CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 luglio 2021, n. 19585

Licenziamento disciplinare – Omesso versamento dei corrispettivi in cassa – Condotta comune ad altre colleghe – Negligenza nell’adempimento degli obblighi lavorativi – Sanzione conservativa

Fatti di causa

1. La Corte di appello di Genova, con sentenza n. 397 del 2018, ha riformato in parte la sentenza del Tribunale di Massa che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato in data 26 febbraio 2016 da A. s.p.a. a D.B. e disposto la reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro, ai sensi del comma quarto dell’art. 18 legge n. 300 del 1970, come novellato dalla legge n. 92 del 2012.

2. Alla lavoratrice, addetta al bar presso il centro commerciale “M.M.” di Massa della soc. A., era stato addebitato di avere omesso la registrazione di n. 22 acquisti e l’omessa consegna degli scontrini ai clienti, con connesso omesso versamento dei corrispettivi in cassa in tre giorni diversi.

3. Secondo il giudice di primo grado, in base delle dichiarazioni dei testi, era possibile affermare che erano stati i responsabili del punto vendita a chiedere alla ricorrente e alle altre addette alla vendita di non registrare gli acquisti e ciò al fine di consentire l’utilizzo del denaro il cui incasso non era stato registrato per simulare l’acquisto di prodotti in promozione la cui vendita dava diritto a premi per i direttori, per i capi area e per lo stesso punto vendita. Si era trattato di una condotta comune ad altre colleghe della B., la quale non aveva intascato nulla per sé, sicché il suo comportamento, anche se non giustificabile – visto che la B. non aveva subito una coartazione assoluta da parte dei superiori – non rientrava tra le ipotesi per le quali il CCNL prevede la sanzione espulsiva, ma doveva essere valutato alla stregua di una negligenza nell’adempimento degli obblighi lavorativi della lavoratrice, ipotesi per la quale lo stesso CCNL prevede una sanzione conservativa. Conseguentemente, nella fattispecie doveva trovare applicazione l’art. 18, comma 4 st. lav., come modificato dalla legge n. 92 del 2012, con reintegra della ricorrente nel posto di lavoro e risarcimento del danno pari a dodici mensilità di retribuzione.

4. La Corte di appello riformava la statuizione relativa al regime di tutela applicabile, ritenendo che la fattispecie rientrasse nelle “altre ipotesi” sanzione, e dichiarava risolto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento; condannava la A. a corrispondere alla reclamata una indennità pari a diciotto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

5. I giudici di appello argomentavano, in sintesi, come segue:

a) i fatti addebitati sono provati e sostanzialmente neppure contestati; essi tuttavia non sono così gravi da meritare il licenziamento; difatti, è condivisibile quanto ritenuto dal Tribunale nel riconoscere che la ricorrente si era limitata ad assecondare i suoi superiori, sicché il grado di colpa che le può esser addebitato è modesto;

b) l’assunto della società reclamante, secondo cui la ricorrente avrebbe potuto non seguire le direttive dei responsabili del servizio sulla “non scontrinatura” di determinati prodotti e anzi denunciarle ai superiori e/o al sindacato, non consente di modificare tale giudizio, essendo evidente il condizionamento subito dalla ricorrente e dalle altre addette al punto vendita, come pure accertato in sede di prova testimoniale;

c) tuttavia, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, il comportamento addebitato non può considerarsi frutto di semplice negligenza, tanto da rientrare nell’ipotesi per la quale il CCNL prevede una sanzione conservativa (negligenza nell’adempimento degli obblighi contrattuali), ma è il frutto di una condotta consapevolmente volta a far conseguire non solo ad altri (direttori, capi area, il punto vendita), ma anche alla stessa ricorrente, vantaggi indebiti; i testi, avevano riferito che i premi connessi al raggiungimento di certi obiettivi si concretizzavano in incrementi stipendiali per tutti i dipendenti;

d) va quindi applicato il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, quando vi è sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela reale solo quando il fatto accertato rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili, mentre va riconosciuta la tutela risarcitoria se, come nel caso della decisione, la condotta addebitata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa.

