CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 aprile 2019, n. 9223
Tributi – IVA – Importazioni – Immissione di merce in libera pratica destinate a deposito fiscale – Mancata introduzione nel deposito fiscale – Successivo versamento dell’IVA mediante autofatturazione – Regolarizzazione del mancato versamento – Configurazione di violazione formale sanzionabile
Rilevato che
Con gli avvisi di accertamento nr. TF011608115/2011 e TF011608119/2011 l’Agenzia delle Entrate dir. Prov. Salerno accertava nei confronti dell’attuale ricorrente per gli anni di imposta 2006 e 2007 maggiori redditi sottoponendoli quindi, ai sensi art. 38 comma 4 e 6 dpr n. 600/1973, a tassazione, applicando anche le relative sanzioni ex art. 1 comma 2 dlgs n. 471/1997;
Con distinti atti di accertamento n. TF9010807999/2011 e TF9010807222/2013 lo stesso ufficio accertava l’omesso versamento IVA e ne chiedeva il pagamento oltre oneri e sanzioni ex art. 5 comma 4, 471/1977 d.lgs.;
che a seguito dei ricorsi proposti dal contribuente sui quattro accertamenti indicati poi riuniti, la commissione provinciale di Salerno rigettava i ricorsi del contribuente confermando, quindi, gli accertamenti relativi al maggior reddito ed invece annullava gli accertamenti inerenti l’iva.
Avverso la predetta sentenza proponeva appello l’ufficio Erariale per la materia IVA mentre il contribuente proponeva appello incidentale per la parte del ricorso non accolta circa la pretesa Irpef. La commissione Regionale della Campania accoglieva l’appello principale e rigettava quello incidentale, confermando quindi in toto gli atti impositivi emessi.
In particolare il giudice del gravame assumeva che la merce meglio in atti indicata, di origine estera, non era transitata nei depositi iva se non apparentemente e quindi riteneva violata la normativa IVA che imponeva il pagamento all’atto dello sdoganamento conseguentemente confermava gli atti impositivi sia per quanto riguardava il mancato versamento Iva che per le relative sanzioni.
Per quanto riguardava il maggior reddito accertato considerava pertinenti gli elementi sintomatici di reddito individuati dall’ufficio quali l’acquisto di immobili, acquisto non giustificabile sulla base del reddito dichiarato, sicché il prezzo versato era da ritenere accumulato occultando reddito, ritenendo irrilevante e non pertinente la documentazione depositata dal contribuente circa la lecita acquisizione della provvista, confermando conseguentemente anche le sanzioni irrogate.
Propone ricorso in Cassazione il contribuente, deducendo 12 motivi.
Resisteva con controricorso l’Agenzia Delle Entrate.
Considerato che
Con il primo ed il secondo motivo, da esaminare congiuntamente stante la stretta correlazione rilevava la violazione del principio della corrispondenza del chiesto e pronunciato ,avendo la commissione regionale omesso di statuire sulla eccezione circa l’incompetenza dell’agenzia delle Entrate ad emettere l’accertamento in materia iva in applicazione dell’art. 50 bis d.l. n. 331/1993 e art. 70 comma 1 dpr n. 633/1972.
In definitiva con tali motivi si contestava il potere della Agenzia Delle Entrate ad emettere avvisi di accertamento in materia di Iva per le merci provenienti da paesi extra comunitari.
I motivi suddetti sono infondati.
Nel caso in questione occorre verificare la sussistenza o meno della competenza funzionale dell’Agenzia delle entrate a sanzionare il non corretto adempimento degli obblighi di assolvimento dell’IVA su merci pervenute nel territorio nazionale da Paesi extra UE e collocate, dopo la immissione in libera pratica e senza il contestuale versamento dell’IVA all’importazione, presso un deposito fiscale dal quale erano state successivamente estratte con assolvimento dell’IVA con la modalità del reverse charge.
Occorre premettere il principio che – per la sua ovvietà in genere rimane sottinteso anche se nel caso pare pretermesso dal ricorrente l’obbligazione doganale non comprende l’Iva, tuttavia al momento dell’importazione, se questa è dichiarata come “definitiva”, si presume la destinazione al consumo delle merci nel territorio doganale e sorge anche l’obbligo di corrispondere l’IVA all’importazione che è tributo interno, per “l’immissione al consumo” (art. 36 TULD,). In altri termini il pagamento dell’iva al momento dell’importazione, ove definitiva, costituisce una scelta del legislatore per motivi pratici e razionali, onde rendere più difficile l’evasione del tributo, ma non vale a mutare la natura del tributo.
