Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 16865 depositata l’ 11 marzo 2023

in tema di accertamento delle imposte sui redditi, in virtù dell’art. 2, comma bis, del d.l. n. 90 del 1990, convertito in l. n. 165 del 1990, avente, come norma interpretativa, efficacia retroattiva, sia l’art. 74 del d.P.R. n. 597 del 1973 che l’art. 75 (ora 109, comma 5) del d.P.R. n. 917 del 1986 devono intendersi nel senso che le spese ed i componenti negativi sono deducibili anche se non risultino dal conto dei profitti e delle perdite, purché siano almeno desumibili dalle scritture contabili – in materia di reati tributari, che spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta e non versata, suscettibile dapprima di sequestro e, poi, di confisca, in base a una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria

RITENUTO IN FATTO 

1. Con la sentenza del 10 settembre 2020 la Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale di Milano del 16 maggio 2018, previo riconoscimento della continuazione con il reato di cui alla sentenza del Tribunale di Milano del 19 maggio 2014, irrevocabile il 13 giugno 2014, ha rideterminato la pena complessiva inflitta a C.F. in un anno di reclusione; ha confermato la sospensione condizionale della pena già concessa e nel resto la sentenza di primo grado.

C.F. è stato condannato per il reato ex art. 5 d.lgs. 74/2000, commesso nella qualità di legale rappresentante della P. s.r.l., per non aver presentato le dichiarazioni relativa all’Ires per euro 168.584 per l’anno di imposta 2010 (in Milano il 29 dicembre 2011).

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato.

2.1 Con il primo motivo si deduce la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione in punto di quantificazione dell’imposta evasa.

La Corte di appello avrebbe eluso la premessa sul valore dell’accertamento induttivo condotto in sede tributaria e sulla necessità del necessario vaglio critico. L’omissione di tale vaglio critico non potrebbe ritenersi superata dal riferimento alla mancata prova contraria fornita dall’imputato o alle risultanze della camera di commercio.

Non sarebbe stata acquisita la Comunicazione del 22 gennaio 2013, dell’ufficio territoriale di Magenta a carico della P. s.r.l. da cui nascerebbero gli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate.

Con motivazione contraddittoria la Corte di appello avrebbe ritenuto l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate prova a carico quanto alle entrate ma non quanto ai costi:

  • la perdita riscontrata nel periodo di imposta 2009, pari ad€ 528, la quale ex art. 84 comma 1 TUIR, dovrebbe essere computata in diminuzione del reddito maturato nell’anno 2010;
  • i costi per i due dipendenti nel 2010 che, diversamente da quanto risulterebbe dall’avviso di accertamento (pag. 5) sarebbero stati impiegati per il 2010 e per i primi 3 mesi del 2011.

Inoltre, dall’avviso di accertamento emergerebbe la possibilità di detrarre dal prezzo di vendita dell’immobile il costo di euro 85.990,07.

La Corte di appello avrebbe poi apoditticamente ritenuto probante il calcolo presuntivo dell’Agenzia delle Entrate sull’ammortamento del costo di acquisto dell’immobile, pari al 3% per ogni anno successivo all’acquisto, mentre avrebbe dovuto verificare se l’ammortamento fosse avvenuto effettivamente mediante le dichiarazioni fiscali della società e contenute nella banca dati dell’Agenzia delle Entrate.

2.2 Con il secondo motivo si deducono l’inosservanza dell’art. 84 comma 1 Tuir e la manifesta illogicità della motivazione in punto di detrazione delle perdite pregresse, che sarebbero state erroneamente ritenute non incidenti sulla realizzazione del reato, distinguendo l’imposta evasa e l’imponibile.

CONSIDERATO IN DIRITTO 

1. Va in primo luogo rilevato che le questioni poste sul valore probatorio dell’accertamento induttivo sono del tutto irrilevanti perché il reddito di impresa del 2010 ai fini Ires è stato determinato, come risulta dalla sentenza, mediante la banca dati, quanto alle cessioni di beni o prestazioni di servizi alla Reg-Ma s.r.l. per un valore di euro 186.984, e con riferimento alla plusvalenza realizzata mediante la cessione di un immobile, al prezzo di€ 000.

1.1 Il primo importo, relativo alle cessioni di beni o prestazioni di servizi alla Reg-Ma s.r.l., non risulta specificamente contestato: si contesta non l’esistenza delle cessioni, ma che l’accertamento sia avvenuto mediante la banca dati, nella quale però sono riportati i dati delle fatture emesse dalla società. Neanche è stata specificamente contestata l’avvenuta cessione dell’immobile al prezzo di euro 000.

1.2 Va ribadito, in materia di reati tributari, che spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta e non versata, suscettibile dapprima di sequestro e, poi, di confisca, in base a una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria (cfr. 3, n. 50157 del 27/09/2018, Fiusco, Rv. 275439 – 01).

Inoltre, il giudice penale, mentre non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento tributario, può tuttavia con adeguata motivazione apprezzare gli elementi induttivi in detta sede valorizzati per trarne elementi probatori, che ritenga idonei a sorreggere il suo convincimento obiettivo (Sez. 3, n. 28710 del 19/04/2017, Mantellini, Rv. 270476 – 01).

Sez. 3, n. 8700 del 16/01/2019, Holz, Rv. 275856 – 01, ha affermato, in tema di reati tributari, il giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, deve effettuare una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, risente delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale, con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza.

