COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di Venezia sentenza n. 788 sez. 31 del 16 giugno 2016
IRPEF – REDDITI DA ATTIVITA’ ILLECITE – ATTIVITA’ DI PROSTITUZIONE – RILEVANZA FISCALE
Svolgimento del processo
Atti impugnati: avvisi di accertamento indicati in epigrafe per Irpef e addizionali oltre a sanzioni, con i quali sulla base degli elementi indici di capacità contributiva individuati, in particolare possesso di autovetture ed immobili, nonché dei dati raccolti a seguito di interrogazioni in Anagrafe tributaria, veniva determinato sinteticamente il reddito imponibile della contribuente nella misura di euro 82.649,92 per l’anno 2004, di euro 96.684,42 per l’anno 2005, e di euro 108.494,00 per l’anno 2006, a fronte dell’omissione della presentazione della dichiarazione dei redditi per entrambi gli anni di imposta considerati da parte della ricorrente.
Sentenza impugnata: con l’impugnata sentenza la Commissione Tributaria Provinciale di Padova ha parzialmente accolto il ricorso della contribuente, dichiarando la legittimità dello strumento dell’accertamento sintetico e la tassabilità dei redditi da prostituzione, dichiarando tuttavia la nullità delle sanzioni comminate per incertezza della fattispecie controversa.
Appello: Con ricorso la parte contribuente deduce: la violazione e falsa applicazione dell’art. 6 TUIR e dell’art. 14, comma 4, della legge 537/1993, nella parte in cui i giudici di primo grado hanno riconosciuto la tassabilità dei proventi derivanti dall’attività di prostituzione; il vizio di motivazione della sentenza di primo grado; la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 TUIR in relazione agli articoli 3 e 53 della Costituzione; la violazione dell’art. 38 del D.P.R. 600/73 per inadeguatezza del metodo accertativo utilizzato ed omessa pronuncia sulla necessità dell’indicazione della categoria di reddito ripreso a tassazione; l’illegittimità dell’applicazione delle sanzioni irrogate per incertezza della fattispecie normativa; e chiede la riforma della sentenza e l’annullamento degli atti impugnati, previa sospensione del procedimento con rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione della questione di legittimità prospettata.
Ricorre in appello anche l’Agenzia delle Entrate, con autonomo atto, contestando la sentenza di primo grado nella parte in cui ha annullato le sanzioni comminate con i tre avvisi di accertamento, chiedendo invece la conferma della pronuncia di primo grado laddove ha sancito la legittimità degli avvisi impugnati.
Gli appelli sono stati riuniti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’appello della parte contribuente è infondato e va di conseguenza respinto.
In tema d’accertamento dell’imposta sui redditi, la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 18081 del 2010; n. 7766 del 2008 Cass. n. 18111/2009; n. 9573/2007) ha, già, affermato il principio, che qui si condivide, secondo cui, quando sussistono flussi finanziari che non trovano corrispondenza nella dichiarazione dei redditi, che nel caso di specie è stata completamente omessa, il recupero fiscale non è subordinato alla prova preventiva che il contribuente eserciti una specifica attività; in assenza di contestazione sulla legittimità dell’acquisizione dei dati, i dati medesimi possono, infatti, essere utilizzati sia per dimostrare l’esistenza di un’eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito ricavato da tale attività, incombendo al contribuente l’onere di dimostrare che i movimenti bancari ovvero il possesso di beni indicatori di reddito, che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni, non sono fiscalmente rilevanti.
Tale principio non soffre eccezioni sei il reddito da assoggettare… a tassazione costituisca provento di “fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo” tenuto conto del disposto di cui al D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 34 – bis, (inserito dalla L. n. 248 del 2006, art. l, di conversione) secondo il quale “in deroga alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, la disposizione di cui della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma l, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi”.
Con tale disposizione, alla quale va attribuita efficacia retroattiva (Cass. n. 13213/2007, n. 18111/2009, n. 37/2010), per esser stata emanata in espressa deroga al principio di irretroattività delle disposizioni tributarie, sancito dalla L. n. 212 del 2000, art. 3, è stato introdotto nell’ordinamento il principio, di carattere generale, della tassabilità dei redditi per il fatto stesso della loro sussistenza, a prescindere dalla loro provenienza, e, dunque, dalla sussumibilità della relativa fonte in una delle specifiche categorie reddituali di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, essendo normativamente considerati, in via residuale, come redditi diversi, da ascriversi, appunto, alla lettera f) di detto art. 6. Ne consegue che il reddito tratto dalla controricorrente dall’esercizio dell’attività di prostituzione – tale natura va riconosciuta a quello derivante “da donativi e regali relativi a rapporti di natura “affettuosa”, secondo l’accertamento contenuto nell’impugnata sentenza – va assoggettato all’imposta diretta, dovendo condividersi l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20528/2010. Deve, dunque, affermarsi il principio secondo cui i singoli dati ed elementi risultanti aliunde quali indicatori della percezione di reddito (conti correnti, possesso di beni mobili o immobili etc) vanno ritenuti rilevanti ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, se il soggetto titolare dei rapporti, acquirente o possessore non fornisca adeguata giustificazione, a prescindere dalla prova preventiva che il contribuente eserciti una determinata attività, e dalla natura lecita o illecita dell’attività stessa.