Sostanzialmente la normativa nazionale italiana, nel disciplinare l’obbligazione doganale, stabilisce che ,ove l’immissione in libera pratica e l’immissione al consumo coincidano al momento dell’importazione, l’autorità doganale accerta e riscuote anche l’IVA all’importazione ,ma solo per economia di procedimento; ove,invece, l’immissione in libera pratica preceda con un certo intervallo temporale l’immissione in consumo – come nel caso dei depositi IVA che non sono depositi doganali, disciplinati dall’art. 50 bis del DL n. 331/1993, l’autorità che accerta l’IVA conseguente all’importazione a seguito dell’estrazione non coincide con l’autorità doganale.
L’immissione in libera pratica dei beni destinati ad essere introdotti in un deposito IVA è un’importazione per cui l’obbligazione tributaria IVA è differita al momento in cui tali merci saranno estratte dal deposito stesso per essere commercializzate in Italia e sarà assolta dai soggetti passivi, con il meccanismo dell’inversione contabile. Ne consegue che, nel caso in cui IVA conseguente all’importazione è assolta al momento dell’estrazione della merce dal deposito fiscale, è giustificata la legittimazione all’attività di controllo dell’Agenzia delle entrate.
In tal modo questa Corte intende dare continuità all’indirizzo giurisprudenziale già affermato, da ultimo Ordinanza n. 24276 del 04/10/2018, secondo cui è funzionalmente competente: i) ai sensi dell’art. 63 del d.lgs. n. 300 del 1999, l’Agenzia delle dogane allorquando l’atto impositivo si fondi, in base alla prospettazione della stessa Agenzia, sulla supposta evasione dell’Iva all’importazione non corrisposta in dogana, al momento dell’importazione, all’interno degli spazi doganali (ad es. per una infedele dichiarazione del contribuente nella bolletta doganale circa la destinazione della merce importata); ed ai sensi dell’art. 50 bis, comma 5, del d.l. n. 331 del 1993, l’ufficio doganale che già esercita il controllo sulla gestione dei “depositi Iva” nel caso di riscontrate irregolarità nell’utilizzo del “deposito Iva” in base alla documentazione contabile verificata presso il medesimo deposito, prima della estrazione delle merci; mentre l’Agenzia delle entrate è funzionalmente competente alla riscossione dell’Iva “intracomunitaria”, in caso di mancata coincidenza dell’immissione in libera pratica con l’immissione al consumo, all’atto della estrazione delle merci dai “depositi Iva”.
Con il terzo e quarto motivo il ricorrente lamenta il mancato rispetto delle garanzie endoprocessuali di cui all’art. 7 e 12 comma 7 legge n. 212/2000 non essendo mai stato attivato il contraddittorio prima della emissione degli avvisi di accertamento impugnati dalla Agenzia delle Entrate di Salerno.
Anche tale motivo è infondato.
Nello stesso ricorso si legge a pagina 15 che dopo la consegna del processo verbale di constatazione della G. F. il contribuente presentò “all’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale di Pisa le proprie osservazioni”.
Come si vede il contribuente esercitò il suo diritto di difesa, essendo irrilevante che l’Ufficio di Pisa inviò l’intero incartamento alla Agenzia delle Entrate di Salerno non potendo pretendersi che l’Agenzia competente avrebbe dovuto di nuovo attivare la procedura in questione essendo stato già esercitato tale diritto di difesa.
Né il mancato accoglimento o corretto esame delle tesi sostenute dal contribuente inficiava la validità formale dell’accertamento emesso, potendo la parte solo far valere le proprie ragioni pretermesse in sede contenziosa.
Con il quinto motivo si deduce l’errata individuazione del thema decidendum.
Invero tale motivo appare inammissibile in quanto in modo surrettizio il ricorrente intende ottenere una nuova rivalutazione dei fatti e della normativa, così come interpretati dal giudice di secondo grado non ammissibile in questa fase ma solo in sede di appello. Del resto non vi è stato alcun errore nella individuazione della materia del contendere visto che con la sentenza della commissione regionale della Campania è stato esaminato sia l’accertamento in materia iva che in materia di accertamento dei redditi.
