CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 15026 depositata il 21 aprile 2021, n. 15026

Reati tributari – Omessa dichiarazione e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte – Responsabilità – Amministratore di fatto

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Roma riformava parzialmente la sentenza del tribunale di Roma del 4 settembre 2017, tra l’altro dichiarando non doversi procedere nei confronti di P. C. in ordine ai reati di cui ai capi c) e g) e nei confronti di D. D. in ordine ai reati ascrittile al capo I) nn. 1 e 2, perchè estinti per sopravvenuta prescrizione, rideterminando la pena finale applicata a ciascuno di essi.

2. Avverso la pronuncia sopra indicata della Corte di appello, propongono ricorso P. C. e D. D. mediante il proprio difensore, deducendo quattro motivi di impugnazione.

3. Rappresentano con il primo, i vizi di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. per mancanza e contraddittorietà della motivazione oltre al vizio di violazione di legge in relazione all’art. 2639 cod. civ., con riferimento alla qualifica di amministratore di fatto riconosciuta in capo al P., con riguardo ai capi c), d), e) e g).

La corte avrebbe solo ribadito le stesse argomentazioni del primo giudice, senza elaborare un autonomo apparato argomentativo coerente con le deduzioni difensive. Tanto si sostiene con riferimento, in particolare, alla qualifica di amministratore di fatto del P., atteso che la corte avrebbe ripreso le argomentazioni sul punto svolte dal tribunale senza fornire risposta alle censure al riguardo proposte dalla difesa, con particolare riferimento al ruolo svolto dal medesimo quale mero tramite commerciale, con assenza di qualsiasi atto societario a sua firma quale riscontro del ruolo di amministratore di fatto invece attribuitogli. Sarebbero anche assenti i requisiti richiesti ex art. 2639 cod. civ. per configurare l’amministratore di fatto, quali quelli della continuità e significatività della condotta realizzata in rapporto ai poteri tipici della qualifica.

4. Con il secondo motivo deducono i vizi di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. per mancanza e contraddittorietà della motivazione oltre al vizio di violazione di legge in relazione all’art. 5 del Dlgs. 74/2000, con riferimento ai capi c), d), e) e g).

La corte avrebbe solo ribadito le stesse argomentazioni del primo giudice senza considerare né confutare i motivi di gravame proposti in relazione alla attribuibilità della condotta omissiva di cui al reato ex art. 5 citato. Si rappresenta, in particolare, come in sede di appello si era lamentata l’omessa detrazione dal calcolo degli importi interessati dalle affermate evasioni, dei costi sostenuti dalle società contribuenti, in parte ricavabili dalla stessa documentazione prodotta in atti. Rispetto a tale deduzione la corte non avrebbe risposto, limitandosi a ritenere corrette le risultanze fattuali accertate dal tribunale, sul rilievo del legittimo ricorso, ai fini della determinazione della imposta evasa, agli esiti degli accertamenti svolti in sede di verifica tributaria ma senza indicare gli elementi di autonoma verifica dei predetti dati. Da qui la rilevanza della mancata motivazione circa le deduzioni difensive.

In proposito, il richiamo operato dalla corte alla prima decisione, nella parte in cui in relazione al capo d) si sostiene che l’accollo del mutuo operato dall’acquirente nell’atto di compravendita contribuirebbe a formare la base imponibile, sarebbe innanzitutto errato sul piano giuridico, atteso che ai fini delle imposte dirette la base imponibile non può determinarsi al lordo dei debiti del cedente, che il cessionario si sia accollato, essendo invece corretto individuare la predetta base imponibile sulla base del solo importo effettivamente versato dal cessionario al cedente. Così scardinandosi la ricostruzione contabile richiamata dalla corte di appello. Si aggiunge che i giudici del gravame avrebbero nel contempo escluso che il predetto accollo si fosse realmente verificato, per cui sarebbe illogica l’inclusione dell’accollo nel calcolo per le imposte evase a fronte dell’esclusione del medesimo.