A tale stregua, deve condividersi l’orientamento della Cassazione secondo il quale “l’assoggettabilità ad i.v.a. dell’attività di prostituzione, quando sia autonomamente svolta dal prestatore, con carattere di abitualità: seppur contraria al buon costume, in quanto avvertita dalla generalità delle persone come trasgressiva di condivise norme etiche che rifiutano il commercio per denaro del proprio corpo, l’attività predetta non costituisce reato, e consiste, appunto, in una prestazione di servizio verso corrispettivo, inquadrabile nell’ampia previsione contenuta nel secondo periodo del citato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma l. La qualificazione della prostituzione in termini di “prestazione di servizi retribuita” risulta, peraltro, già, affermata dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee nella sentenza n. 268 del 20.11.2001, in causa C-268/99, in cui la Corte muovendo dalla giurisprudenza, costante, secondo la quale una prestazione di lavoro subordinato o una prestazione di servizi retribuita dev’essere considerata come attività economica ai sensi dell’art. 2 del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 2 CE), purché le attività esercitate siano reali ed effettive e non tali da presentarsi come puramente marginali e accessorie, ha affermato che “la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita”, che rientra nella nozione di “attività economiche”, demandando al giudice nazionale di “accertare in ciascun caso, alla luce degli elementi di prova che gli sono forniti, se sussistono le condizioni che consentono di ritenere che la prostituzione sia svolta come lavoro autonomo, ossia: senza alcun vincolo di subordinazione per quanto riguarda la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive, sotto la propria responsabilità, e a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente” (cfr. Cass. 10578 del 2011).
Ne consegue che i proventi tratti dalla parte contribuente dall’attività di prostituzione vanno ad Irpef, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in tema d’imposta sul reddito, in assenza della prova contrari consistente nella dimostrazione che i proventi desumibili dall’accertamento non debbono essere recuperati a tassazione o perché oggetto di dichiarazione (cosa che nella specie non è avvenuto) o perché non sono fiscalmente rilevanti, in quanto non si riferiscono ad operazioni imponibili (cfr. pure Cass. n. 9573/2007, n. 1739/07, n. 28324/07).
Nel caso in esame, negli avvisi di accertamento sono stati individuati tutti gli elementi e le circostanze certe che esprimono una capacità di spesa incompatibile con il reddito dichiarato, anzi, con l’assenza di un reddito dichiarato, indicando i beni sulla base dei quali ha proceduto all’accertamento sintetico ed altresì le modalità con le quali esso ha operato (possesso di 4 autoveicoli, proprietà di tre immobili destinati ad abitazione in —, estinzione di un mutuo ipotecario per euro 120.00 circa dopo quattro anni dalla stipula e 11 anni prima della scadenza).
Inoltre, la ricorrente ha registrato nell’anno 2006 un contratto di locazione non finanziaria di un fabbricato sito nel Comune di — per un valore dichiarato di euro 6.817,20 (contratto n. — serie – registrato il –.–.2006 presso l’Ufficio di Padova -). L’appartamento in questione è stato pertanto aggiunto agli immobili rientranti nella disponibilità della sig.ra — per l’intero anno 2006, trattandosi di locazione abitativa di durata quadriennale con decorrenza dal 1 gennaio 2006 e scadenza 31.12.2009.
Ugualmente, è stato sommato al reddito determinabile sinteticamente per l’anno 2006 l’importo corrisposto dalla contribuente come canone di locazione alla società locatrice — snc per l’imposto di euro 6.817,20 (euro 568,10 per 12 mensilità).
A fronte della disponibilità di beni e degli incrementi patrimoniali riscontrati, data l’omissione della presentazione della dichiarazione dei redditi per l’anno considerato, cosi come del resto per tutti gli anni compresi tra il 2000 e il 2009, l’ufficio, sulla base degli indici di ricchezza contenuti nel provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del –/–/2007, ha determinato il reddito complessivo netto da attribuire alla contribuente nella somma di euro 82.649,92 per il 2004, di euro 96.684,42 per il 2005 e di euro 108.493,80 per il 2006.
