CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 14 gennaio 2019, n. 611
Licenziamento per giusta causa – Inosservanza delle regole di correttezza e reciproco rispetto nei rapporti tra colleghi e superiori gerarchici – Reazioni aggressive
Fatti di causa
1. Con sentenza depositata il 9.7.2015 la Corte d’appello di l’Aquila, confermando la pronuncia del Tribunale di Teramo, ha dichiarato legittime le due sanzioni disciplinari conservative intimate il 6.8.2007 e il 28.5.2008 a P.T. dal datore di lavoro Y.M. s.p.a. nonché legittimo il licenziamento intimato per giusta causa il 9.7.2009.
2. La Corte territoriale ha rilevato che gli elementi istruttori raccolti avevano confermato integralmente i fatti oggetto delle contestazioni nella loro dimensione storica e materiale così come indicati nelle lettere inoltrate al dipendente sia con riferimento alle sanzioni conservative che al licenziamento.
3. Il T. ha proposto, avverso tale sentenza, ricorso per cassazione affidato a quattro motivi (seppur erroneamente numerati). La società ha depositato controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 cod.proc.civ. nonché 2697, 2727 e 2729 cod.civ. oltre a vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, omesso di valutare le prove sottoposte al suo esame, senza tener conto dell’inattendibilità dei testimoni di parte datoriale.
2. Con il secondo ed il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 3 della legge n. 604 del 1966, 7 della legge n. 300 del 1970, 2106 e 2119 cod.civ. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, omesso di rispondere alla censura di sproporzionalità della sanzione espulsiva, dovendosi considerare che il comportamento del T. rappresentava la reazione ad un atteggimento mobbizzante subito in azienda dai superiori gerarchici.
3. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 cod.proc.civ. e 2697 cod.civ. nonché vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, omesso di valutare tutti gli elementi istruttori acquisiti ossia che il ricorrente aveva un ottimo rapporto con i colleghi (salvo che con i superiori gerarchici) ed era un lavoratore scrupoloso e particolarmente produttivo.
4. Le censure (nell’ambito del primo e dell’ultimo motivo) che invocano il paradigma dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ. sono inammissibili, operando la modifica che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia “doppia conforme”.
L’art. 348 ter, comma 5, prescrive che la disposizione di cui al comma 4 – ossia l’esclusione del n. 5, dal catalogo dei vizi deducibili di cui all’art. 360, comma 1, cod.proc.civ. – si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado, con la conseguenza che il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme.
Nel caso di specie, per l’appunto, la Corte distrettuale ha confermato la statuizione del Tribunale, che aveva ritenuto, da una parte, legittimamente intimate le sanzioni conservative “in quanto conseguenziali a comportamenti ampiamente provati, connotati dalla totale inosservanza delle regole di correttezza e reciproco rispetto nei rapporti tra colleghi e superiori gerarchici e da insofferenza rispetto a legittime disposizioni aziendali”, e, dall’altra, legittimo il licenziamento “in quanto giustificato alla luce della obiettiva gravità dei fatti posti in essere nelle giornate lavorative del 23 e 30 giugno 2009 per essersi gli stessi posti nel solco di una serie di comportamenti ripetutamente posti in essere, oggetto di sanzioni conservative, tutti connotati da reazioni aggressive, violenze verbali, atteggiamenti minacciosi”.
La sentenza impugnata si fonda sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata e il ricorrente non ha indicato le ragioni (di fatto) poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, in modo da dimostrare che esse sono tra loro diverse (cfr. Cass. nn. 26774 del 2016, Cass. n. 5528 del 2014).
5. Per quel che residua, i motivi di ricorso appaiono inammissibilmente formulati per avere ricondotto sotto l’archetipo della violazione di legge censure che, invece, attengono alla tipologia del difetto di motivazione ovvero al gravame contro la decisione di merito mediante una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite dalla Corte territoriale. Né può rinvenirsi un vizio di falsa applicazione di legge, non lamentando, il ricorrente, un errore di sussunzione del singolo caso in una norma che non gli si addice.
Il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010).
Nella specie è evidente che il ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente ricostruzione della fattispecie concreta (con particolare riferimento all’omessa valutazione del comportamento mobbizzante che si ritiene subito da parte dei superiori gerarchici), e dunque un vizio motivo da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma n. 5 cod.proc.civ., censura che – come detto – è preclusa da una pronuncia c.d. doppia conforme (e che, in ogni caso, sarebbe circoscritta all’omesso esame di un fatto storico decisivo, con riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione: Cass. S. U. n. 8053 del 2014).
La sentenza impugnata ha ampiamente esaminato i fatti controversi ed accertato che l’istruttoria espletata in primo grado aveva confermato integralmente i fatti contestati e che il lavoratore non aveva contestato la verificazione di tali fatti nella loro dimensione oggettiva, essendosi limitato “in alcuni casi a ridimensionare la portata considerandoli espressione della normale dialettica in ambiente di lavoro e in altri casi a ricondurre i propri comportamenti a reazioni consequenziali ad atteggiamenti aggressivi e provocatori di O.S. e O.W.” (superiori gerarchici), vessazioni che non avevano trovato conferma nella prova testimoniale.
Infine, non appare fondata neppure la censura concernente l’inattendibilità di alcuni testimoni, assunto che si traduce, più che nella violazione delle norme e dei principi dettati in materia di proporzionalità delle sanzioni disciplinari, nella rilevazione di un iter motivazionale incongruo. Si sostiene al riguardo che il Tribunale e la Corte distrettuale non abbiano valutato analiticamente le prove sottoposte al loro esame e non abbiano tenuto conto della inattendibilità dei testimoni citati dalla società “laddove riferiscono parzialmente le pretese offese e minacce ricevute ma non fanno cenno della loro condotta anteatta, concomitante e successiva alle medesime, condotta che è stata invece riferita dai testi I. ed in generale da altri testi”.
La censura mira a contestare la valutazione della prova e non l’applicazione di parametri normativi della proporzionalità della sanzione all’infrazione commessa e si risolve nel muovere all’impugnata sentenza censure del tutto inammissibili oltre che infondate e meramente ripetitive del contenuto dell’atto di appello. La Corte distrettuale ha, invero, sottolineato che il lavoratore-appellante ha tentato di “mettere in dubbio la stessa verificazione dei fatti oggetto delle contestazioni” mediante “il richiamo parziale di alcune deposizioni dei testi escussi e, segnatamente, di quelli non presenti ai singoli fatti contestati o se presenti non in grado di ricordare il fatto oggetto di contestazione nella sua dimensione storica e materiale”, con ciò “ritenendo di potersi esimere dall’analizzare le deposizioni dei testi che hanno confermato i fatti oggetto di contestazione”; ha, inoltre, osservato che l’espletata istruttoria aveva confermato integralmente i fatti contestati rilevando, nel contempo, come il lavoratore non avesse contestato “la verificazione di tali fatti nella loro dimensione oggettiva” per essersi limitato “in alcuni casi a ridimensionare la portata considerandoli espressione della normale dialettica in ambiente di lavoro e in altri casi a ricondurre i propri comportamenti a reazioni consequenziali ad atteggimenti aggressivi e provocatori di O.S. e O.W.”.
7. In sintesi, il ricorso è inammissibile e le spese di lite sono regolate in applicazione del principio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
8. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 5.000 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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