6. Per la cassazione di tale sentenza D.B. ha proposto ricorso affidato a tre motivi, illustrati da successiva memoria ex art. 378 cod. proc. civ.. Ha resistito con controricorso A. s.p.a., che pure ha depositato memoria.

Ragioni della decisione

1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 138 CCNL Turismo, con riferimento agli artt. 1362, 1363, 1365 e 1367 cod. civ., erronea sussunzione della fattispecie concreta nella normativa astratta invocata, conseguente violazione dell’art. 18 comma 4, legge n. 300 del 1970 e falsa applicazione del successivo comma 5 dell’art. 18, come modificato dalla legge n. 92 del 2012.

La ricorrente addebita alla sentenza di avere omesso di interpretare la disciplina contrattuale, limitandosi ad affermare che la condotta posta in essere non costituiva un’ipotesi di “esecuzione del lavoro con negligenza”, di cui alla lett. c) comma 7 dell’art. 138 CCNL. Denuncia che anche tale previsione avrebbe dovuto essere interpretata alla luce della lett. f) dello stesso art. 7, riguardante il lavoratore che “in altro modo trasgredisca l’osservanza del presente contratto o commetta atti che portino pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene e alla sicurezza dell’azienda”.

Deduce che erano state così violate, nell’interpretazione dell’art. 138 CCNL, le regole di ermeneutica contrattuale, posto che le clausole vanno interpretate nel loro contenuto complessivo (artt. 1362 e 1363 cod. civ.); occorre che l’interpretazione risulti ragionevole, nel senso che essa sia volta a valorizzare le espressioni generali usate in modo da non restringerne arbitrariamente la portata (art. 1365 cod. civ.) e privilegi nel dubbio la soluzione in grado di rendere la clausola effettiva ed efficace (art. 1367 cod. civ.).

2. Il secondo motivo denuncia violazione dei commi 4 e 5 dell’art. 18 legge del 300 del 1970 per non avere la sentenza debitamente considerato che ben può ricorrere l’ipotesi della insussistenza del fatto quando sia carente l’elemento soggettivo della imputabilità della condotta al dipendente.

Si sostiene che, secondo la stessa ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza impugnata, il comportamento della ricorrente non aveva integrato vere e proprie omissioni, né illeciti ammanchi di cassa, ma era consistito in una “scontrinatura” formalmente non corrispondente nei tempi e nei contenuti a quanto effettivamente venduto alla clientela; la condotta contestata si era rivelata nella sostanza conforme alle indicazioni ricevute dai diretti superiori gerarchici e al comportamento tenuto da tutto il personale; l’atteggiamento passivo rispetto al corretto adempimento degli obblighi contrattuali o la violazione di tali obblighi non poteva essere ritenuto frutto di una autonoma determinazione direttamente imputabile alla lavoratrice.

3. Il terzo motivo denuncia nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli art. 132, secondo comma, n. 4 e art. 118 disp. att. cod. proc. civ. per motivazione apparente e comunque palesemente contraddittoria sia in ragione della omessa disamina della disciplina contrattuale, sia per il contrasto logico sotteso alla considerazione di avere, da un lato, ritenuto sussistente un grave condizionamento subito dalla ricorrente e, dall’altro, definito la condotta come consapevole e volontaria, diretta a conseguire vantaggi indebiti.

4. Il ricorso è meritevole di accoglimento con riguardo al primo e al terzo motivo, da esaminare congiuntamente, con assorbimento del secondo.

5. La sentenza impugnata ha premesso di condividere la ricostruzione dei fatti seguita dal primo giudice. Segnatamente, ha affermato che i fatti non potevano attingere ad una gravità tale da giustificare il licenziamento.