Il Collegio pertanto ritiene pienamente integrati nella specie i principi più volte affermati dalla Corte di cassazione secondo i quali: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, il metodo disciplinato dall’art. 38, quarto comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – come via via modificato – consente, a fronte di circostanze ed elementi certi, che evidenzino un reddito complessivo superiore a quello dichiarato o ricostruibile su base analitica, la determinazione del maggior imponibile in modo sintetico, in relazione al contenuto induttivo di tali circostanze ed elementi. Pertanto, la norma esige dati certi con riguardo alla esistenza del maggiore reddito imponibile e, in presenza di dati siffatti, richiede la individuazione dell’entità del reddito stesso con parametri indiziari, in via di deduzione logica dal fatto noto del fatto taciuto dal dichiarante, secondo i comuni canoni di regolarità causale. Ne consegue che, in presenza di dati certi ed incontestati, non è consentito pretendere una motivazione specifica dei criteri in concreto adottati per pervenire alle poste di reddito fissate in via sintetica nel cosiddetto redditometro, in quanto esse, proprio per fondarsi su parametri fissati in via generale, si sottraggono all’obbligo di motivazione, secondo il principio stabilito dall’art. 3, secondo comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241.” (Cass. n. 327/2006 e n. 14665 del 2006).
L’Agenzia delle Entrate ha interposto anch’essa appello avverso la sentenza di primo grado, deducendo la “violazione e falsa applicazione dell’art. 8 del d. lgs. 546/1992, nonché degli articoli 10 comma 3 dello Statuto del Contribuente e 6 del D. Lgs. 472/1997, laddove ha ritenuto non applicabile alcuna sanzione in relazione alla omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte della signora — per gli anni 2004, 2005 e 2006, in ragione della obiettiva condizione di incertezza che caratterizzerebbe la fattispecie oggetto del presente giudizio, in particolare l’assoggettabilità a tassazione dei proventi derivanti dall’attività di prostituzione”.
L’appello è fondato e va di conseguenza accolto.
La Corte di Cassazione sul punto ha affermato con indirizzo costante il principio che “In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva, che costituisce causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, postula una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento d’interpretazione normativa, riferibile non già ad un generico contribuente, o a quei contribuenti che per la loro perizia professionale siano capaci di interpretazione normativa qualificata (studiosi, professionisti legali, operatori giuridici di elevato livello professionale), e tanto meno all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione” (Cass. 24670 del 2007 e da ultimo Cass. 264 del 2012, Cass. 2192 del 2012, Cass. 13457 del 2012 e Cass. 4522 del 2013).
Nel caso di specie, infatti, non si riscontra alcuno dei sintomi individuati dalla Corte di Cassazione, né sussiste alcuno degli elementi che costituiscono la scriminante dell’obiettiva condizione di incertezza normativa, tantomeno individuabile, come pretende di fare la sentenza di primo grado, con motivazione contraddittoria, nell’impossibilità di inquadrare i redditi da prostituzione in una delle categorie di cui all’art. 6 del D.P.R. 917/1986, poiché, come sopra indicato tali redditi, sulla scorta della giurisprudenza della Cassazione e della giurisprudenza comunitaria, vanno ricondotti alla categoria dei redditi da lavoro autonomo.
Alla luce delle considerazioni svolte l’impugnata sentenza, in accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle Entrate va riformata nella parte in cui ha disposto l’annullamento delle sanzioni con gli avvisi di accertamento n. —/2010, n. —/2010 e n. —/2011, emessi nei confronti della contribuente per gli anni 2004-2006, e compensato di primo grado, e va confermata nella parte in cui ha sancito la legittimità degli avvisi e la legittimità dell’assoggettamento a tassazione dei proventi derivanti dall’attività di prostituzione.
Le spese di entrambi i gradi di giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
respinge l’appello proposto dalla parte contribuente;
in accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, riforma l’impugnata sentenza nella parte in cui ha disposto l’annullamento delle sanzioni comminate con gli avvisi di accertamento n. —/2010, n. —/2010 e n. —/2011, emessi nei confronti della contribuente per gli anni 2004-2006, che diconseguenza conferma interamente;
per l’effetto conferma l’impugnata sentenza nella parte in cui ha sancito la legittimita’ degli avvisi impugnati e la legittimita’ dell’assoggettamento a tassazione dei proventi derivanti dall’attivita’ di prostituzione;
in accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, riforma l’impugnata sentenza nella parte in cui ha disposto la compensazione delle spese di primo grado e condanna la parte contribuente al rimborso delle spese di entrambi i gradi di giudizio in favore dell’Agenzia delle Entrate, che liquida, ai sensi del DM 10.3.2014, n. 55, tabelle 23 e 24, complessivamente in euro 8565,20, applicata la riduzione del 20% ai sensi dell’art. 15 D. Lgs n. 546 del 1992, e comprensivi del 15% del compenso generale per la prestazione.
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