1.3 La Corte di appello non è incorsa nel travisamento della prova per omissione, perché ha specificamente valutato il dato probatorio indicato nei motivi aggiunti. Correttamente la corte territoriale ha ritenuto che l’esistenza della comunicazione non provi che la società abbia effettivamente sostenuto il costo, perché non è indicato il contenuto di tale comunicazione; inoltre, i costi dei due dipendenti risultano specificamente quantificati per il 2008 ed il 2009, come indicato anche nel ricorso, ma non nel 2010.

Né risulta che l’imputato nel giudizio di merito abbia allegato la documentazione relativa ai costi effettivamente sostenuti per i due dipendenti, per dimostrare la loro esistenza.

1.4 Quanto al contestato il calcolo della plusvalenza, va rilevato che l’Agenzia delle Entrate ha detratto al prezzo di vendita il valore contabile del bene, pari ad € 73.950, calcolando, rispetto al prezzo di acquisto, l’ammortamento del 3%; secondo il ricorrente si sarebbe dovuto detrarre l’intero prezzo di acquisto del bene, pari ad € 85.990.

Il ricorrente ha però adoperato il criterio di calcolo sulla tassazione della plusvalenza previsto dall’art. 68 del Tuir e non da quello ex art. 86 che si applica alle s.r.l.

2. Il secondo motivo è infondato.

2.1 Il principio di diritto espresso dalla Corte di appello non è corretto, perché la base imponibile dell’imposta sul reddito delle società, oggetto dell’imputazione, concerne il reddito complessivo netto, detratte anche le perdite dell’anno precedente, ai sensi degli artt. 75, 84 e 109 del d.P.R. 917/1986.

2.2 La base imponibile dell’imposta sul reddito delle società è descritta nell’art. 75 del Tuir (all’epoca in vigore):

«1. L’imposta si applica sul reddito complessivo netto, determinato secondo le disposizioni della sezione I del capo II, per le società e gli enti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 73, del capo III, per gli enti non commerciali di cui alla lettera c) e dei capi IV e V, per le società e gli enti non residenti di cui alla lettera d).

2. Le società residenti di cui alla lettera a) del comma 1 dell’articolo 73 e quelle non residenti di cui alla lettera d) possono determinare il reddito secondo le disposizioni del capo VI».

L’art. 77, in rubrica «Aliquota dell’imposta», all’epoca vigente, prevedeva che « 1. L’imposta è commisurata al reddito complessivo netto con l’aliquota del 27,5 per cento» (oggi 24%).

L’art. 84 («Riporto delle perdite») così disponeva:

«1. La perdita di un periodo d’imposta, determinata con le stesse norme valevoli per la determinazione del reddito, può essere computata in diminuzione del reddito dei periodi d’imposta successivi, ma non oltre il quinto, per l’intero importo che trova capienza nel reddito imponibile di ciascuno di essi.

Per i soggetti che fruiscono di un regime di esenzione dell’utile la perdita è riportabile per l’ammontare che eccede l’utile che non ha concorso alla formazione del reddito negli esercizi precedenti. La perdita è diminuita dei proventi esenti dall’imposta diversi da quelli di cui all’articolo 87, per la parte del loro ammontare che eccede i componenti negativi non dedotti ai sensi dell’articolo 109, comma.

Detta differenza potrà tuttavia essere computata in diminuzione del reddito complessivo in misura tale che l’imposta corrispondente al reddito imponibile risulti compensata da eventuali crediti di imposta, ritenute alla fonte a titolo di acconto, versamenti in acconto, e dalle eccedenze di cui all’articolo 80.

2. Le perdite realizzate nei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione possono, con le modalità previste al comma 1, essere computate in diminuzione del reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi senza alcun limite di tempo a condizione che si riferiscano ad una nuova attività

3. Le disposizioni del comma 1 non si applicano nel caso in cui la maggioranza delle partecipazioni aventi diritto di voto nelle assemblee ordinarie del soggetto che riporta le perdite venga trasferita o comunque acquisita da terzi, anche a titolo temporaneo e, inoltre, venga modificata l’attività principale in fatto esercitata nei periodi d’imposta in cui le perdite sono state realizzate. La modifica dell’attività assume rilevanza se interviene nel periodo d’imposta in corso al momento del trasferimento od acquisizione ovvero nei due successivi od La limitazione non si applica qualora: …

b) le partecipazioni siano relative a società che nel biennio precedente a quello di trasferimento hanno avuto un numero di dipendenti mai inferiore alle dieci unità e per le quali dal conto economico relativo all’esercizio precedente a quello di trasferimento risultino un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, di cui all’articolo 2425 del codice civile, superiore al 40 per cento di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori».

2.3 Deve però rilevarsi che secondo il costante orientamento delle Sezioni Civili, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, in virtù dell’art. 2, comma bis, del d.l. n. 90 del 1990, convertito in l. n. 165 del 1990, avente, come norma interpretativa, efficacia retroattiva, sia l’art. 74 del d.P.R. n. 597 del 1973 che l’art. 75 (ora 109, comma 5) del d.P.R. n. 917 del 1986 devono intendersi nel senso che le spese ed i componenti negativi sono deducibili anche se non risultino dal conto dei profitti e delle perdite, purché siano almeno desumibili dalle scritture contabili (Sez. 5, n. 8322 del 27/04/2016, Rv. 639773 – 01).

Orbene, il ricorso non dimostra che le perdite dell’anno precedente risultino dalle scritture contabili, perché fa esclusivo riferimento all’accertamento della Agenzia delle Entrate; né sono stati prodotti nel giudizio di merito elementi di prova concreti per la dimostrazione dell’esistenza delle perdite.

3. Pertanto, il ricorso deve essere rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.