CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 4634 depositata il 21 febbraio 2024
Lavoro – Contratto di lavoro a termine – Nullità del termine – Carenze di organico – Clausola di contigentamento – Accoglimento parziale
Rilevato che
1. La Corte di appello di Napoli ha accolto l’appello di P.I. spa e, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto la domanda di C.L., volta alla declaratoria di nullità del termine apposto al contratto concluso tra le parti, nel periodo dal 18 agosto 2000 al 30 settembre 2000, “per necessità di espletamento servizio recapito in concomitanza di assenze per ferie”.
2. La Corte territoriale ha ritenuto, richiamando precedenti di legittimità, che l’ipotesi di assunzione a termine in concomitanza delle assenze per ferie, prevista dall’art. 8 del contratto collettivo del 26 novembre 1994 sulla base della delega in bianco conferita dall’art. 23 della legge n. 56 del 1987, trovasse la propria legittimazione nel contratto medesimo e non fosse sottoposta ai vincoli di forma di cui alla legge n. 230 del 1962 (ad esempio, l’indicazione nominativa del dipendente sostituito), essendo posto a carico di parte datoriale unicamente l’onere di sottoscrizione del contratto con riferimento al periodo (giugno – settembre) previsto dalla contrattazione collettiva. Ha aggiunto che le ulteriori questioni poste dall’appellato nella memoria di costituzione, come quella concernente la clausola di contingentamento, erano state solo genericamente accennate nel ricorso introduttivo di primo grado, senza alcuna deduzione specifica in fatto e in diritto, non erano state trattate dinanzi al tribunale e non potevano essere affrontate in appello.
3. Avverso tale sentenza C.L. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. P.I. spa ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
4. Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che
5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione o falsa applicazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 230 del 1962, degli artt. 1362 e ss. c.c. e dell’art. 2697 c.c. Si assume che l’art. 23 della legge n. 56 del 1987 ha attribuito alla contrattazione collettiva il compito di individuare le ipotesi in cui è ammissibile l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato, inserendosi tuttavia nel sistema delineato dalla legge n. 230 del 1962; ciò comporta la piena applicabilità delle disposizioni di quest’ultima legge (in particolare, degli artt. 1, 2 e 3) e l’illegittimità del termine apposto al contratto in esame per mancata indicazione del nome del lavoratore da sostituire.
6. Con il secondo motivo è dedotto il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia prospettati dalle parti nonché violazione o falsa applicazione dell’art. 1372 c.c. in correlazione con l’art. 2697 c.c. ed erronea valutazione delle prove documentali raccolte, per non avere la Corte d’appello considerato che il lavoratore non ha sostituito lavoratori assenti per ferie ma ha sopperito ad una carenza cronica del personale addetto all’ufficio in questione.
7. Con il terzo motivo si imputa alla sentenza l’omesso esame, in relazione all’art. 115 c.p.c., circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, esattamente la non contestazione del documento di cui al n. 3 della produzione attorea (art. 360 n. 5 c.p.c.). Si assume che la circostanza secondo cui il lavoratore ha coperto carenze di organico era stata allegata sin dal ricorso di primo grado e non è stata oggetto di specifica contestazione da parte di Poste.
8. Con il quarto motivo si denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti nonché motivazione apparente in relazione all’articolo 8 del c.c.n.l. Poste del 26 novembre 1994. Si critica la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto che la violazione della clausola di contingentamento non abbia trovato spazio nel giudizio di primo grado e si deduce che in senso contrario si ricava dal contenuto del ricorso introduttivo di primo grado e dalle relative richieste istruttorie (atti debitamente trascritti e localizzati); si osserva che era onere della società provare il rispetto della clausola in esame e, specificamente, che il numero dei dipendenti assunti a termine nell’anno 2000 era inferiore al 10% dei lavoratori in servizio a tempo indeterminato, costituendo l’osservanza di tale limite requisito essenziale per la legittima apposizione del termine; che Poste in primo grado si era invece limitata ad affermare il rispetto del limite percentuale di assunzioni a termine ed aveva allegato uno specchietto riepilogativo inidoneo ad assolvere all’onere di prova in oggetto.
9. Il primo motivo di ricorso è infondato, alla luce dei principi di diritto affermati da questa Corte secondo cui “In tema di assunzione a termine di lavoratori subordinati, è legittima la previsione, operata dalla contrattazione collettiva, della causale relativa alla “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno settembre”, dovendo interpretarsi nel senso che gli stipulanti hanno considerato il bisogno, nel periodo in oggetto, di assumere personale per sopperire all’assenza di quello in congedo, con la conseguenza che l’indicazione nel contratto del nominativo del lavoratore sostituito non è necessaria e non è configurabile alcun onere di allegazione e prova dell’esigenza e dell’idoneità della singola assunzione a far fronte a essa, essendo sufficiente il rispetto della clausola di c.d. contingentamento, ossia della percentuale massima di contratti a termine rispetto al numero dei rapporti a tempo indeterminato stabilita a livello collettivo, in adempimento dell’art. 23 della legge n. 56 del 1987” (Cass. n. 22009 del 2011; n. 23119 del 2010; n. 167 del 2006; n. 26678 del 2005). La giurisprudenza di legittimità ha considerato quale unico presupposto per la operatività dell’autorizzazione conferita dal contratto collettivo l’assunzione nel periodo in cui, di norma, i dipendenti fruiscono delle ferie, atteso che la clausola contrattuale non parla di sostituzione di dipendenti assenti, ma precisa il periodo per il quale l’autorizzazione è concessa, con la conseguenza che la necessità di espletamento del servizio nel periodo indicato è stata dalle parti stipulanti considerata sempre sussistente, come fatto palese dall’uso dell’espressione “in concomitanza”.