Pur escludendo (implicitamente) l’ipotesi della insussistenza del fatto in termini disciplinarmente rilevanti, con riferimento tanto all’elemento oggettivo quanto all’elemento soggettivo, ha ritenuto tuttavia che i fatti non fossero “così gravi da meritare il licenziamento”. Il giudice di appello ha rimarcato proprio la circostanza, pienamente comprovata in istruttoria, come emerge dalla stessa sentenza, che la lavoratrice si fosse limitata ad “assecondare” le richieste dei suoi superiori, sicché “il grado di colpa che le può essere addebitato è modesto”. L’ordine argomentativo depone quindi per un accertamento di merito circa l’insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo e per la formulazione di un giudizio di non proporzionalità della sanzione (licenziamento) al comportamento addebitato e risultato comprovato nei termini di cui all’accertamento istruttorio.

6. Secondo giurisprudenza costante, il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie sono propri del giudice di merito. Nel caso di specie, i giudici di merito di primo e di secondo grado sono pervenuti al medesimo giudizio di non proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto al fatto contestato, divergendo invece quanto alla tutela applicata.

7. In via generale, questa Corte ha affermato che, nell’ambito della valutazione di proporzionalità tra la sanzione e i comportamenti, nell’ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo la proporzionalità tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012, per le quali è prevista la tutela indennitaria c.d. forte (v., tra le altre, Cass. n. 31529 del 2019, n. 25534 del 2018, n. 13178 del 2017). Ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento illegittimo sarà meritevole della tutela reintegratoria (cfr. Cass. n. 31839 del 2019). In presenza di un licenziamento disciplinare illegittimo, la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, st.lav. riformulato, è applicabile in presenza di una valutazione di non proporzionalità attraverso il parametro della riconducibilità della condotta accertata ad una ipotesi punita con sanzione conservativa dalla contrattazione collettiva (Cass. n. 33500 del 2018).

8. Il primo motivo di ricorso si incentra sull’omessa interpretazione delle clausole contrattuali, sottolineando in particolare l’omessa disamina della clausola finale (“di chiusura”) di cui alla lett. f) dell’art. 7, la quale prevede che è soggetto a sanzione conservativa altresì il dipendente che “in altro modo trasgredisca l’osservanza del presente contratto o commetta atti che portino pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene ed alla sicurezza dell’azienda”.

9. L’interpretazione che, anche nella giurisprudenza di questa Corte, porta ad integrare i presupposti costitutivi dell’una o dell’altra forma di tutela (art. 18, commi 4 e 5) deve pur sempre costituire l’approdo di una esegesi, oltre che coerente e razionale, completa per il tramite di tutti i tradizionali criteri dell’ermeneutica contrattuale, ivi compresi quello dell’interpretazione sistematica e quello della ricerca dell’intenzione comune delle parti contraenti, onde definire il contenuto, anche a mezzo delle clausole di più ampio tenore lessicale, della portata applicativa delle altre, ricorrendo non già ad una interpretazione analogica, ma se del caso estensiva – nei termini e nei limiti di seguito meglio chiariti – del significato delle parole usate nel contesto complessivo del codice disciplinare e della volontà negoziale.

10. Anche nell’interpretazione dei contratti collettivi, l’art. 1362 cod. civ. impone all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, in ciò differenziandosi dall’art. 12 delle preleggi che, nell’interpretazione della legge, assegna un valore prioritario al dato letterale, individuando, quale ulteriore elemento, l’intenzione del legislatore (cfr. ex plurimis, Cass. n. 13083 del 2009). Ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 cod. civ. e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (Cass. n. 4670 del 2009). Nell’interpretazione dei contratti, l’art. 1363 cod. civ. impone di procedere al coordinamento delle varie clausole e di interpretarle complessivamente le une a mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso risultante dall’intero negozio; pertanto, la violazione del principio di interpretazione complessiva delle clausole contrattuali si configura non soltanto nell’ipotesi della loro omessa disamina, ma anche quando il giudice utilizza esclusivamente frammenti letterali della clausola da interpretare e ne fissa definitivamente il significato sulla base della sola lettura di questi, per poi esaminare ex post le altre clausole, onde ricondurle ad armonia con il senso dato aprioristicamente alla parte letterale, oppure espungerle ove con esso risultino inconciliabili (Cass. n. 9755 del 2011).

