Corte di Cassazione, ordinanza n. 27353 depositata il 26 settembre 2023

licenziamento a seguito di furto di beni aziendali – tenuità del valore del bene sottratto

FATTI DI CAUSA 

1. Con sentenza n. 4182/2019, il Tribunale di Taranto, in parziale accoglimento dell’impugnativa del licenziamento irrogato all’attore Z.D. dalla I.L. s.p.a. con lettera del 5.2.2016 per furto di beni aziendali, aveva condannato la convenuta, ai sensi dell’art. 18, comma 5, St. Lav., a corrispondere al lavoratore una somma pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, negandogli invece la reintegrazione nel posto di lavoro.

2. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, riuniti i procedimenti instaurati a seguito di distinti reclami proposti rispettivamente dalla società e dallo Z.D., rigettava entrambi tali reclami, confermava la sentenza impugnata e compensava le spese, dichiarando sussistenti i presupposti per il versamento solo da parte della I.L. s.p.a. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

3. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale riteneva che il giudice di primo grado aveva ben motivato in ordine all’esistenza e all’imputabilità del fatto di reato contestato al lavoratore, comunque ripercorrendo le risultanze processuali. Dopo taluni richiami giurisprudenziali, confermava che il fatto imputato al lavoratore fosse passibile di licenziamento (e non di altre sanzioni conservative), ai sensi dell’art. 229 del CCNL applicato al rapporto di lavoro, ma anche la valutazione compiuta dal primo giudice sulla (non) proporzionalità della sanzione, tenuto conto che l’appropriazione aveva riguardato merce di valore esiguo (una forma di caciotta Brigante del peso di 2 kg. e un trancio di prosciutto Bechelli da gr. 500), e delle altre circostanze evidenziate.

4. Avverso tale decisione la I.L. p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo.

5. Ha resistito l’intimato con controricorso, contenente ricorso incidentale, pure a mezzo di unico motivo.

6. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE 

1. Con unico  motivo,  la  ricorrente  principale  denuncia:

<Violazione e falsa applicazione degli artt. 2104 e 2119 c.c., dell’art. 1 legge n. 604/1966. Errata valutazione della Corte d’appello nella parte della sentenza (pag. 4) in cui dichiara: “E’ condivisibile altresì la valutazione compiuta dal giudice sulla proporzionalità tenuto conto che l’appropriazione ha riguardato merce di valore esiguo”>.

2. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, lo Z.D. denuncia: “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex 360 c.p.c. nr. 3) in riferimento agli artt. 7 e 18 co. IV L. 300/1970”. Secondo il ricorrente incidentale, nel decidere il caso concreto, sia il Tribunale che la Corte d’appello – erroneamente muovendo dall’asserita “sussistenza” ed illiceità del fatto contestato, ovvero la presunta sottrazione ad opera dello Z.D. di merce aziendale – commettevano il macroscopico errore di giudizio di ritenere inapplicabile la tutela reale della reintegrazione c.d. “affievolita” dell’art. 18 co. IV L. 300/1970, la quale, invece, ben afferisce ed attiene al  caso  in  questione,  tenuto  conto  che  la  condotta asseritamente addebitata al dipendente ha una connotazione illecita talmente esigua da essere praticamente irrilevante e, ancora più a monte, considerando la non imputabilità all’odierno controricorrente del presunto fatto illecito, attesa l’assenza di qualsivoglia elemento soggettivo di approfittamento personale.

3. Entrambi i contrapposti motivi di ricorso sono infondati.

4. Premesso che ambo le parti anche nello svolgimento delle loro censure non fanno il benché minimo riferimento a disposizioni di un CCNL, giova premettere che, secondo questa Corte, la valutazione di non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nella l. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4 (come novellato dalla l. n. 92 del 2012) solamente nell’ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della condotta realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano corrispondere una sanzione conservativa. Al di fuori di tale caso, secondo la consolidata esegesi della L. n. 300 del 1970, art. 18, la sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle “altre ipotesi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali la L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, prevede la tutela indennitaria c.d. forte (così Cass. civ., sez. lav., 21.4.2022, n. 12789).

Pertanto, nell’ipotesi di accertata sproporzione tra sanzione applicata e condotta contestata, va disposta la tutela risarcitoria se la condotta stessa non è sussumibile in alcuna delle fattispecie per cui i contratti collettivi o i codici disciplinari prevedano l’irrogazione di una sanzione conservativa, ricadendo il difetto di proporzionalità tra le “altre ipotesi” menzionate dall’art. 18, comma 5, l. n. 300/1970, mentre va disposta la tutela reintegratoria se il fatto contestato e accertato è contemplato da una norma negoziale vincolante e tipizzato come punibile con una sanzione conservativa (così Cass. civ., sez. lav., 9.7.2021, n. 19585).

5. Ebbene, rispetto al ricorso principale, è vero che la valutazione del giudice in punto di proporzionalità della sanzione disciplinare, nel caso in cui al lavoratore sia contestata la sottrazione di beni della datrice di lavoro, come nella fattispecie che ci occupa, non può esaurirsi nella constatazione della tenuità del valore del bene sottratto (cfr., ad es., Cass. civ., sez. lav., 23.5.2018, n. 12798).

Tuttavia, la censura della ricorrente principale, pur premettendo di giudicare impeccabile l’analisi dei fatti di causa compiuta dalla Corte territoriale, muove poi da una molto parziale considerazione della motivazione dalla stessa specificamente resa circa la ritenuta non proporzionalità della massima sanzione espulsiva nel caso concreto.

