Ritenuto in fatto

1. Con sentenza, ex art. 425 cod. proc. pen. emessa in data 30/11/2010 il Gup presso il Tribunale di Nola, dichiarava non doversi procedere nei confronti di [X, Y, Z, …] per il reato di truffa aggravata, di cui al capo A) e non doversi procedere nei confronti di [X, Y, Z, W, …] per il reato di truffa di cui al capo B) perché il fatto non sussiste.
2. I fatti contestati riguardavano l’evasione del pagamento dell’IVA effettuata dagli imputati nelle vesti di amministratori di alcune società, realizzata effettuando la compensazione con falsi crediti IVA.
3. Avverso tale sentenza propone ricorso il P.M. deducendo violazione di legge e dolendosi che l’orientamento espresso dal giudicante con la sentenza impugnata lascerebbe privo di ogni censura penale il comportamento di chi fraudolentemente pone in essere un meccanismo che consente un risparmio d’imposta, mediante la fittizia creazione di un inesistente credito IVA.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.
2. Questa Sezione si è già occupata di analoga vicenda a seguito del ricorso proposto da […] avverso il decreto di sequestro preventivo emesso in data 10 dicembre 2010 dal G.i.p. del Tribunale di Genova con la sentenza n. 46591 del 29 settembre 2011. In punto di diritto, tale sentenza ha testualmente rilevato che:
«Le Sezioni unite di questa Corte (n. 1235/10) hanno recentemente affrontato il quesito se il sistema delle sanzioni penali in materia fiscale debba essere integrato con le fattispecie di diritto comune, talché le condotte non previste dalle norme speciali potrebbero comunque ricadere nell’ambito di applicazione di quelle generali; ovvero se esso costituisca un sistema autonomo ed esclusivo, con la conseguente irrilevanza penale dei fatti non espressamente tipizzati dalle disposizioni fiscali, sebbene astrattamente riconducibili a fattispecie incriminatrici di diritto comune.
3. Al riguardo la citata sentenza ha rilevato innanzitutto come il legislatore, in occasione della riforma introdotta con il DLgs. n. 74 del 2000, con una scelta di radicale alternatività rispetto al pregresso modello di legislazione penale tributaria, ha inteso abbandonare il modello del c.d. “reato prodromico” (caratteristico della precedente disciplina di cui al DL 10 luglio 1982, n. 429, conv. L 7 agosto 1982, n. 516), che anticipava la linea d’intervento repressivo già sulla fase “preparatoria” dell’evasione d’imposta, Ii favore della focalizzazione del disvalore sul momento dell’effettiva offesa degli interessi dell’erario. Questa strategia, come si legge nella relazione ministeriale, ha impuntato la reazione punitiva sulla dichiarazione annuale, quale atto che realizza, dal lato del contribuente, il presupposto obiettivo e definitivo dell’evasione; di contro, è stata negata autonoma rilevanza penale alle violazioni “a monte” della dichiarazione stessa, non ancora produttive di danno reale ed effettivo per l’erario (v. S.U 25 ottobre 2000 n. 27; Corte cost. 27 febbraio 2002, n. 49).
4. Ai fini della questione che ci interessa, assume particolare rilievo il DLgs. n. 74 del 2000, art. 6, che esclude la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo (artt. 2, 3 e 4 DLgs. cit). La disposizione mira ad evitare che le violazioni “preparatorie”, già autonomamente represse nel vecchio sistema, possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se a titolo di delitto tentato, quali atti idonei preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione. La ratio risiede nell’intenzione di stimolare, nell’interesse dell’erario, la resipiscenza del contribuente scoperto nel corso del periodo d’imposta.
5. Sulla base di tale rilievo, le Sezioni unite hanno concluso che la negazione di un rapporto di specialità tra la fattispecie penale tributaria e quella comune di truffa aggravata ai danni dello Stato si porrebbe in palese contrasto con la linea di politica criminale e con la stessa ratio che ha ispirato il legislatore nel dettare le linee portanti della riforma introdotta con il DLgs. n. 74 del 2000. Ciò in quanto, se il legislatore individua nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica e il momento di rilevanza penale della fattispecie di evasione, espressamente escludendo che la soglia di punibilità possa essere “anticipata”, ai sensi dell’art. 56 c.p., anche nel caso di accertamento di irregolarità fiscali compiute nel corso del periodo d’imposta, non può recuperarsi l’illiceità penale della condotta preparatoria utilizzando un’ipotesi delittuosa comune contro il patrimonio, quale la truffa aggravata ai danni dello Stato (eventualmente anche sub specie di tentativo). A ragionare diversamente, si finirebbe con lo stravolgere il sistema di repressione penale dell’evasione fiscale, consapevolmente disegnato dalla riforma del 2000 su basi radicalmente diverse.