5. Con il terzo motivo deducono i vizi di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. per mancanza e contraddittorietà della motivazione oltre al vizio di violazione di legge in relazione all’art. 11 del Dlgs. 74/2000, con riferimento al capo I). Con riferimento alla responsabilità di D. D., in relazione al reato ex art. 11 del Dlgs. 74/2000, la corte avrebbe applicato in maniera distorta la predetta fattispecie, adducendo argomentazioni inconferenti, in assenza della esistenza, al momento delle contestate condotte di alienazione, di un debito erariale certo, liquido ed esigibile, in quanto già maturato nei confronti del contribuente. Ciò perché la garanzia patrimoniale che sarebbe stata sottratta avrebbe avuto riguardo a debiti da evasione fiscale delle società A. S. e I.G., a seguito della mancata presentazione delle dichiarazioni di cui ai capi d) ed e). Debiti che, stante il riferimento in entrambi i capi di imputazione, alla annualità del 2011, sarebbero sorti successivamente alla scadenza del termine di presentazione della relativa denunzia annuale nel mese di ottobre 2012. Laddove la pretesa tributaria dello Stato, ai fini del corretto inquadramento della fattispecie ex art. 11 citato, dovrebbe comunque essere attuale e preesistente alla condotta tipica. Andrebbe quindi sostenuta e affermata la cd. teoria costitutiva secondo la quale la dichiarazione dei redditi è elemento costitutivo del rapporto obbligatorio del singolo contribuente nei confronti dello Stato, per cui il debito tributario sorge ex lege solo successivamente alla scadenza del termine di presentazione della dichiarazione medesima. In tale quadro in mancanza di un debito fiscale certo ed esigibile, sarebbe illogico rinvenire il reato in esame, atteso che gli atti di disposizione patrimoniale non potrebbero ritenersi finalizzati ad impedire la riscossione coattiva, considerato che tale procedura è legittimata solo dalla presenza di un debito tributario maturato. Tanto si impone tanto più nei confronti della ricorrente, chiamata a rispondere penalmente quale acquirente di immobili  ritenuti sottratti al fisco e quindi concorrente nel reato proprio commesso dai contribuenti ovvero gli amministratori degli enti evasori. Tale contesto avrebbe imposto un maggiore approfondimento del dolo specifico che invero difetterebbe, non potendosi desumere aprioristicamente dal rapporto di coniugio con il P. e risultando necessario appurare la consapevolezza, in capo alla ricorrente, del fatto che quelle compravendite fossero dirette da parte degli autori principali del reato a sottrarsi fraudolentemente al pagamento delle imposte.

6. Con il quarto motivo, deducono i vizi di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. per mancanza e contraddittorietà della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio e in particolare in ordine alla concessione delle attenuanti generiche in favore di P. C. oltre che della attenuante ex art. 114 cod. pen in favore di D. D.. La corte sul punto avrebbe ripreso acriticamente le argomentazioni di primo grado senza rispondere ai motivi di gravame e sebbene l’intervenuta prescrizione di taluni reati abbia implicato un ridimensionamento dell’entità delle condotte e dell’ammontare delle imposte evase. In altri termini, la corte avrebbe omesso l’elaborazione del proprio percorso argomentativo.

