c.), in riferimento alla previsione dell’art. 7 ult. comma I. 300/1970, secondo cui “non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione”;
che rispetto ad una rilevanza autonoma della recidiva, sia pure entro il più ampio intervallo temporale del biennio, dipendente da sanzioni disciplinari (senza preclusione peraltro di considerazione dei fatti non contestati, anche anteriori ai due anni dal recesso, a conferma significativa di altri addebiti alla base del licenziamento, al fine valutativo della complessiva gravità e della proporzionalità del correlativo provvedimento sanzionatone: Cass. 19 dicembre 2006, n. 27104; Cass. 9 giugno 2017, n. 14453), risulterebbe indubbiamente peggiorativo il trattamento riservato ai lavoratori dalla norma collettiva in esame, qualora interpretata come previsione di licenziamento conseguente a recidiva, sebbene entro il più limitato periodo di un anno, in mancanze semplicemente contestate, non anche sanzionate;
che il secondo, il terzo e il quarto motivo, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono inammissibili;
che, al di là della mera enunciazione formale della rubrica, la violazione di norme di legge denunciata non sussiste, in difetto dei requisiti propri di verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva delle norme, né di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, né tanto
meno di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984);
che essi si risolvono nella contestazione dell’accertamento in fatto e della valutazione probatoria della Corte territoriale, pure sorretti da un ragionamento argomentativo corretto (per le ragioni in particolare esposte da pg. 18 a pg. 22 della sentenza), nella sottesa ma evidente sollecitazione di un riesame del merito, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), tanto più nei rigorosi limiti devolutivi prescritti dal novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., applicabile ratione temporis;
che il vizio, neppure deducibile per la conferma dalla sentenza d’appello di quella di primo grado, sul fondamento delle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della seconda, a norma dell’art. 348ter, quarto e quinto comma c.p.c., integrante un’ipotesi di cd. “doppia conforme” (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26860; Cass. 9 dicembre 2015, n. 24909), in realtà non si configura;
che il ricorrente avrebbe infatti dovuto (come non ha fatto) indicare il “fatto storico”, il cui esame sarebbe stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulterebbe esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sarebbe stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (evidentemente esclusa dalla pluralità dei fatti presuntivi enumerati, sicché nessuno di essi davvero ex se decisivo: Cass. 5 luglio 2016, n. 13676); fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice (come appunto nel caso di specie, per la valutazione, ancorché non condivisa, delle risultanze istruttorie): con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), nemmeno più potendosi valutare la motivazione alla stregua di parametri di insufficienza o contraddittorietà, ma soltanto di apparenza ovvero perplessità o incomprensibilità obiettiva (come non si verifica nel caso di specie); che il quinto motivo è infondato;
che, da una parte, non sussiste il vizio di ultrapetizione denunciato nell’attribuzione di una qualifica inferiore a quella richiesta, comunque superiore quella rivestita (Cass. 23 gennaio 2009, n. 1717; Cass. 8 ottobre 2013, n. 22872; Cass. 27 settembre 2016, n. 18969);”
che, dall’altra parte, il mezzo consiste nella confutazione dell’accertamento giudiziale in fatto, in esito ad un corretto esperimento del procedimento trifasico (Cass. 27 settembre 2010, n. 20272; Cass. 26 marzo 2014, n. 7123; Cass. 18 febbraio 2016, n. 3214), di spettanza esclusiva, così come la valutazione probatoria parimenti contestata, del giudice di merito (che ha pure al riguardo correttamente argomentato: in particolare, dall’ultimo capoverso di pg. 29 al quarto alinea di pg. 31 della sentenza), insindacabile in sede di legittimità (Cass. 5 marzo 2004, n. 4537; Cass. 2 settembre 2003, n. 12791; Cass. 18 febbraio 2016, n. 3214); che per la stessa ragione è infondato il primo motivo incidentale; che il secondo motivo è inammissibile;
che non ricorre la violazione di legge formalmente denunciata, in difetto dei requisiti suoi propri (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984), ancora una volta risolvendosi il mezzo in una contestazione dell’accertamento in fatto, pure adeguatamente motivato (per le ragioni agli ultimi due capoversi di pg. 37 della sentenza), della Corte territoriale, cui è riservato in via esclusiva quale giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), tanto più nei rigorosi limiti devolutivi introdotti dall’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., applicabile ratione temporis;
che il terzo motivo è infondato;
che il fatto della mancata previa affissione del codice disciplinare, lungi dal non essere stato esaminato, è stato anzi valutato nel senso argomentato dalla Corte territoriale (di assorbimento: al secondo capoverso di pg. 27 della sentenza); che il quarto motivo è inammissibile;
che neppure qui, in riferimento alla lamentata erronea e contraddittoria esclusione di un comportamento di mobbing in danno del lavoratore, sussiste la violazione di legge formalmente denunciata, in difetto dei requisiti suoi propri (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984), ma piuttosto una contestazione dell’accertamento in fatto, pure adeguatamente motivato (per le ragioni sub capo D di pg. da 38 a 40 della sentenza), della Corte territoriale, cui è riservato in via esclusiva quale giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità: posto che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa (Cass. 28 novembre 2014, n. 25332); che pertanto entrambi i ricorsi devono essere rigettati e le spese del giudizio interamente compensate tra le parti costituite, siccome reciprocamente soccombenti; senza evidentemente alcun provvedimento al riguardo nei confronti delle parti rimaste intimate;
P.Q.M.
Rigetta entrambi i ricorsi e compensa interamente le spese del giudizio tra le parti costituite; nulla sulle spese nei confronti delle parti rimaste intimate.
Ai sensi dell’art. 13 comma l quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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