FONDAZIONE STUDI CDL – Approfondimento 06 aprile 2020
CASSA INTEGRAZIONE
PERCHÉ L’ACCORDO NON È OBBLIGATORIO
Il datore di lavoro che richiede l’accesso alla Cassa integrazione ha l’obbligo, quando previsto dalla legge, di informare i sindacati e di partecipare all’esame congiunto, se richiesto nei termini. Null’altro. In particolare, non è obbligato a raggiungere a tutti i costi un accordo e ha diritto alla concessione della misura anche con il verbale di mancato accordo.
Lo dicono, e lo hanno sempre detto, la legge, la giurisprudenza, la prassi. Ciò che rileva non è l’approvazione dei sindacati a tutti i costi, ma che questi siano stati debitamente informati nei termini di legge e che l’esame congiunto si svolga in buona fede quando richiesto.
La tutela dei lavoratori non passa dalla sottomissione a condizioni capestro.
PREMESSA
L’acceso dibattito suscitato dalle nuove misure emergenziali in materia di ammortizzatori sociali contempla un significativo interesse rispetto alla collocazione da assegnare all’accordo sindacale nell’ambito dei procedimenti di conversione delle misure introdotte. Un testo della norma non particolarmente felice, infatti, ha giustificato la posizione del dubbio circa la necessità della conclusione dell’accordo sindacale quale condicio sine qua non addirittura ai fini della possibilità di proporre la domanda di fruizione dell’ammortizzatore, in particolare con riferimento alle nuove disposizioni per la Cassa integrazione in deroga.
Se la portata dell’art. 19 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, è abbastanza chiara nel circoscrivere l’obbligo per i datori di lavoro che presentano la domanda per il trattamento ordinario emergenziale soltanto all’adempimento della “informazione, consultazione ed esame congiunto”, la formulazione dell’art. 22 dello stesso decreto rischia di indurre in più di un errore, e sicuramente legittima molti dubbi, nel prevedere al primo comma che “le Regioni e Province autonome, con riferimento ai datori di lavoro del settore privato, ivi inclusi quelli agricoli, della pesca e del terzo settore compresi gli enti religiosi civilmente riconosciuti, per i quali non trovino applicazione le tutele previste dalle vigenti disposizioni in materia di sospensione o riduzione di orario, in costanza di rapporto di lavoro, possono riconoscere, in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, previo accordo che può essere concluso anche in via telematica con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale per i datori di lavoro, trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga, per la durata della sospensione del rapporto di lavoro e comunque per un periodo non superiore a nove settimane”. Soprattutto laddove specifica, come nell’ultima parte dello stesso primo comma, che “l’accordo di cui al presente comma non è richiesto per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti”. Quasi a voler così indurre che, al contrario, proprio tale accordo debba invece ritenersi necessario per i datori di lavoro che occupino più di cinque dipendenti.
GLI INCERTI RIFERIMENTI DELL’ART. 22 DEL DECRETO LEGGE “CURA ITALIA”
Come premesso, l’art. 19 del D.L. n. 18/2020 è inequivocabile nell’individuare il ruolo sindacale nell’ambito del procedimento di concessione della Cigo emergenziale: è sufficiente sollecitare l’esame congiunto, che deve risolversi entro tre giorni.
L’art. 22, in materia di Cassa in deroga, a causa di una formulazione fin troppo scarna, fa riferimento invece ad un “accordo”, da concludersi con le “organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale (soltanto?) per i datori di lavoro (sic!)”. Affermando che il suddetto accordo “non è richiesto per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti”.
La formulazione è obiettivamente infelice, e certamente inappropriata, perché:
a) fa riferimento esclusivo alle organizzazioni dei datori di lavoro (riferendovisi tuttavia come “sindacali”);
b) induce a supporre, per la lapidarietà della formulazione, che il legislatore abbia potuto intendere obbligatorio proprio l’accordo, non già soltanto il percorso per il suo esperimento.
Entrambi i rilievi paiono non potersi che ascrivere ad involontari refusi, per l’oggettiva impossibilità di assegnare loro il significato che appare emergere dall’incerto dato testuale. È irragionevole, infatti, che un accordo di Cassa integrazione in deroga possa essere stipulato dalle Regioni senza la partecipazione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. È inammissibile anche soltanto poter pensare che l’obbligo che incombe sui datori di lavoro in tal caso non sia soltanto quello di provvedere bonae fidei alla consultazione sindacale bensì, addirittura, di soggiacere alla condizione capestro di pervenire obbligatoriamente ad un “accordo”, qualsiasi esso sia, ed indipendentemente dalla plausibilità delle proposte della parte sindacale, pena il diniego del trattamento della cassa integrazione salariale in deroga.