6. In favore della esclusività del sistema penale fiscale depone anche la disciplina del “condono fiscale” di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 8, comma 6, lett. c) e comma 12 (legge finanziaria 2003). Il ravvedimento del contribuente comporta l’esclusione della punibilità per i reati tributari di cui al DLgs. 10 marzo 2000, n. 74 e l’integrazione dei redditi e degli imponibili non determina obbligo di denunzia all’autorità giudiziaria, in quanto non costituisce notizia di reato. Emergono quindi due elementi che attestano come il legislatore abbia inteso escludere il concorso con il delitto di truffa ai danni dello Stato. In primo luogo, diversamente opinando, la non punibilità dei soli reati fiscali esporrebbe il contribuente alla responsabilità penale per truffa ai danni dello Stato, con l’effetto di disincentivare – anziché auspicare – il perseguimento delle finalità a cui l’intervento normativo è rivolto».
7. La Corte osserva, inoltre, che se il fatto continuasse a costituire reato (alla stregua della normativa comune), costituirebbe una grave aporia sistematica l’affermazione secondo cui la dichiarazione dei redditi non integra gli estremi della notitia criminis e non deve essere trattata come tale. Quindi la Corte rileva testualmente che:
8. «un ulteriore argomento a sostegno della non applicabilità dell’art. 640-bis c.p. alla materia fiscale si trae dall’art. 7 della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee (oggi dell’Unione Europea) del 26 luglio 1995. La norma, nel porre il principio ne bis in idem ”Europeo” (“la persona che sia stata giudicata con provvedimento definitivo in uno Stato membro non può essere perseguita in un altro Stato membro per gli stessi fatti, purché la pena eventualmente applicata sia stata eseguita, sia in fase di esecuzione o non possa essere più eseguita ai sensi della legislazione dello Stato che ha pronunciato la condanna”), conferma che la tutela degli interessi finanziari comunitari deve essere attuata mediante un sistema sanzionatorio che è esaustivo degli interventi repressivi, non solo all’interno dei confini nazionali, ma anche nella dimensione comunitaria. Sulla base di tali considerazioni, le Sezioni unite hanno quindi concluso che “in definitiva, qualsiasi condotta di frode al fisco non può che esaurirsi all’interno del quadro sanzionatorio delineato dalla apposita normativa. […] Vi è, dunque, una generale specialità delle previsioni penali tributarie in materia di frode fiscale, le quali, in quanto disciplinano condotte tipiche e si riferiscono ad un determinato settore di intervento della repressione penale, esauriscono la connessa pretesa punitiva dello Stato (e della Unione Europea)”.
9. Nella specie, al [Z] è stato contestato il reato di cui all’art. 640 c.p., commi 1 e 3, perché, in concorso con altri, avrebbe rappresentato falsamente – anche attraverso la realizzazione di una complessa struttura societaria volta a dissimulare l’effettiva destinazione del bene – che l’imbarcazione denominata […] versava nelle condizioni di non imponibilità IVA in relazione alla fornitura del carburante.
10. La condotta naturalistica così descritta non rientra in alcuna delle fattispecie criminose di cui al DLgs. n. 74 del 2000. L’imputazione, infatti, è strutturata secondo un criterio di tutela “anticipata” dell’interesse dell’erario, dal momento che l’azione delittuosa è individuata non già nell’evasione dell’imposta in se, bensì nella creazione di un’apparenza idonea a creare l’inganno circa la sussistenza dei presupposti (destinazione esclusivamente commerciale e proprietà extracomunitaria del natante) per l’esenzione dal pagamento dell’IVA.
11. Facendo applicazione del principi di diritto testé illustrati, il fatto è quindi penalmente irrilevante, non essendo legittimo impiegare una norma incriminatrice di diritto comune per perseguire una condotta certamente lesiva degli interessi fiscali dello Stato e della Comunità Europea, ma estranea alle fattispecie tipiche del sistema penale tributario».
12. Questo Collegio condivide la decisione sopra richiamata ed i principi di diritto ivi espressi. Pertanto nessuna censura è possibile avverso la sentenza impugnata, che, escludendo la configurabilità del reato di cui all’art. 640 cpv cod. pen., è coerente con l’indirizzo giurisprudenziale sopra delineato, anche se non espressamente richiamato.

PQM

Rigetta il ricorso.