CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 settembre 2018, n. 22673
Licenziamento per giusta causa – Presentazione delle giustificazioni da parte del lavoratore – Termine – Tardività – CCNL di settore
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Bari, con sentenza resa pubblica il 26/5/2016 accoglieva il reclamo proposto dalla s.p.a. L.D.M. ex art. 1 comma 58 della L. n. 92 del 2012, avverso la sentenza del giudice di prima istanza che aveva dichiarato l’inefficacia del licenziamento per giusta causa intimato in data 4/6/2013 nei confronti di C.S. e rigettava le domande proposte dal lavoratore volte a conseguire la reintegra nel posto di lavoro e la condanna della parte datoriale al risarcimento del danno.
La Corte territoriale, nel pervenire a tali conclusioni, riteneva in primo luogo tempestivo il reclamo proposto dalla società, sul rilievo che il termine di decadenza di 30 giorni previsto dall’art. 1 comma 58 della legge numero 92 del 2012 cit. non poteva, nel caso di specie, decorrere dalla comunicazione della sentenza del Tribunale via p.e.c., in quanto priva in allegato del testo integrale della sentenza.
Nel merito, rimarcava la legittimità del provvedimento espulsivo irrogato, respingendo l’eccezione di tardività sollevata dallo S. con riferimento al termine perentorio di trenta giorni dalla presentazione delle giustificazioni da parte del lavoratore, sanciti dall’art. 41 c.c.n.l. di settore.
Avverso tale pronuncia C.S. e per esso R.S. nella sua qualità di amministratore di sostegno, interpone ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la società intimata. A seguito di decesso di uno dei difensori di quest’ultima, avv. D.D.P., si è costituito l’avv.P.G. che ha depositato memoria di costituzione.
Ragioni della decisione
1. Deve respingersi la questione preliminare sollevata dalla società intimata con riferimento alla nullità del ricorso per la mancata preventiva, specifica autorizzazione del giudice tutelare, prescritta dal combinato disposto di cui agli artt. 374 – 411 c.c. ai fini della regolare instaurazione del rapporto processuale.
E’ infatti principio affermato da questa Corte in numerosi approdi, e che va qui ribadito, quello in base al quale “il ricorso risulta legittimamente avanzato dall’amministratore di sostegno, senza necessità di autorizzazione del giudice tutelare, trattandosi della coltivazione di lite sorta anteriormente alla designazione di sostegno” (vedi in motivazione Cass. 21/11/2017 n. 27622, nonché Cass. 30/9/2015, n. 19499, in materia di tutela, Cass. 24/03/2009 n. 7068).
In considerazione del tenore letterale e della “ratio” di cui all’art. 374 cod.civ., al tutore è, invero, fatto divieto – senza autorizzazione del giudice tutelare – di iniziare “ex novo” giudizi a nome della persona tutelata, ma non di proseguire quelli che la stessa abbia personalmente promosso in epoca antecedente al provvedimento di interdizione, non ricorrendo in tale ipotesi la necessità di compiere la preventiva, valutazione in ordine all’interesse e al rischio economico per il tutelato, in quanto già compiuta dall’interessato prima della perdita della capacità.
Nello specifico, la rilevata carenza – nell’atto di nomina generale dell’amministratore di sostegno – di una precipua autorizzazione alla instaurazione del presente giudizio da parte del giudice tutelare, non integra, alla luce degli enunciati principi, un vizio di legittimazione processuale idoneo a determinare la radicale nullità dell’intero giudizio, nei sensi prospettati dalla parte controricorrente.
2. Con il primo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 1 c. 58 L. 92 del 2012, del dl n. 179/2012 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c. nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c.
Si deduce che, come documentato dalla attestazione telematica rilasciata dalla cancelleria del Tribunale di Foggia, la società aveva ricevuto comunicazione di avvenuto deposito della sentenza n. 8573/2013 e degli allegati documenti, in data 23/10/2013, con la precisazione che la sentenza era stata depositata unitamente al dispositivo. Ci si duole che la Corte distrettuale non abbia tenuto conto di tale certificazione, omettendo l’esame di un atto decisivo per la causa, così ritenendo tempestivo il reclamo interposto con atto depositato il 5/12/2013.