Con il sesto, settimo, ottavo e nono motivo, il contribuente sia pure sotto profili diversi si prefigge di far dichiarare la pretesa fiscale illegittima assumendo che tale imposta era stata assolta ritualmente con l’autofatturazione al momento della estrazione delle merci dal deposito fiscale , ed in ogni caso il versamento dell’Iva tramite autofatturazione impediva all’erario di richiederla ex novo, violando il principio della duplicazione di imposta come peraltro sostenuto anche dalla Corte Europea. Tali motivi proprio perché tendono ad escludere in radice la pretesa oggetto della lite debbono essere esaminati congiuntamente.
Tali motivi sono fondati.
Deve escludersi che il giudice del gravame abbia fatto cattivo uso del potere discrezionale di valutazione delle prove nell’aver ritenuto che la merce non sia stata fisicamente introdotta nel deposito Iva dopo lo sdoganamento.
Tale prospettazione è inammissibile nella parte in cui si prefigge di fornire una diversa ricostruzione dei fatti e infondata ove assume che non era necessario l’effettiva introduzione delle merci nel deposito. Invero la Commissione di secondo grado, in base al materiale probatorio acquisito, sottoponendolo ad una approfondita disamina, tale da lasciare trasparire il percorso argomentativo seguito (materiale peraltro oggetto di discussione) ha raggiunto un risultato interpretativo logico-giuridico corretto laddove ha ritenuto che le merci sdoganate non erano mai state prese in carico dal gestore del deposito Iva. Le argomentazioni del ricorrente circa la ricostruzione dei fatti in definitiva si traducono nella mera contrapposizione di una differente interpretazione.
Inoltre il che appare definitivo non risulta contestata la dichiarazione effettuata dal gestore del deposito e valorizzata dal giudice di appello, che dichiarò alla G. F. “di norma la merce non viene mai custodita nel nostro deposito Iva atteso che l’interesse dell’importatore è quello di entrare al più presto nella disponibilità della merce ” unita alla circostanza di fatto che in base alle annotazione nei registri tra l’ora di ingresso e l’ora di uscita vi era uno scarto di pochi minuti.
In base alla normativa di cui all’art. 50 bis d.l. 331/1993, secondo il testo all’epoca vigente, era possibile non pagare l’Iva per i beni immessi in libera pratica solo se gli stessi fossero destinati ad essere introdotti in un deposito Iva, obbligazione tributaria che sarebbe stata adempiuta al momento della estrazione dei beni dal deposito.
Per la traslazione in avanti dell’imposta occorreva quindi che vi fosse l’introduzione fisica dei beni nel deposito, tant’è che la stessa disciplina prevede l’attestazione del depositario nel registro previsto dallo stesso art. 50 bis citato, di avvenuta presa in carico della merce, introduzione mai avvenuta in base alla ricostruzione dei fatti effettuata. Le finalità del deposito Iva impone quindi agli operatori commerciali di provvedere alla materiale introduzione dei beni nei locali di stoccaggio autorizzati, non essendo sufficiente la mera presa in carico. Né la circostanza che le prestazioni di servizi indicate nell’art. 50 bis lett. H d.l. n. 331/1993 possano svolgersi nei luoghi limitrofi o adiacenti al deposito vale ad elidere l’obbligazione principale dell’introduzione nel deposito, trattandosi di prestazioni accessorie relativamente al deposito, quali verifiche e controllo dei sigilli, della quantità e qualità della merce. In sintesi era proprio l’immagazzinamento il presupposto giuridico per fruire del regime agevolativo sopra delineato (negli stessi termini sentenza 12262/2010 e ordinanza 17 dicembre 2016 n. 27058). Ma tale irregolarità rilevante ai fini della applicazione delle sanzioni, non implicava il mancato assolvimento dell’Iva (presupposto della pretesa fiscale ) che per effetto della autofatturazione in ogni caso, ai sensi dell’art. 50 bis dl 331/1993 era stata assolta al momento della estrazione della merce dal deposito, sicché l’Iva non poteva essere richiesta senza incorrere nel divieto della duplicazione di imposta.
