CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 luglio 2019, n. 17634
Lavoro – Demansionamento – Riorganizzazione aziendale – Sussistenza delle ragioni obiettive della riduzione delle posizioni lavorative
Rilevato che
Con sentenza n.71 del 20014 la corte d’Appello di Brescia in accoglimento del gravame di T. Italia Spa ha respinto la domanda di M. B., dipendente T., che in primo grado aveva chiesto che fosse accertato il demansionamento subito a far tempo dal 2005 e che la datrice di lavoro fosse condannata a riammetterla nelle mansioni precedentemente svolte ed al risarcimento del danno.
La corte bresciana ha ritenuto che T. avesse provato, attraverso l’istruttoria svolta in primo grado, che l’adibizione alle mansioni di addetta al Customer care 187 era legittima in quanto, a seguito di una riorganizzazione aziendale, era stata ridotta la forza lavoro della società nell’area di Brescia, con eliminazione di figure di supporto alla vendita, ridotte solo a due e poi ad una soltanto; che inoltre la lavoratrice aveva rifiutato due possibilità di ricollocamento, una di addetta al supporto alla vendita presso la sede di Milano, l’altra di venditrice presso il negozio aziendale unificato T./T. di Brescia;
la corte territoriale ha poi rilevato che la scelta effettuata dalla società di mantenere altro dipendente nel solo posto residuo era derivata dal fatto che costui aveva svolto in passato mansioni di venditore e che pertanto, sussistendo le ragioni obiettive della riduzione delle posizioni lavorative in ragione della avvenuta riorganizzazione con riduzione dei posti di supporto alla vendita, non era sindacabile la scelta della società della persona lasciata nell’unico posto residuato, non essendo la stessa pretestuosa o irrazionale o effettuata in mala fede, come si poteva evincere anche dalle testimonianze raccolte in primo grado;
ha poi ritenuto la corte bresciana che le mansioni svolte dalla B. dal 2007 in qualità di addetta al cali center 187 non fossero dequalificanti rispetto a quelle svolte in precedenza, perché pur sempre rientranti nel 4° livello posseduto e ad esse equivalenti, non essendo rilevante la circostanza che venissero di fatto svolte maggiormente alcune attività, verosimilmente più semplici, atteso che la lavoratrice doveva comunque conoscere approfonditamente i software aziendali per gestire direttamente il cliente e che comunque l’attribuzione di dette mansioni erano derivate dall’ inesistenza delle pregresse mansioni svolte e dal rifiuto opposto dalla B. di accettare il trasferimento presso le sede milanese;
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la B. affidato a tre motivi, a cui ha resistito T. SPA con controricorso, atti illustrati poi da memorie ex art. 380 bis 1 c.p.c.;
Considerato che
con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione, ai sensi dell’art. 360 c. l n. 3 c.p.c. dell’art. 434 c.p.c. per avere la Corte di merito erroneamente respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello di T. spa sollevata dalla lavoratrice per la mancanza di specificità dei motivi che si erano concretati in generiche censure alla sentenza appellata, con un mero richiamo delle difese svolte nella memoria di costituzione di primo grado, senza esaminare espressamente le statuizioni e quindi le motivazioni della sentenza di primo grado e senza neanche precisare in che modo avrebbe dovuto essere corretta la sentenza;
il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, in violazione dell’art. 366 c. l nn. 3 e 4 c.p.c.; ed infatti non basta il deposito del ricorso di appello in osservanza di quanto statuito dall’art. 366 c. l. n. 6 c.p.c. – onere assolto dalla ricorrente- dovendo il ricorso di legittimità contenere tutti gli elementi idonei per consentire l’esame diretto della censura e dunque in esso andavano trascritte le parti dell’atto di appello ritenute non idonee a censurare specificatamente la ratio decidendi della sentenza di primo grado, come anche andava trascritta o riportata “con precisione la pertinente parte motiva della sentenza di primo grado, il cui contenuto costituisce l’imprescindibile termine di riferimento per la verifica in concreto del paradigma delineato dagli artt. 342 e 343 c.p.c. e, in particolare, per apprezzare la specificità delle censure articolate“(così da ultimo Cass. n. 3194/2019);
con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione, in relazione all’art. 360 c. l. 3 c.p.c., degli artt. 2013 e 2697 c.c.: la corte d’appello pur avendo accertato il mutamento in peius delle mansioni affidate dal 2005 alla lavoratrice di operatore cali center 187, ha poi ritenuto erroneamente non giustificato il rifiuto della lavoratrice di accettare il trasferimento a Milano o l’assunzione a Brescia presso altro datore di lavoro in franchising (T./T.), ritenendo ciò sufficiente per escludere l’onere della società di provare l’inesistenza di altre posizioni di lavoro con mansioni equivalenti in grado di preservare la professionalità acquisita dal lavoratore, in particolare avendo la B. puntualmente dedotto ed allegato l’esistenza di altre posizioni lavorative nell’area bresciana, a suo dire equivalenti, che la corte avrebbe omesso di esaminare;
