CORTE di CASSAZIONE, sezione tributaria, sentenza n. 2133 depositata il 22 gennaio 2024

Tributi – IRPEF e IVA – Quota di partecipazione al profitto di reato – Abuso di ufficio – Società “paravento” – Somma distratta dal fallimento di impresa individuale – Estensione degli effetti delle sentenze penali nel giudizio tributario – Sospensione dei termini – Accoglimento

Fatti di causa

1. Da.Pa. impugnò innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Lucca l’avviso di accertamento con il quale l’amministrazione finanziaria aveva ripreso a tassazione, ai fini Irpef e Iva per l’anno 2004, l’importo corrispondente alla sua quota di partecipazione al profitto di reato, commesso in concorso con i soci di fatto La.Do, Ri.Re. e La.Ca., che l’Ufficio gli aveva attribuito a titolo di “reddito diverso”, ai sensi dell’art. 14, comma 4, della l. 24 dicembre 1993, n. 537.

In particolare, e per quanto ancora di rilievo in questa sede, il Da.Pa., unitamente ai coimputati, si era appropriato della somma di Euro 7.503.258,35, distraendola dal fallimento dell’impresa individuale Da.Pi. fu En., per il tramite di una società “paravento” denominata S.P.L..; di tale complessiva somma, all’esito del giudizio penale a carico dei quattro soci di fatto, la Corte d’Appello di Torino – con sentenza poi divenuta definitiva – aveva ordinato la restituzione, quale conseguenza civile delle condotte integrative del reato di abuso di ufficio, dichiarato estinto per prescrizione.

La C.T.P. adìta accolse il ricorso.

2. Il successivo appello, proposto dall’Amministrazione innanzi alla Commissione tributaria regionale della Toscana, venne respinto.

Ad avviso dei giudici regionali, in sede penale era emerso che la società S.P.L.. aveva percepito somme “favorita da un abuso d’ufficio”; per il resto, tuttavia, l’Amministrazione non aveva dato prova convincente della percezione delle relative somme da parte degli imputati.

Questi ultimi, dunque, erano stati condannati a restituire l’importo distratto quale conseguenza della loro responsabilità del delitto di abuso d’ufficio; ma poiché era stata accertata la sola locupletazione della società, avente personalità e patrimonio distinti, la condanna pecuniaria doveva intendersi in realtà riferita all’adempimento di un obbligo risarcitorio, restando così esclusa – in difetto di ulteriori prove da parte dell’Ufficio – la produzione di un reddito imponibile.

3. La sentenza d’appello è impugnata dall’Agenzia delle entrate con ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

L’intimato ha resistito con controricorso, illustrato da successiva memoria. Il Pubblico Ministero ha fatto pervenire le proprie conclusioni scritte.

All’adunanza camerale del 23 aprile 2023 è stato disposto il rinvio della causa all’udienza pubblica odierna, onde consentirne la trattazione congiunta con i giudizi distinti ai nn. r.g. 12082 e 12288 del 2020.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso l’Amministrazione denunzia “violazione e-o falsa applicazione dell’art. 654 c.p.p. e dell’art. 116 c.p.c.”.

La sentenza impugnata è sottoposta a critica nella parte in cui ha ritenuto che il contribuente, così come i suoi concorrenti, non fosse assoggettabile ad imposizione in base agli esiti (parzialmente assolutori, quanto ad alcune imputazioni) del giudizio penale, anziché procedere a una compiuta valutazione dei fatti e in violazione dei consolidati principi in tema di estensione degli effetti delle sentenze penali nel giudizio tributario.

In particolare, l’Amministrazione sottolinea che la traslazione dell’ingiusto profitto del reato dalla società “paravento” ai soci di fatto (presupposto sul quale si fondava la tassazione dello stesso come “reddito diverso”) non era particolarmente approfondita nel giudizio penale perché costituiva un post-fatto non punibile; tale circostanza, tuttavia, emergeva con chiarezza da numerosi punti della sentenza della Corte d’Appello di Torino, nonché nella successiva statuizione di conferma resa da questa Corte.

2. Con il secondo motivo, denunziando violazione dell’art. 185 cod. pen., l’Agenzia delle entrate critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha interpretato la decisione della Corte d’appello – ritenendovi affermato un obbligo risarcitorio, e non restitutorio come in apparenza – al fine di escludere che il Da.Pa. avesse effettivamente percetto l’importo poi ripreso a tassazione.

3. Con il terzo motivo, denunziando violazione dell’art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, dell’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, degli artt. 67 e 69 del D.Lgs. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR) e degli artt. 2727, 2729 e 2697 cod. civ., la ricorrente assume che i giudici d’appello non avrebbero operato una corretta valutazione del materiale probatorio loro offerto, composto dagli elementi addotti a sostegno degli atti impositivi e da quelli desumibili dalle sentenze penali, avuto riguardo al fatto che, nella specie, le presunzioni offerte erano idonee a consentire la prova della sussistenza di un maggior reddito imponibile in capo al contribuente.