Sul punto varie sentenze della Suprema Corte hanno affermato che – nel caso in cui le merci provenienti da paesi al di fuori della unione europea siano state immesse in libera pratica con il pagamento in dogana dei soli dazi per essere destinate all’introduzione in un deposito fiscale, introduzione poi mai avvenuta, e sempre che l’Iva sia stata in concreto assolta con il meccanismo dell’inversione contabile previsto dall’art. 17 comma 2 dpr n. 633/1972 – l’Agenzia Delle Entrate non può procedere all’emissione di un atto impositivo per il recupero dell’Iva non versata in dogana. Secondo l’orientamento giurisprudenziale che qui si vuole confermare, ai sensi dell’art. 17 comma 2, il reverse charge è un metodo normale per l’applicazione dell’Iva alle operazioni transfrontaliere da parte del cessionario. In sintesi sebbene il soggetto passivo non abbia materialmente immesso i beni nel deposito fiscale, e si è quindi illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui all’art. 50- bis, comma 4, lett. b), del d.l. n. 331 del 1993, conv., con modif., dalla L. n. 427 del 1993, qualora abbia già provveduto all’adempimento, dell’obbligazione tributaria nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile mediante un’auto-fatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite, deve ritenersi che in tal caso la violazione del sistema del versamento dell’IVA realizzata dall’importatore sia solo di natura formale e non si possa mettere, pertanto in discussione il suo diritto alla detrazione, come chiarito dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 17 luglio 2014, in C-272/13.
In definitiva la mancata introduzione della merce nel deposito costituisce pur sempre un illecito fiscale sia pure di natura formale e dunque sanzionabile, incidendo sulle azioni di controllo dell’Amministrazione Erariale. Poiché nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate non poteva recuperare l’Iva, obbligazione adempiuta con il sistema del reverse charge, l’accertamento Iva va annullato in accoglimento dei predetti motivi di gravame.
Il motivo 10 e 11 risultano quindi assorbiti essendo venuto meno il presupposto di tali sanzioni, rimanendo impregiudicata la sola questione della determinazione del quantum delle sanzioni inflitte.
Tale determinazione implicando un accertamento di fatto, compete al giudice di merito» (cfr., ex multis, Cass. n. 1327 del 2018; n. 12231 del 2017; v. anche Cass. n. 15988 e n. 17814 del 2015). Come chiarito dalla Corte di Giustizia sopra richiamata, la violazione suddetta può essere punita, in relazione allo scarto temporale tra la dichiarazione e l’autofatturazione, con una specifica sanzione per il ritardo – non fissa e che può consistere anche nel computo degli interessi di mora, purché sia rispettato il principio della adeguatezza e della proporzionalità.
Occorre quindi che il giudice del rinvio accerti pertanto la loro adeguatezza.
Con il dodicesimo motivo il ricorrente deduce sotto il profilo dell’art. 360 comma 1 n. 3 cpc, la violazione e / o falsa applicazione del principio della capacità contributiva di cui all’art. 38 comma 4 del DPR. n.600 del 1973 e art. 2727 e 2729 cc. In particolare si duole della mancata considerazione da parte della Commissione Regionale della documentazione presentata che dimostrava come il capitale utilizzato per gli acquisti immobiliari non proveniva da reddito non dichiarato, trattandosi di provvista pervenutagli dall’estero da conto corrente della moglie.La censura è fondata.
L’art. 38 comma 4 D.P.R. 29 9 1973 n. 600 consente che gli uffici finanziari, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, possano “determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato”. In sostanza, il controllo della congruità dei redditi dichiarati deve essere effettuato partendo da dati certi ed utilizzando gli stessi come indici di capacità di spesa, per dedurne, avvalendosi di specifici e predeterminati parametri di valorizzazione (c.d. redditometro), il reddito presuntivamente necessario a garantirla.
Quando il reddito determinato in tal modo si discosta da quello dichiarato per almeno due annualità, l’ufficio può procedere all’accertamento con metodo sintetico, determinando il reddito induttivamente e quindi utilizzando i parametri indicati, a condizione che il reddito così determinato sia superiore di almeno un quarto a quello dichiarato. Questa Corte (Cass. 8995/2014) ha chiarito i confini della prova contraria a carico del contribuente, a fronte di un accertamento induttivo sintetico D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38: non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, tuttavia la citata disposizione prevede anche che “l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”. In base alla normativa vigente quindi una volta che il contribuente ha documentato la disponibilità di ulteriori redditi nel periodo considerato dall’Ufficio impositore, il giudice tributario ha l’obbligo di esaminare tale prova documentale (tale è anche l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari, e di eventuali bonifici), per individuare l’entità di tali eventuali ulteriori redditi e della durata del relativo possesso, al fine di ancorare a fatti oggettivi la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi. Pertanto è ravvisabile, nella sentenza impugnata, un vizio di violazione di legge, visto che non risulta esaminata la prova documentale fornita dal contribuente laddove ha escluso laconicamente che la rimessa dalla Albania non trovi riferimento ai fini dell’utilizzo di tale somma per l’acquisto dei beni di cui all’accertamento impugnato.