Invero, la Corte d’appello non s’è limitata a constatare che “l’appropriazione ha riguardato merce di valore esiguo” (valore esiguo che, peraltro, la ricorrente non pone in dubbio in questa sede da nessun punto di vista).

I giudici d’appello, infatti, hanno ulteriormente osservato che “è rimasta molto vaga la circostanza riferita da alcuni testi, secondo cui egli avesse rubato altre due volte in passato, non avendo i testi riferito in quali circostanze ciò fosse avvenuto né di quale merce si fosse trattato. Mentre le sanzioni disciplinari ricevute riguardavano situazioni diverse, ossia l’aver dimenticato sugli scaffali merce scaduta, svolgendo egli le funzioni di addetto al controllo della merce sugli scaffali.

Non è emerso dunque chiaramente, in base allo svolgimento dei fatti, così come bene evidenziato dal giudice di primo grado, una lesione grave del vincolo fiduciario, tenuto conto che pur lavorando dal 1999, non aveva mai ricevuto contestazioni per episodi analoghi e le grandi dimensioni dell’impresa escludevano la lesione di un rapporto personale di fiducia con il datore di lavoro”.

E nota questo Collegio che la ricorrente I.L. neppure allega che al lavoratore fosse stata formalmente contestata una recidiva nel procedimento disciplinare sfociato nel licenziamento.

6. Quanto, poi, alla condotta addebitata come tale, la Corte distrettuale aveva ulteriormente osservato che il lavoratore non era “addetto alla sicurezza del punto vendita, ma solo addetto a verificare lo stato della merce nella cella frigorifera (ossia l’integrità della merce, la sua scadenza appunto), essendo magazziniere addetto alla cella frigo. Dunque valgono anche le considerazioni del giudice in ordine alla tipologia delle mansioni svolte di semplice operaio, che non richiedono una particolare affidabilità e un particolare rapporto di fiducia con il datore di lavoro”.

7. Orbene, la ricorrente principale, da un lato, neppure tiene conto di tali ulteriori considerazioni della Corte di merito, e, dall’altro, propone una diversa lettura delle risultanze processuali, criticando l’apprezzamento probatorio in senso stretto compiuto dalla stessa Corte (cfr. in particolare pagg. 15 e segg. del ricorso); il che non è consentito in questa sede di legittimità.

8. Parimenti infondato è il ricorso incidentale dello Z.D., il quale in parte – non diversamente dal ricorso principale, ma da opposto punto di vista – si fonda anche su apprezzamenti di ordine penalistico, circa l’essere insussistente “la fattispecie di reato ascritta allo Z.D.” (la ricorrente principale, invece, fa leva sull’introduzione dell’art. 131 bis c.p. in tema di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto).

In ogni caso, la tesi del ricorrente incidentale secondo la quale la condotta asseritamente addebitata al dipendente avrebbe “una connotazione illecita talmente esigua da essere praticamente irrilevante” s’imbatte anzitutto nell’accertamento in punto di fatto compiuto dai giudici di merito (cfr. seconda e terza facciata dell’impugnata sentenza), oltre che in una specifica valutazione degli stessi, in base alla quale soltanto il valore dei beni sottratti era esiguo, ma non era esigua l’intera condotta contestata.

Ma soprattutto la Corte territoriale ha osservato che: “Non può invece parlarsi di insussistenza del fatto quando il fatto materiale sussiste ed è pure illecito, ossia la condotta rientra appieno nelle ipotesi sanzionate dal contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro ed è riprovevole sul piano morale e giuridico, in quanto violativa di una regola fondamentale del vivere civile ed è anche sanzionata penalmente. Ciò è avvenuto nel caso di specie in cui il fatto imputato al lavoratore è passibile di licenziamento (e non di altre sanzioni conservative), ai sensi dell’art. 229 CCNL applicato al rapporto di lavoro, ed è rilevante penalmente, essendosi posto in contrasto con una regola fondamentale del vivere civile”.

9. Riprendendo allora i principi di diritto dianzi premessi, nel caso in esame i giudici di merito non hanno accertato che per un fatto quale quello contestato fosse contemplata in una previsione di contratti collettivi (o, in ipotesi, di un codice disciplinare) una sanzione conservativa, bensì hanno constatato all’opposto che per quanto addebitato al lavoratore incolpato l’art. 229 del CCNL applicato al rapporto di lavoro prevedeva il licenziamento.

E il ricorrente incidentale neppure considera questo aspetto.

Infine, contrariamente a quanto dallo stesso sostenuto, la Corte territoriale aveva anche confermato l’imputabilità dell’episodio al lavoratore.

10. Per conseguenza, in base agli accertamenti compiuti dalla Corte di merito, appare incensurabile in questa sede la sua valutazione in punto di non proporzionalità del licenziamento, e correttamente la stessa ha confermato l’applicazione nel caso di specie della tutela di cui all’art. 18, comma 5, n. 300 del 1970, e non di quella c.d. reintegratoria affievolita di cui al comma 4 del medesimo articolo.

11. Stante la reiezione delle contrapposte impugnazioni, le spese di questo giudizio di cassazione possono essere interamente compensate tra le parti.

12. Queste ultime sono, tuttavia, tenute al versamento del d. raddoppio del contributo unificato, ove dovuto.

P.Q.M. 

La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale.

Compensa integralmente le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.