4. Infine, con il quarto motivo, formulato in via di subordine, l’Amministrazione denunzia l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, che individua negli elementi di prova da lei offerti a carico del contribuente, il cui esame assume essere stato trascurato dai giudici d’appello.

5. In via preliminare rispetto allo scrutinio dei motivi occorre svolgere alcune considerazioni sull’ammissibilità del ricorso.

Risulta, infatti, che quest’ultimo venne notificato al contribuente dall’amministrazione finanziaria il 30 aprile 2020, ovvero durante il periodo di sospensione dei termini complessivamente disposto dal 9 marzo all’11 maggio 2020, in conseguenza dell’emergenza sanitaria derivante dalla diffusione del Covid-19, dapprima in base all’art. 83 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con modif. dalla legge n. 27 del 2020, quindi per effetto delle modifiche intervenute con l’art. 36 del D.L. 8 aprile 2020 n. 23, conv. con modif. dalla legge n. 40 del 2020.

5.1. Questa Corte, con le sentenze nn. 15842-2023 e 20006-2023, ha ritenuto inammissibili i ricorsi depositati durante tale periodo di sospensione, ravvisando la sussistenza di un’ipotesi di sospensione ex lege del processo.

Secondo le richiamate decisioni, in particolare, dovrebbe farsi applicazione dell’art. 298, comma primo, cod. proc. civ., a mente del quale durante il periodo di sospensione non possono essere compiuti atti del procedimento; detto divieto, infatti, riguarderebbe “gli atti che integrano sviluppo ed attuazione del giudizio sospeso mediante lo svolgimento di richieste al giudice del processo sospeso e l’adozione dei consequenziali provvedimenti da parte di questi: richieste e provvedimenti che non possono essere proposti e resi se non nella pretermissione degli esiti della causa della sospensione” e fra i quali rientrano “anche quelle attività che costituiscono svolgimento ulteriore del giudizio sospeso” (così, in motivazione, la seconda delle pronunzie citate).

Siffatta impostazione è dunque espressiva del divieto di compiere atti del procedimento che vige in pendenza della relativa sospensione, la cui violazione comporta, per consolidato orientamento di questa Corte, la nullità dell’atto compiuto e, per derivazione, di tutti quelli ad esso successivi, fino alla sentenza (cfr., fra le altre, Cass. n. 1580-2020; Cass. n. 6512-2014).

5.2. Ora, la previsione di un tale divieto si giustifica con il fatto che la sospensione consiste in uno stato di quiescenza assoluta del giudizio, dovuta alla sussistenza di una particolare circostanza e destinata a protrarsi fino a che questa non venga definita o rimossa.

Per questa stessa ragione si ritiene che il divieto non operi con riferimento agli atti che non comportano uno sviluppo del processo sospeso, o che sono destinati a disciplinare, o definire, lo stato di quiescenza. Così, ad esempio, è stato affermato che la sospensione del processo non preclude la proponibilità del regolamento preventivo di giurisdizione, perché non è di ostacolo al promovimento di un’autonoma fase processuale diretta alla verifica del potere giurisdizionale del giudice adìto (Cass. Sez. U, n. 1131-2015; Cass. Sez. U, n. 21109-2013); ancora, si è ritenuto che in pendenza di sospensione per regolamento di competenza vada formulata l’istanza di riassunzione del giudizio innanzi al giudice divenuto nel frattempo competente in base allo jus superveniens (Cass. n. 13595-2000); infine, sono consentiti, nel corso del processo sospeso, il rilascio della procura a un nuovo difensore (Cass. n. 2618-1999) o il provvedimento di liquidazione del compenso del consulente tecnico (Cass. n. 6431-1995).

Logico corollario dell’effetto di quiescenza provocato dalla sospensione è la necessità, prevista dall’art. 297 cod. proc. civ., che le parti si attivino chiedendo la riassunzione del giudizio una volta che la causa della sospensione sia cessata, nel termine perentorio previsto (salvo che col provvedimento di sospensione non sia stata fissata un’udienza in prosecuzione); a tale obbligo l’art. 307, comma terzo, cod. proc. civ. ricollega l’effetto estintivo del giudizio, sul presupposto del sopravvenuto venir meno dell’interesse delle parti alla sua riattivazione, nonché al fine di assicurare la ragionevole durata del processo.

5.3. E tuttavia, un tale effetto di quiescenza, con il descritto compendio delle ulteriori conseguenze, non corrisponde alla disciplina processuale tracciata dalla richiamata normativa emergenziale.