3. Il motivo, con il quale il ricorrente prospetta all’evidenza, un error in procedendo – riferibile ad un vizio del processo che si sostanzia nel compimento di un’attività deviante rispetto alla regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore – in cui sarebbe incorso il giudice del gravame, palesa profili di inammissibilità.
Ed invero, come questa Corte insegna, il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma 1, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione ivi stabilite, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi.
Ne deriva che, ove il ricorrente lamenti l’errore processuale consistito nell’aver ritenuto ammissibile una domanda in violazione delle preclusioni processuali, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n.4 del comma 1 dell’art. 360 cod. proc. civ., con riguardo alla norma processuale violata, purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa violazione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché si riferisca esclusivamente alla insufficienza e contraddittorietà della motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (vedi Cass. 29/11/2016 n. 24247) o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (cfr. Cass. S.U. 24/07/2013 n.17931, Cass. 28/9/2015 n. 19124).
Nello specifico il ricorrente non si è conformato agli enunciati principi, essendosi limitato ad argomentare in ordine alla violazione di legge ed al vizio di motivazione, peraltro promiscuamente, secondo modalità non consentite (vedi Cass. 23/9/2011, n. 19443), senza fare alcun riferimento alle conseguenze che l’errore sulla legge processuale comporta, onde la censura non si sottrae ad un giudizio di inammissibilità.
4. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. 300 del 1970 e dell’art. 41 c.c.n.l. di settore in relazione all’art. 360 comma primo n.3.
Si lamenta che la Corte distrettuale non abbia reso una corretta interpretazione della disposizione collettiva secondo cui il provvedimento disciplinare non può essere adottato oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione delle giustificazioni da parte del lavoratore.
5. Anche detta censura va disattesa.
E’ orientamento costante di questa Corte (confronta, tra le altre, Cass. Sez. Un. 2/12/2008 n. 28547, Cass. 14/3/2013 n. 6556) che, in tema di ricorso per cassazione, a seguito della riforma ad opera del D.Lgs. n. 40 del 2006, il novellato art. 366 c.p.c., comma 6, oltre a richiedere la “specifica” indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto. Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento prodotto in giudizio, postula che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità. In altri termini, il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.Nello specifico, la disposizione collettiva non risulta trascritta nel suo contenuto. Inoltre, in ricorso non viene indicato se il contratto risulta prodotto in via integrale, secondo i dicta di questa Corte, essendo stato riferito che l’art. 41 c.3 è allegato al fascicolo di parte di primo grado.
In base ai consolidati principi affermati da questa. Corte ai quali va data continuità, l’onere di deposito sancito, a pena di improcedibilità, dall’art. 369, co. 2, n. 4, c.p.c., deve avere ad oggetto l’integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione nell’esercizio del sindacato di legittimità sull’interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale (vedi Cass. 8/11/16 n. 22668, Cass. S.U. 23/9/2010 n. 20075). L’onere del deposito assume una sua rilevanza autonoma – ed è distinto, perciò, dall’onere di “autosufficiente” indicazione e trascrizione delle clausole contrattuali nel corpo dei motivi – corrispondendo alla funzione nomofilattica del giudice di legittimità, che si esercita – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – anche con riferimento ai contratti e accordi collettivi nazionali, in ragione della peculiare efficacia di tali atti, sì che la distinta produzione (oltre che la specifica indicazione, in ricorso, delle singole disposizioni dedotte) è finalizzata ad una compiuta ricognizione da parte della Corte di Cassazione, chiamata alla diretta interpretazione dei medesimi e non soltanto alla verifica dei canoni ermeneutici utilizzati dal giudice di merito.
Nella specie parte ricorrente non ha precisato nel ricorso per cassazione, come prescritto dall’insegnamento innanzi ricordato, l’avvenuta produzione integrale del contratto collettivo sul quale fonda il motivo di gravame e la sede in cui gli stessi erano rinvenibili, né tale contratto collettivo risulta integralmente prodotto.
6. Alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del d.P.R. n. 115/2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228/2012, art. 1, comma 17 e di provvedere in conformità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater, d.P.R. 115/2002, dichiara sussistenti i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art. 13, comma 1-bis.
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