il motivo è infondato; la corte territoriale ha accertato che le mansioni di customer care 187 attribuite alla lavoratrice rientravano nel livello di inquadramento – 4° livello de CCNL del settore- ed ha ritenuto giustificata l’adibizione a mansioni in parte estranee alla professionalità e all’esperienza pregresse della B. in assenza di ulteriori posizioni di lavoro di analogo contenuto professionale, stante il rifiuto opposto dalla lavoratrice di accettare le due posizioni offerte dalla società ; diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente la corte ha correttamente ritenuto che non vi fosse stata violazione dei principi di cui all’art.2013 c.c. alla luce della lettura della norma che questa corte ha effettuato;
ed infatti costituendo il demansionamento un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi della citata norma, su di lui incombe l’onere di provare l’esatto adempimento di tale obbligo, oppure l’impossibilità dell’adempimento derivante da causa a lui non imputabile, in base all’art. 1218 c.c (cfr Cass. n. 4766/2006, Cass. 4211/2016): il rifiuto opposto dalla lavoratrice di accettare le due posizioni di lavoro offerte dalla società è stato pertanto correttamente ritenuto dalla corte di merito elemento di esonero dalla responsabilità per l’inadempimento;
quanto alla censura circa l’omesso esame da parte della corte di merito delle ulteriori posizioni lavorative indicate, su cui nulla aveva eccepito neanche la società, si tratta di una doglianza inammissibile atteso che, come precisato dalla stessa ricorrente B. nell’atto di ricorso, le relative allegazioni risultano essere state svolte non in primo grado , ma tardivamente solo in sede di comparsa di costituzione in appello; tuttavia il thema decidendum deve essere identificato attraverso le allegazioni contenute negli atti introduttivi di causa del giudizio di primo grado, potendo le parti chiedere nella prima udienza di discussione l’ammissione di nuovi mezzi di prova, ma solo nel rispetto di quanto previsto dall’art. 420 comma 5 c.p.c.;
con il terzo motivo di gravame la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c. l. n. 5, un omesso esame di fatto decisivo e altresì la violazione artt. 1375, 2013 e 2967 c.c.: la corte d’appello avrebbe dovuto sindacare la scelta della società di non adibirla all’unico posto rimasto, di supporto alla vendita, al quale aveva assegnato invece un suo collega. Per la ricorrile tale scelta era contraria a buona fede, in quanto la società non solo, contraddittoriamente, l’aveva ritenute, idonea alla mansione di supporto alla vendita tanto da offrirle tale posizione di lavoro a Milano, ma poi le aveva offerto una posizione dequalificante e dunque non idonea a Brescia. Inoltre la sentenza impugnata avrebbe omesso un fatto decisivo, costituito dalla testimonianza dello stesso lavoratore adibito all’unico posto di supporto alla vendita , il quale aveva riferito di non aver avuto, all’inizio, esperienza di venditore di supporto e di essersi avvalso dell’aiuto proprio della ricorrente per svolgere tale prestazione, rimasta sempre identica nel tempo; non avrebbe pertanto considerato la società due rilevanti dati di fatto: a) che l’attività di supporto, pur variando il software, era sempre la stessa, b) che il collega non conosceva tale attività avendola imparata da lei;
la doglianza non merita accoglimento perché, nel lamentare che la scelta della società doveva ritenersi contraria a buona fede, è volta in concreto a richiedere una nuova valutazione di una questione in fatto che la corte ha già esaminato; la sentenza ha invero valutato i fatti oggetto della testimonianza del collega della ricorrente – da cui era emerso che detta attività di supporto alla vendita aveva avuto delle modifiche, essendo cambiati alcuni programmi di software con cui venivano effettuate delle verifiche più approfondite sui dati dei clienti per la fatturazione – e ne ha tratto il convincimento di assenza di contraddittorietà o di mala fede nella scelta operata dalla società. Si tratta quindi di valutazioni di merito che non sono sindacabili in sede di legittimità.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con condanna della ricorrente, soccombente, alla rifusione delle spese di lite, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater DPR n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso , a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13.
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