L’art. 83 del D.L. n. 18 del 2020 ha infatti disposto la sospensione, per l’indicato periodo, dei “termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali” nonché, allo specifico fine che qui occupa, quella dei termini “per le impugnazioni”; e ciò con la finalità di “fronteggiare le esigenze sanitarie e socio-economiche derivanti dall’emergenza epidemiologica”, come indicato nel preambolo del decreto, e più specificamente, di “contenerne gli effetti in materia di giustizia civile”, come riportato nella rubrica dell’articolo; finalità per le quali, del resto, lo stesso articolo ha altresì previsto il rimedio del differimento delle udienze (al di fuori delle eccezioni stabilite) e la successiva possibilità di svolgerle mediante collegamento da remoto.

La norma in questione, pertanto, non ha comportato alcuno stato di quiescenza del processo in termini conformi a quanto più sopra descritto; né, conseguentemente, ha reso necessaria alcuna riassunzione del giudizio onde evitarne l’estinzione, poiché ha previsto che i termini riprendessero automaticamente a decorrere allo scadere del periodo di sospensione.

Il fatto che si tratti di un diverso meccanismo processuale discende, inoltre, dal rilievo in base al quale lo stesso legislatore emergenziale ha invece ritenuto di adottare lo strumento della sospensione per i soli processi di espropriazione aventi ad oggetto la prima casa del debitore, disciplinati dall’art. 54-ter del D.L. n. 18 del 2020 (successivamente modificato dall’art. 13, comma 14, del D.L. 31 dicembre 2020, n. 183, conv. con modif. dalla l. 26 febbraio 2021, n. 21, poi dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con sentenza n. 128 del 2021).

5.4. La disciplina emergenziale recata dall’art. 83 del D.L. n. 18 del 2020 non ha, dunque, previsto un’ipotesi di sospensione del processo, ma ha unicamente sospeso i termini processuali per il tempo ritenuto necessario a limitare gli effetti del contagio.

Ciò significa che gli atti compiuti durante tale periodo di tempo non sono affetti da nullità, non trovando applicazione l’art. 298 cod. proc. civ., ma privi del loro effetto tipico in punto alla prosecuzione del processo; in altri termini, nel periodo di sospensione ciascuna parte mantiene la facoltà di compiere gli atti processuali di sua spettanza, con l’unica conseguenza dell’arresto del processo nel momento in cui ciò determina l’insorgenza, per la stessa parte o per l’altra, di un termine preclusivo.

Ciò è quanto si è verificato nel caso di specie: la notifica del ricorso in pendenza della sospensione dei termini ha comportato unicamente il differimento dei termini per gli incombenti successivi, quali il deposito del ricorso e la proposizione dell’eventuale controricorso da parte dell’intimato.

Il ricorso, pertanto, deve ritenersi ammissibile.

5.5. Sul punto può essere formulato il seguente principio di diritto: “L’art. 83, comma 2, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con modif. dalla legge n. 27 del 2020, che, per effetto delle successive modifiche intervenute con l’art. 36 del D.L. 8 aprile 2020 n. 23, conv. con modif. dalla legge n. 40 del 2020, ha disposto la complessiva “sospensione del decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali” dal 9 marzo all’11 maggio 2020 in conseguenza dell’emergenza sanitaria derivante dalla diffusione del Covid-19, non ha introdotto una speciale ipotesi di sospensione ex lege del processo, ma ha disposto unicamente la sospensione dei termini processuali.

Ne deriva che l’atto processuale compiuto da una parte nel corso di tale periodo di sospensione non è affetto da nullità, restandone unicamente impedita la produzione dei suoi effetti tipici in relazione alla prosecuzione del giudizio. Pertanto, ove il ricorso per cassazione sia stato notificato in pendenza del periodo di sospensione, non si verifica alcuna inammissibilità dello stesso, ma i termini processuali correlati alla notificazione iniziano a decorrere al termine della sospensione“.

6. Posta tale premessa, e passando al merito del ricorso, i primi tre motivi, per la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente e vanno ritenuti fondati per le ragioni che si espongono.

6.1. Come si è già osservato, la sentenza impugnata ha ritenuto di non assoggettare il Da.Pa. alla pretesa impositiva in mancanza di prova dell’effettiva percezione, da parte sua, dell’importo ripreso a tassazione come “reddito diverso”.

I giudici d’appello hanno affermato tale circostanza in quanto, nel giudizio penale che ha accertato le condotte sulle quali si fonda la pretesa erariale, sarebbe emersa “soltanto la prova di una locupletazione della società S.P.L. favorita da un abuso d’ufficio; ma non la prova della percezione delle relative somme da parte degli imputati” (v. sentenza impugnata, pag. 4).