Tuttavia, la traduzione di queste norme, spesso pedissequa, all’interno dei diversi accordi raggiunti presso le diverse sedi regionali in esecuzione della previsione di cui all’art. 22, ha indotto i premessi dubbi. Essi, però, sono da fugare recisamente per ragioni che non consentono alternative.
L’ACCORDO SINDACALE NON È OBBLIGATORIO:
PERCHÉ È L’UNICA SOLUZIONE PLAUSIBILE
È da premettere che, già nell’impianto giuridico del procedimento per la concessione della Cassa integrazione, la fase della consultazione sindacale, anche quando obbligatoria, contempla la necessità del suo esperimento a pena di inammissibilità della domanda della misura, ma con riferimento all’obbligo per il datore di lavoro di provvedere alla comunicazione preventiva alle organizzazioni sindacali e ad un eventuale confronto, quando richiesto dalle stesse organizzazioni sindacali all’uopo informate. In nessun caso è neppure paventata la possibilità che sia invece necessario il raggiungimento di un accordo, essendo al contrario pacifico che il datore possa allegare il verbale di mancato accordo, more solito. È così in forza dell’art. 14 del D.Lgs. n. 148/2015, ed è sempre stato così, considerato che il contenuto dell’art. 14 è pressoché analogo a quello dell’art. 5 della legge n. 164/75.
Non è affatto un caso, dunque, che le norme riconoscano l’obbligatorietà dell’informativa sindacale, dell’esame congiunto e null’altro, imponendo anzi la conclusione dell’esame, entro termini certi e brevi – brevissimi nel caso del D.L. n. 18/2020, le cui esigenze emergenziali non possono tollerare artifizi dilatori – fino a differirlo, anche in regime ordinario, come ad esempio accade nell’eventualità degli eventi oggettivamente non evitabili di cui al quarto comma dell’art. 14 del D.Lgs. n. 148/2015.
Si tratta, a ben riflettere, della valorizzazione tradizionale della fase di consultazione sindacale e dell’inquadramento della sua funzione conforme alle finalità perseguite nell’ambito del procedimento di concessione delle misure di ammortizzatore sociale, che ha fatto più volte affermare che “l’adempimento consistente nella procedura di consultazione con i sindacati deve essere interpretato secondo la sua funzione, ossia come una tutela per i lavoratori e come una fonte di informazione per l’Inps circa i presupposti materiali dell’integrazione salariale. Quando non vi sia ragione di dubitare del raggiungimento di questi obiettivi, le modalità con cui la consultazione viene svolta sono irrilevanti” (NOTA 1). Finalità perseguita dal legislatore e tesa alla trasparenza delle strategie aziendali nelle situazioni di crisi, in modo che l’interesse dei lavoratori riceva la migliore tutela possibile, tanto più evidente in quei casi – limite come quello che purtroppo occupa oggi l’intero tessuto produttivo nazionale (e mondiale) – in cui la discrezionalità del datore nel determinarsi alla sospensione dell’attività è nulla (perché obbligato da provvedimenti governativi espliciti) o pressoché tale (perché comunque necessitata dalle “conseguenze dell’emergenza epidemiologica da COVID-19″, che costituiscono la specifica causale codificata dal D.L. n. 18/2020), senza la necessità che sia acquisito l’assenso dei sindacati” (NOTA 2). Non è un caso peraltro, che lo stesso Inps, con la circolare n. 47 del 28 marzo 2020, applicativa delle misure in discorso, ha potuto affermare che la già ricordata dispensa dall’osservanza dell’art. 14 del D.Lgs. n. 148/2015 per la Cigo emergenziale comporta che, all’atto della presentazione della domanda di concessione dell’integrazione salariale ordinaria (e dell’assegno ordinario), non deve essere data comunicazione all’Istituto dell’esecuzione degli adempimenti di cui sopra e che sarà poi l’Inps stesso a poter procedere alla adozione del provvedimento autorizzatorio, ove rispettati tutti gli altri requisiti. Inoltre, l’Istituto, confermando che non ci sono ragioni plausibili per rinvenire princìpi ispiratori diversi per la Cassa in deroga, ha precisato, ancora con la circolare n. 47/2020, che il riferimento all’accordo sindacale dell’art. 22 del D.L. n. 18/2020 è da intendersi “esperito con la finalizzazione della procedura di informazione, consultazione ed esame congiunto di cui all’art. 19, comma 1”. Avvalorando così, definitivamente, l’interpretazione unica ragionevolmente possibile, del citato articolo 22 del “Cura Italia”, in ragione della quale l’obbligo cui soggiace il datore di lavoro non è rappresentato dall’accordo, ma dall’esperimento del suo tentativo. Tanto a prescindere dalle incertezze ed improprietà del dato testuale, che da sole non possono condurre a ritenere la sussistenza di una indebita condizione capestro di soggezione ad una necessità irragionevole. L’accordo tout court, appunto.