10. Si è puntualizzato (v. Cass. n. 26678 del 2005) che “l’interpretazione dell’art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56 nel senso dell’estensione dei contratti a termine “autorizzati”, consentendo alla contrattazione collettiva, con una sorta di “delega in bianco”, di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, e affidando, adeguatamente, la tutela del lavoratore allo strumento negoziale collettivo, non rappresenta un capovolgimento del rapporto di regola-eccezione tra contratto di lavoro a tempo indeterminato e lavoro temporaneo, né una “liberalizzazione” dell’assunzione a termine (ritenuta inammissibile da Corte cost. n. 41 del 2000, in forza dell’obbligo dell’Italia di rispettare la direttiva 1999/70/Ce del Consiglio dell’Unione Europea del 28 giugno 1999)”.
11. A tale interpretazione si è attenuta la Corte d’appello sicché nessuna violazione di legge può dirsi integrata.
12. Il secondo e il terzo motivo di ricorso sono inammissibili.
13. Le Sezioni Unite di questa Corte (sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014) hanno precisato che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., disposta dall’art. 54 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis (sentenza d’appello del 18.9.2018), deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle Preleggi, come riduzione al ‘minimo costituzionale’ del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione”. Tali difetti non sono in alcun modo rinvenibili nella decisione impugnata e, peraltro, le censure mosse sono inammissibilmente formulate in termini di insufficienza e contraddittorietà della motivazione.
14. Le residue critiche investono espressamente la valutazione del materiale probatorio (neppure esattamente individuato) e si collocano quindi all’esterno del perimetro segnato dall’art. 360 n. 5 c.p.c. e delineato dalle citate sentenze delle Sezioni Unite come riferito all’omesso esame di un fatto storico determinato e decisivo.
15. Parimenti inammissibile è la violazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., atteso che l’attuale ricorrente non ha osservato le prescrizioni imposte dall’art. 366 n. 6 c.p.c. e, in particolare, ha del tutto omesso di trascrivere, almeno nelle parti essenziali, e di localizzare, gli atti processuali su cui la dedotta violazione si fonda (nella specie, le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo di primo grado e il contenuto della comparsa di costituzione della società che si assume priva di contestazioni sul punto).
16. Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ex art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., interpretato in modo compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, deve ritenersi rispettato ogni qualvolta l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fondi, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali, bastando, ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati (v. Cass. n. 12481 del 2022; S.U. n. 8950 del 2022). Tali adempimenti difettano nel ricorso in esame.
17. Il quarto motivo è invece fondato. Esso, se pure rubricato come “omesso esame circa un fatto decisivo e motivazione apparente” censura, con ampie argomentazioni, la violazione della regola di distribuzione dell’onere probatorio e in tal senso deve essere riqualificato (v. Cass. n. 4036 del 2014; n. 25557 del 2017; n. 26310 del 2017).
18. Questa Corte ha affermato che “In tema di clausola di contingentamento dei contratti di lavoro a termine di cui all’art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, l’onere della prova dell’osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori stabili e a termine previsto dalla contrattazione collettiva, da verificarsi necessariamente sulla base dell’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, è a carico del datore di lavoro, sul quale incombe la dimostrazione, in forza dell’art. 3 della legge 18 aprile 1962, n. 230, dell’oggettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro” (Cass. n. 4764 del 2015).
19. Si è ulteriormente precisato (v. Cass. n. 8918 del 2019 in motivazione, pag. 7), richiamando i principi generali più volte affermati da questa Corte (v. Cass. 7 maggio 2015, n. 9201), che l’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 cod. civ., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto ‘fatti negativi’; che quindi è il datore di lavoro, tenuto all’osservanza della c.d. clausola di contingentamento, che deve provare il rispetto del previsto limite percentuale, id est il mancato superamento di tale limite (v. Cass. 19 novembre 2015, n. 23704; Cass. 10 marzo 2015, n. 4764; Cass. 19 gennaio 2013 n. 701; Cass. 28 giugno 2011, n. 14283; Cass. 19 gennaio 2010, n. 839), incombendo sul medesimo l’onere di dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, ciò anche in vista della finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della ‘disponibilità’ dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa (Cass. 19 aprile 2017, n. 9867; Cass., Sez. U., 10 gennaio 2006, n. 141); è sufficiente, dunque, che il lavoratore deduca l’avvenuto superamento della percentuale di contingentamento per far scattare l’onere probatorio della società.
20. La Corte d’appello non si è attenuta ai principi di diritto appena richiamati poiché ha giudicato inidonea, a far scattare l’onere probatorio della società datoriale, la deduzione del lavoratore di violazione del limite percentuale, in assenza di ulteriori e specifiche allegazioni in fatto e argomentazioni in diritto.
21. In accoglimento del quarto motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che, uniformandosi ai richiamati principi di diritto, procederà ad esaminare la questione del rispetto o meno della clausola di contingentamento, con onere della prova a carico della società datoriale.
P.Q.M.
Accoglie il quarto motivo di ricorso, rigetta gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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