Considerato in diritto

1. Il primo motivo, sulla assenza della qualifica di amministratore di fatto in relazione ai capi c), d), e) e g), trova ampia risposta da parte della Corte. Essa ha valorizzato per il capo c) l’assenza di competenze dell’amministratore di diritto, cugino del ricorrente e denunziante, ed ha illustrato in maniera precisa, oltre che coerente e corretta rispetto ai requisiti di continuità e significatività delle condotte integranti l’effettiva amministrazione di un ente (Sez. 5, n. 35346  del 20/06/2013 Rv. 256534 – 01), l’affidamento al primo di funzioni in realtà meramente formali, stante anche l’impossibilità che le stesse fossero assunte dal ricorrente in ragione della sua intervenuta dichiarazione di fallimento, e considerata altresì la chiara incompetenza al riguardo del denunziante medesimo (all’epoca semplice studente universitario ); di contro ha perspicuamente evidenziato l’assunzione di un ruolo effettivo dell’imputato nella gestione della società indicata nel predetto capo c), con riscontri costituiti dalle illustrate dichiarazioni del commercialista come anche di altri testi escussi, assieme a contraddittorie dichiarazioni del P. riportate nella sentenza di primo grado ed espressamente richiamate, oltre a circostanze significative come la presenza, altrimenti ingiustificata, del ricorrente, nello studio notarile in occasione della trasferimento all’estero della società. Puntuale e coerente è anche la confutazione di circostanze quali l’indicazione data dal P. al commercialista di fare riferimento agli amministratori di diritto, in realtà compatibile con il ruolo formale assunto da altri soggetti a fronte della impossibilità del ricorrente di ricoprire una veste evidente nella gestione della società, attesa l’intervenuta dichiarazione di fallimento a suo carico. Cosicchè, le censure proposte al riguardo appaiono inidonee a superare una così articolata e congrua motivazione e meramente ripetitive del gravame sul punto, con assenza di un effettivo confronto con le argomentazioni dei giudici e carenza quindi di specificità estrinseca (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425). Analoghe ed egualmente valide risultano le considerazioni a sostegno del ruolo di amministratore di fatto svolto dal ricorrente nell’ambito della società A. S. s.r.l. in relazione al capo d), con adeguata valorizzazione di dichiarazioni testimoniali, descrittive del ruolo gestorio dell’imputato, in uno con la considerazione di circostanze che alla luce dei dati dichiarativi prima citati assumono una coerente connotazione confermativa dei medesimi, quali la vendita di immobili di famiglia alla moglie del P. C. medesimo, e la strumentalità dell’oggetto sociale della società A. S. s.r.l. per l’assicurazione di garanzie patrimoniali in favore di altre società del “gruppo”, gestito sempre dal P. C.. Non dissimili ed egualmente lineari e coerenti appaiono le motivazioni a sostegno del ruolo di amministratore di fatto del ricorrente anche nella società “I.G. s.r.l.” con riferimento al capo e), articolate anche esse nella valorizzazione di atti dichiarativi inerenti le condotte svolte all’interno della società dal P., in uno con la considerazione, anche in tal caso, di circostanze che alla luce dei dati dichiarativi prima citati assumono una coerente connotazione confermativa dei medesimi, quali la strumentalità dell’oggetto sociale della società da ultimo citata per l’assicurazione di garanzie patrimoniali in favore di altre società del “gruppo” gestito sempre dal P. C.. Infine, valide e coerenti sono anche le argomentazioni utilizzate a conferma del ruolo di amministratore di fatto anche nella società “P.T. s.r.l.” di cui al capo g), elaborate con richiamo a quelle già in precedenza formulate e con la peculiare valorizzazione, in tal caso, delle stesse dichiarazioni del ricorrente descrittive di vendite al dettaglio delle giacenze di magazzino,  espressive del ruolo preminente svolto oltre che della rapida dismissione dei beni della società. Anche per queste ultime motivazioni, inerenti il ruolo di amministratore di fatto dell’imputato nelle società dei capi d), e) e), g), le comuni censure contrapposte dalla difesa assumono la connotazione già espresse in rapporto alla motivazione articolata circa la gestione svolta dal P. all’interno della società di cui al capo c).

Consegue l’inammissibilità del primo motivo dedotto.

2. Quanto al secondo motivo, la censura inerente la intervenuta, mera ripetizione da parte della corte di appello delle argomentazioni del primo giudice, senza considerare né confutare i motivi di gravame proposti in relazione alla attribuibilità della condotta omissiva di cui al reato ex art. 5 citato, è superata alla luce delle suesposte considerazioni inerenti la corretta ricostruzione del ruolo di amministratore di fatto del P., con riconducibilità al medesimo di importanti atti di amministrazione quali le omesse dichiarazioni di cui alle fattispecie ex art. 5 Dlgs. 74/2000. Del tutto infondate oltre che generiche sono  anche le critiche circa la lamentata omessa detrazione, dal calcolo degli importi interessati dalle affermate evasioni, dei costi sostenuti dalle società contribuenti.

Esse sono infondate a fronte di puntuali e corrette argomentazioni a sostegno delle modalità di calcolo perseguite nel determinare la base imponibile, con specificazione delle ragioni per cui è stato possibile considerare in alcune ipotesi i costi sostenuti mentre in altri invece è stato impossibile individuarli e calcolarli a beneficio del ricorrente. Tanto in linea con l’indirizzo secondo il quale in tema di reati tributari, il giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, deve effettuare una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, risente delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale, con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza (Sez. 3 – , n. 8700 del 16/01/2019 Rv. 275856 – 01). Ed a fronte peraltro di elaborazioni motivazionali con cui i giudici di merito, nel quadro della ricorrenza di una “doppia conforme”, non si sono limitati a recepire meri dati presuntivi assunti in sede di accertamento tributario, ma ne hanno fatto oggetto di analisi critica anche corroborata dai dati processuali emergenti. Del resto in tema di reati tributari, per il principio di atipicità dei mezzi di prova nel processo penale, di cui è espressione l’art. 189 cod. proc. pen., il giudice può avvalersi dell’accertamento induttivo, compiuto mediante gli studi di settore dagli Uffici finanziari, per la determinazione dell’imposta dovuta, ferma restando l’autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall’art. 192, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 3 – , n. 36207 del 17/04/2019 Ud. (dep. 19/08/2019 ) Rv. 277581 – 01). In altri termini, il giudice penale, mentre non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento tributario, può tuttavia con adeguata motivazione apprezzare gli elementi induttivi in detta sede valorizzati per trarne elementi probatori, che ritenga idonei a sorreggere il suo convincimento obiettivo (Sez. 3, n. 28710 del 19/04/2017 Rv. 270476 – 01).