CONCLUSIONI
Alla luce di quanto enunciato, appare ragionevole confermare l’insussistenza di una malintesa necessità di conclusione di un accordo sindacale a pena di inammissibilità della concessione del trattamento di cassa integrazione, sia esso ordinario, ordinario “emergenziale” o in deroga emergenziale. La domanda, adempiuti gli obblighi di forma e sostanza, ricorrendo i presupposti di legge, può essere presentata e deve essere accolta anche in caso di mancato accordo ed anche in assenza di esame congiunto, quando non richiesto nei termini di legge.
È doveroso evidenziare che ogni lapidario riferimento alla necessità dell’accordo e non, come correttamente avrebbe dovuto invece essere esplicitato, al tentativo del suo esperimento, laddove previsto, è addebitabile ad una interpretazione giocoforza errata (il riferimento è alle previsioni per la Cassa in deroga a livello regionale) di una norma (l’art. 22 del D.L. 18/2020, appunto) evidentemente incerta e infelice, per il suo uso semplicistico del termine “accordo”, così come collocato nella norma che lo prevede.
La norma non può che essere correttamente interpretata come opportunamente avviene con la circolare Inps n. 47/2020 e, prima ancora, con l’applicazione concreta della giurisprudenza qui brevemente riportata.
Va pertanto ritenuto obbligatorio – laddove previsto dalla legge – il tentativo di concludere l’accordo e non la sua conclusione, senza pensare che quest’ultima possa rappresentare invece una condizione di ammissibilità della domanda della prestazione di ammortizzatore sociale. Tantomeno significato diverso può derivare dalle intese regionali che, come premesso, pedissequamente perpetuino la fuorviante espressione scarna dell’art. 22. Laddove, infatti, l’intenzione di quei contraenti avesse davvero voluto valorizzare la necessità del raggiungimento dell’intesa sindacale a pena di inammissibilità della domanda, le misure introdotte a livello regionale si sarebbero risolte in trattamenti complessivamente più restrittivi rispetto alle condizioni di legge, invalidando l’oggettività delle previsioni già disposte dal decreto. In quei casi infatti, così come quando si rilevano indebite pretese di preventiva fruizione delle ferie, obbligazioni a sottoscrizione si successivi accordi de visu etc., o si impone la consultazione sindacale anche per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti, la previsione si rivela distorsiva della norma nazionale e se ne deve evidenziare l’illegittimità ed il conseguente rifiuto. Non si può trascurare infatti che, pur nell’ambito della distribuzione della potestà legislativa determinata dall’art. 117 Cost., e quindi tanto più nelle manifestazioni provvedimentali di livello inferiore, è fatto obbligo, fra l’altro alle Regioni nell’esercizio delle loro attribuzioni, del rispetto della Costituzione stessa innanzitutto. Non è possibile travalicare i princìpi fondamentali posti in materia neppure in caso di esercizio concorrente della potestà. Ciò avverrebbe, invece, con le imposizioni testé citate che, come tali, devono essere respinte perché contrarie all’equilibrio costituzionale cui i princìpi brevemente riassunti sono ispirati.
Chi volesse opinare diversamente, attori principali in primis, dovrà assumersi anche la responsabilità conseguente ad un eventuale diniego, certamente illegittimo, di provvidenze previste in ragione della gravità e dell’urgenza emergenti dalla situazione che si auspica, quantomai in questo caso, contingente. Oltre all’incombenza di riscrivere gran parte della normativa in materia, che sin dal codice civile, assegna all’accordo l’essenza della volontarietà e della condivisione, estranee a qualsiasi imposizione astratta ed esogena.
—
(1) TAR Lombardia, Sez. I, 5 febbraio 2018, n. 148
(2) TAR Brescia, Sez. I, 11 Giugno 2018, n. 557
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