In definitiva detto onere probatorio, poiché tale prova non è tipizzata, può essere assolto con qualsiasi elemento idoneo a fornire adeguata certezza circa la natura non reddituale dell’elemento preso in considerazione (Cass., 7258/2017), ed in particolare, ben può essere fornita con l’esibizione di documentazione bancaria (Cass., 12214/2017) idonea a dimostrare l’entità e la durata del possesso dei redditi in esame. Poiché la produzione di documentazione bancaria, (la cui veridicità non è stata mai contestata ma solo considerata ininfluente dalla Agenzia ) depositata dal contribuente, si possono ricavare tutte le indicazioni sull’entità dei redditi, sulle date dei movimenti, rientrando a pieno titolo nella “documentazione idonea” richiesta dall’art. 38 cit.- antecedente alle modifiche apportate con la L. 122/2010-, la cui esibizione in astratto è in grado di scalfire le risultanze a cui è pervenuto l’Ufficio (Cass. 7258/2017).
In sintesi in base alla legge la prova che il contribuente debba offrire è quella della provenienza non reddituale (e, quindi, non imponibile o perché già sottoposta ad imposta o perché esente) delle somme necessarie per l’acquisto dei beni, considerati sintomatici di maggior reddito occultato, (Cass., sez.V, 16284/07), laddove il giudice tributario ha considerato necessario anche la prova proprio dell’utilizzo di tali somme per l’acquisto, considerando quindi essenziale la ed tracciabilità, mentre la ratio legis tende a ricomprendere a tassazione reddito presuntivamente (presunzione semplice) non dichiarato, sicché il contribuente in definitiva deve solo provare di aver avuto nel periodo considerato la disponibilità di ulteriori redditi legittimi tali da giustificare gli acquisti. Ad avviso del Collegio la prova a carico del contribuente, dunque può essere offerta con qualsiasi elemento idoneo a fornire adeguata certezza circa la natura non reddituale dell’elemento preso in considerazione dal Fisco in sede di accertamento.
P.Q.M.
Accoglie il sesto, settimo, ottavo, nono e dodicesimo motivo del ricorso, dichiara inammissibile il quinto motivo ed assorbiti il decimo e undicesimo motivo rigetta il 1°, 2°, 3°, 4°, cassa e rinvia alla Commissione Regionale Campania sez. distaccata di Salerno in diversa composizione, che deciderà anche per le spese di questo grado.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE di CASSAZIONE - Sentenza n. 15749 depositata il 5 giugno 2023 - Anche nel regime del reverse charge o inversione contabile il diritto di detrazione dell'imposta relativa ad un'operazione di cessione di beni non può essere riconosciuto al…
- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 28 maggio 2020, n. 10152 - Il presupposto per l'applicazione del regime del reverse charge alle operazioni di cessioni di materiale ferroso - poste in essere nella vigenza della richiamata disciplina - risiede nel fatto…
- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 12 dicembre 2019, n. 32552 - Applicazione retroattiva del regime sanzionatorio più favorevole al contribuente in caso di fattura soggettivamente inesistente e relativa alle operazioni in regime di reverse charge
- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 09 marzo 2021, n. 6396 - Nel sistema dell’inversione contabile (denominano pure reverse charge), gli obblighi per le operazioni soggette ad IVA, di cessione di beni e prestazioni di servizi rese nel territorio dello Stato…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 12 maggio 2021, n. 12489 - La previsione di cui all'art. 60-bis, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, nel contemplare la responsabilità solidale del cessionario in caso di mancato versamento dell'IVA da parte del cedente…
- Applicazione retroattiva delle nuove sanzioni in tema di fattura soggettivamente inesistente e relativa alle operazioni in regime di reverse charge
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- Gli amministratori deleganti sono responsabili, ne
La Corte di Cassazione, sezione I, con l’ordinanza n 10739 depositata il…
- La prescrizione quinquennale, di cui all’art. 2949
La Corte di Cassazione, sezione I, con l’ordinanza n. 8553 depositata il 2…
- La presunzione legale relativa, di cui all’a
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 10075 depos…
- Determinazione del compenso del legale nelle ipote
La Corte di Cassazione, sezione III, con l’ordinanza n.10367 del 17 aprile…
- L’agevolazione del c.d. Ecobonus del d.l. n.
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, sentenza n. 7657 depositata il 21 ma…