Sono altresì generiche, in quanto rispetto a tali puntuali motivazioni si è opposto innanzitutto un indistinto richiamo ai motivi di appello, senza precisa illustrazione in sede di ricorso dei medesimi: in tal senso è emblematica anche l’affermazione per cui l’erroneità del calcolo della base imponibile alla luce dei costi deducibili sarebbe evincibile “in parte” <dalla stessa documentazione prodotta agli atti; documentazione non meglio descritta, nonostante i precisi rilievi dei giudici di merito circa l’assenza, in taluni casi, di adeguati dati documentali al riguardo. Cosicchè tali critiche difensive risultano in contrasto con il principio secondo il quale in tema di ricorso per cassazione, la censura di omessa valutazione da parte del giudice dell’appello dei motivi articolati con l’atto di gravame onera il ricorrente della necessità di specificare il contenuto dell’impugnazione e la decisività del motivo negletto al fine di consentire l’autonoma individuazione delle questioni che si assumono non risolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l’atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica. (Sez.. 3 – , Sentenza n. 8065 del 21/09/2018 Ud. (dep. 25/02/2019 ) Rv. 275853 – 02).

Con riguardo all’unica specifica deduzione desumibile dalla generale contestazione del calcolo dei costi, nel quadro della determinazione della base imponibile, appare puramente assertiva la tesi dell’esclusione dalla medesima dell’accollo del mutuo bancario, a fronte invece della opposta condivisibile valutazione presente in sentenza, da ritenersi al riguardo espressiva di un principio generale; essa del resto risulta anche linea con l’indirizzo di legittimità, peraltro corrispondente con l’art. 13 DPR 633/72, secondo il quale in tema di compravendita immobiliare, ed al fine del computo dell’aliquota IVA, la quota di mutuo che costituisce parte del prezzo corrisposto al cedente ed accollata dal cessionario va computata nella base imponibile per la determinazione dell’imposta sul valore aggiunto (Sez. 5, n. 10201 del 26/06/2003, Rv. 564612 – 01).

Quanto poi alla deduzione per cui i giudici del gravame avrebbero comunque escluso che il predetto accollo si fosse realmente verificato, per cui sarebbe illogica l’inclusione dell’accollo nel calcolo per le imposte evase a fronte dell’esclusione del medesimo, in relazione alle operazioni di vendita nn. 1 e 3 del capo I), provenienti dalla A. S. s.r.I., si tratta di eccezione poco puntuale rispetto alla natura delle operazioni medesime; laddove non emerge in realtà la mancata acquisizione dell’accollo in capo al cessionario, ma soltanto l’assenza di una corrispondente liberazione dal medesimo debito a favore del venditore – debitore, per la mancata notifica dell’accollo stesso alla banca mutuante. Con configurazione quindi di rapporti tra i soggetti della compravendita e la banca che non incidono sulla attribuzione del debito al cessionario.

Anche in tal caso devono ritenersi inammissibili quindi le censure sollevate.

3. Infondato è il terzo motivo. Occorre premettere (cfr. in motivazione Sez. 3, n. 39079 del 09/04/2013 Rv. 256376 – 01), che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, rubricato: “Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte”, dispone che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interesgi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad 51.645,69, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”. Il fatto tipico sotteso a tale previsione, che interessa nel caso di specie, è rappresentato dal compimento di atti fraudolenti sui propri o altrui beni al fine di sottrarsi al versamento delle imposte sui redditi o dell’IVA ovvero di sanzioni ed interessi pertinenti a dette imposte, senza che sia necessaria la sussistenza di una procedura di riscossione in atto. Infatti la norma non contiene più alcun riferimento alle condizioni (effettuazione di accessi, ispezioni verifiche ovvero la preventiva notificazione di richieste o atti di accertamento) che erano invece previste dalla analoga fattispecie contenuta nel D.P.R. n. 602 del 1973 (art. 97, comma 6, come modificato dalla L. n. 413 del 1991, art. 15, comma 4, poi abrogata dal vigente D.Lgs.). Questa Suprema Corte ha di conseguenza condivisibilmente rilevato che, perché siano integrati gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice basta unicamente che la condotta risulti idonea a rendere in tutto o in parte inefficace una procedura di riscossione coattiva da parte dello Stato, “idoneità da apprezzare, in base ai principi, con giudizio ex ante – e non anche (per) l’effettiva verificazione di tale evento”. In altri termini (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14720 del 06/03/2008, Rv. 239970), ai fini della configurabilità del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte è necessario, sotto il profilo psicologico, il dolo specifico (ovvero il fine di sottrarsi al pagamento del proprio debito tributario) e, sotto il profilo materiale, una condotta fraudolenta atta a vanificare l’esito dell’esecuzione tributaria coattiva: quest’ultima non configura un presupposto della condotta, in quanto è prevista dalla legge solo come evenienza futura che la condotta, idonea, tende a neutralizzare. Pertanto non solo non è necessario che la procedura di riscossione coattiva abbia avuto avvio, ma anche che i prodromi di essa, ossia l’accertamento tributario sia già stato posto in essere attraverso le verifiche e le successive contestazioni.