Il ragionamento della C.T.R., per quanto condivisibile su un piano astratto, appare tuttavia intrinsecamente erroneo e irrispettoso delle concrete emergenze processuali nonché, per altro verso, contrastante con i principi che regolano il riparto dell’onere probatorio nella fattispecie di cui trattasi.

6.2. Sotto il primo profilo, appare anzitutto illogica la tesi secondo la quale vi sarebbe stata una locupletazione della sola società, che i giudici d’appello hanno argomentato osservando che si trattava di soggetto autonomo sotto il profilo giuridico e patrimoniale.

La sentenza impugnata non spiega, in particolare, perché l’articolata sequenza di condotte posta in essere dagli imputati sia sfociata nel trasferimento di un’ingente somma di denaro a un soggetto estraneo, e non ipotizza neppure come possibile la conseguenza più logica di tale circostanza, ovvero il fatto che tale somma fosse poi destinata a rifluire nella disponibilità personale dei soci.

E ciò neppure a fronte della condanna restitutoria pronunziata dai giudici penali per un importo corrispondente alla somma distratta, che si pone su un piano di assoluta coerenza logica con l’affermazione di responsabilità personale degli imputati.

L’ordine di restituzione, infatti, integra un effetto civile di tale accertata responsabilità (seppur a fronte dell’intervenuta prescrizione del reato); e il fatto che esso abbia ad oggetto un importo pari alla somma distratta evidenzia che proprio tale somma costituiva il profitto del reato accertato.

Su tale assai significativo aspetto, invece, la C.T.R., operando un’incomprensibile negazione del primo presupposto, assume che l’ordine di restituzione andrebbe interpretato, in realtà, come una condanna risarcitoria, proprio perché non vi sarebbero elementi che consentono di giustificarlo.

6.3. In ogni caso, i giudici regionali hanno mostrato di non aver tenuto conto degli elementi che l’Ufficio aveva evidenziato mediante il richiamo ad alcuni passaggi della sentenza della Corte d’Appello di Torino.

In questi ultimi, in particolare, si faceva esplicito riferimento al fatto che le utilità derivate alla società “paravento” comportarono in via automatica il conseguimento di un ingiusto profitto da parte degli imputati (cfr. ad es. pagg. 18 e 19: “la grave violazione commessa (…) determinò un ingiusto profitto alla creditrice S.P.L. ovvero ai coimputati che, nei rispettivi ruoli, si adoperarono nella vicenda della cessione del credito, consentendo che venisse incamerata una somma di oltre sette milioni di Euro”); e l’obiettiva rilevanza di tali elementi non giustifica l’assunto, contenuto nella sentenza d’appello, secondo cui l’Ufficio avrebbe fornito soltanto “generici indizi”, insufficienti a fondare la prova dell’effettiva percezione del reddito da parte dei soci di fatto (sentenza impugnata, pag. 5).

6.4. Inoltre, la sentenza impugnata non ha fatto buon governo dei principi costantemente affermati da questa Corte per il caso in cui il contenzioso tributario tragga origine da fatti che sono stati anche oggetto di accertamento in sede penale.

È noto, al riguardo, che alla sentenza penale irrevocabile – sia essa di condanna o di assoluzione – non può essere riconosciuta alcuna automatica autorità di cosa giudicata, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari; ciò in quanto nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e trovano ingresso, in particolare, anche presunzioni semplici, che di per sé sarebbero inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (così, ex plurimis, Cass. n. 27814-2020; Cass. n. 16262-2017).

Pertanto, le risultanze del giudizio penale, cristallizzate nella sentenza, possono essere prese in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare, essendo comunque tenuto a procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio (così, in particolare, Cass. n. 28174-2017; Cass. n. 10578-2015; Cass. n. 19786-2011).

Ove tale valutazione manchi, ovvero il giudice tributario abbia errato nel sussumere o meno i fatti posti alla sua attenzione sotto i caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione, concordanza), la sentenza di merito è censurabile in base all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la disposizione di cui all’art. 2729 cod. civ. sia stata oggetto di corretta applicazione anche in concreto (Cass. n. 29635-2018).

Nel caso di specie, la C.T.R. si è limitata a recepire il contenuto della sentenza penale – dal quale ha inferito l’insussistenza di valida prova circa l’effettivo percepimento di un reddito diverso da parte della contribuente – senza svolgere alcun altro apprezzamento del complessivo materiale indiziario sottoposto alla sua attenzione, per parte ricavabile dagli stessi atti del giudizio penale; anche sotto tale profilo, pertanto, sussiste il vizio denunziato.

6. In conclusione, i primi tre motivi di ricorso sono meritevoli di accoglimento, restando in tale statuizione assorbito l’esame del quarto, formulato in via di subordine.

La sentenza d’appello è cassata con rinvio al giudice a quo, il quale provvederà al riesame della vicenda conformandosi agli indicati principi e liquidando le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Toscana anche per le spese.