11. E’ stato escluso nella giurisprudenza di questa Corte, nella particolare materia che interessa, il ricorso all’applicazione analogica (Cass. n. 7519 del 1983; Cass. n. 5726 del 1985; Cass. n. 6524 del 1988, più recentemente Cass. n. 30420 del 2017). Inoltre, se è vero che l’accesso alla tutela reale di cui all’art. 18, comma 4, st.lav. è divenuta eccezionale a seguito della modifica introdotta dalla legge n. 92 del 2012, tuttavia non può neppure escludersi la praticabilità di un’interpretazione estensiva delle clausole contrattuali ove esse appaiano inadeguate per difetto dell’espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione.

12. L’art. 1365 cod. civ. consente l’interpretazione estensiva di clausole contrattuali se inadeguate per difetto dell’espressione letterale rispetto alla volontà delle parti, tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione, sicché l’esclusione da tali clausole di casi non espressamente previsti va attuata dall’interprete tenendo presenti le conseguenze normali volute dalle parti con l’elencazione esemplificativa dei casi menzionati onde verificare, alla stregua del criterio di ragionevolezza imposto dalla norma, se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell’esemplificazione (Cass. n. 9560 del 2017, richiamata pure da Cass. sez. lav. n. 31839 del 2018).

In tale ipotesi, l’interprete deve tener presenti le conseguenze normali volute dalle parti stesse con l’elencazione esemplificativa dei casi menzionati e verificare se sia possibile ricomprendere nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell’esemplificazione, attenendosi, nel compimento di tale operazione ermeneutica, al criterio di ragionevolezza imposto dalla medesima norma (cfr. Cass. n. 31839 del 2019, in motivazione).

13. In conclusione, al fine di stabilire quale sia la portata applicativa delle ipotesi contemplate dal contratto collettivo per le quali è prevista l’irrogazione di una sanzione conservativa, l’esegesi della norma va condotta attraverso la corretta e completa applicazione dei tradizionali criteri di ermeneutica contrattuale nei termini di cui alla giurisprudenza citata, operazione interpretativa che nella sentenza impugnata è mancata.

14. L’omessa disamina della disciplina contrattuale rende la sentenza radicalmente carente di motivazione in ordine al processo logico attraverso il quale è giunta ad escludere la riconducibilità della condotta posta in essere in alcuna delle previsioni contrattuali suscettibili, secondo la volontà delle parti collettive, di sanzione conservativa.

15. Si ravvisano anche radicali contraddizioni logiche nella valutazione dell’elemento psicologico ascritto: la sentenza, pur escludendo l’ipotesi della negligenza, riferisce di un “grado di colpa modesto”, non meglio specificando quale tipologia di condotta colposa sia addebitabile alla ricorrente e poi, al contempo, ascrive alla ricorrente una condotta dolosa, in quanto “consapevolmente volta a far conseguire…vantaggi indebiti”.

16. L’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo civile, dall’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità comma, n. 4, cod. proc. civ. (Cass. n. 22598 del 2018). In tale contesto, è denunciatale in cassazione l’anomalia motivazionale che si concretizza nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, quale ipotesi che non rende percepibile l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza, non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice (Cass. n. 12096 del 2018).

17. In conclusione, accolti il primo e il terzo motivo, assorbito il secondo, va cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di appello di Genova in diversa composizione, per il riesame del merito dell’appello alla luce dei principi sopra esposti. Al giudice di rinvio è demandata anche la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il primo e il terzo motivo, assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Genova in diversa composizione.