Per tale ragione non ha pregio la parte della censura imperniata sulla anteriorità degli atti traslativi rispetto alla consumazione dei reati di cui ai capi d) ed e).

Del resto la contestazione in esame riconduce gli atti fraudolenti non esclusivamente alle imposte interessi e sanzioni di cui ai capi d) ed e) così da poter includere anche debiti contestati e insorti antecedentemente all’epoca degli atti dispositivi di cui all’imputazione del capo I).

Per quanto sinora esposto può dunque osservarsi che la consapevolezza dell’aver eluso i doveri fiscali connota ogni attività dispositiva compiuta dal contribuente, come altamente indiziaria dell’attività simulatorio/fraudolenta e volta a prevenire la realizzazione della pretesa fiscale (che ben si conosce come fondata), indipendentemente dal momento storico del suo accertamento, secondo le sequenze procedimentali adottate dall’Amministrazione finanziaria e dagli enti impositori e quindi indipendentemente dalla maturazione di un debito liquido certo ed esigibile siccome formalmente accertato come tale.

Nè ha pregio la seconda parte della censura, imperniata sulla assenza di dolo, invero coerentemente individuato alla luce del medesimo arco temporale coinvolgente tutte le operazioni a favore di un medesimo soggetto, dei legami tra le persone fisiche interessate (e in particolare tra il P. C. e la moglie D. D.) e della sproporzione tra i valori dei beni e le somme effettivamente versate, secondo i principi propri del concorso nel reato proprio; quali circostanze peraltro coerentemente fondanti operazioni fraudolente di tipo soggettivamente simulatorio.

5. Inammissibile è anche l’ultimo motivo. Innanzitutto si rinviene una deduzione difensiva generica, nella misura in cui da una parte semplicemente rimanda a motivi di gravame inerenti il trattamento sanzionatorio che sarebbero stati elusi, senza alcuna specificazione al riguardo, e dall’altra non precisa le ragioni per cui l’intervenuta prescrizione di alcuni reati avrebbe dovuto necessariamente incidere sull’entità delle condotte e delle imposte evase, con riflessi automatici circa la concedibilità delle attenuanti generiche. Di contro, la motivazione dei giudici è correttamente incentrata, quanto al P., sulla gravità indubbiamente sussistente delle condotte ascritte, espressive di una indiscutibile professionalità criminale e fondanti comunque elevanti importi di imposte evase. Tanto più che costituisce un condivisibile principio – in contrasto con l’affermazione difensiva circa l’intervenuta irrilevanza sul punto in esame dei reati dichiarati prescritti – quello per cui in tema di circostanze, il giudice può legittimamente trarre elementi di valutazione per escludere la concessione delle attenuanti generiche anche da reati contestati che, pur accertati, sono stati dichiarati prescritti, in quanto, con l’estinzione del reato, viene meno il rapporto penale, ma non il fatto storico che lo costituisce (Sez. 5 – , n. 10977 del 12/12/2019 (dep. 01/04/2020) Rv. 278921 – 01). Egualmente coerente e immune da vizi, è la motivazione assunta a fondamento del diniego della attenuante ex art. 114 cod. pen. in favore di D. D.. Riguardo ad essa invero, da una parte appare eccentrica, rispetto alla attenuante in questione invocata in rapporto al capo I), l’unica esplicita deduzione difensiva inerente l’intervenuta prescrizione di taluni reati, dall’altro appare logica e coerente e in alcun modo contrastata, la considerazione giustificativa per cui il contributo assicurato dall’imputata al reato è essenziale alla luce della qualità rivestita dalla stessa, nell’ambito della società apparentemente destinataria dei trasferimenti fraudolenti realizzati.

6. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in  data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che i ricorrenti versino la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di €  3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende