CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 settembre 2013, n. 22177

Tributi – IVA – Territorialità – Stabile organizzazione – Succursale di banca non residente – Personalità giuridica – Esclusione – Prestazioni di servizi ricevute dalla sede centrale – Assoggettabilità ad IVA – Esclusione

Ritenuto in fatto

1. Negli anni dal 2001 al 2003 la succursale inglese del Banco do B. SA, istituto di credito con sede legale in B. e, provvedeva – nella sua qualità di incaricata delle funzioni di centro di coordinamento delle attività di tutte le succursali del Banco aventi sede in Europa – ad addebitare alla succursale di Milano i costi per la messa a disposizione di servizi informatici centralizzati da parte della casa madre B.. A fronte delle note di addebito, la succursale di Milano – adeguandosi all’orientamento espresso dall’Amministrazione finanziaria con le Risoluzioni Ministeriali del 20.3.81 n. 330470 e del 29.3.83 n. 331300, entrambe revocate, poi, con la Risoluzione n. 81/E del 16.6.06 – provvedeva, pertanto, ad emettere le relative autofatture e ad effettuare, alle scadenze periodiche, i relativi versamenti dell’IVA, riportando il relativo debito di imposta nelle dichiarazioni IVA annuali regolarmente presentate.

1.1. Successivamente, ritenendo detto orientamento dell’Ufficio in contrasto con il diritto comunitario di riferimento – come, dipoi, confermato da C. Giust. 23.3.6, C-210/04 – il Banco do B., sede secondaria di Milano, presentava, tuttavia, istanza di rimborso dell’IVA indebitamente versata.

2. Nei confronti del silenzio rifiuto serbato dall’Amministrazione finanziaria sull’istanza, il contribuente proponeva, quindi, ricorso alla CTP di Milano, che lo accoglieva. L’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Milano 1 avverso la decisione di primo grado veniva, peraltro accolto dalla CTR della Lombardia, con sentenza n. 5/37/07, depositata il 6.2.07. Il giudice di secondo grado – in riforma della decisione di prime cure – riteneva, invero, che là sede secondaria di Milano della banca B. Banco do B. dovesse considerarsi soggetta ad IVA per le prestazioni di servizi effettuate in suo favore dalla casa madre, quale organizzazione stabile della stessa, ai sensi del disposto dell’art. 7, co. 3 del d.P.R. 633/72. Sicché, a parere del giudice di appello, il silenzio rifiuto opposto dall’Amministrazione finanziaria doveva ritenersi pienamente legittimo.

3. Per la cassazione della sentenza n. 5/37/07 ha proposto ricorso il Banco do B. SA affidato a tre motivi. L’Agenzia delle Entrate non ha svolto attività difensiva. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Considerato in diritto

1. Con i tre motivi di ricorso – che, per la loro intima connessione, vanno esaminati congiuntamente, il Banco do B., sede secondaria di Milano, denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, par. 1, 4, par. 1 e 9, par. 1 della VI Direttiva n. 388/77/CEE, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché l’omessa motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.

1.1. Avrebbe, invero, errato la CTR nel ritenere legittimo – peraltro con motivazione del tutto incongrua e, pertanto, censurabile – il silenzio rifiuto dell’Amministrazione sull’istanza di rimborso della banca suindicata, sulla base dell’erroneo presupposto dell’autonoma soggettività passiva della stabile organizzazione in Italia del Banco do B.. Per contro, tale struttura nazionale – in quanto mera articolazione territoriale dell’istituto di credito B. – avrebbe dovuto essere considerata sfornita di una propria soggettività distinta ed autonoma rispetto a quella della società di cui fa parte. A parere della ricorrente, pertanto, in difetto di una dicotomia soggettiva tra le due organizzazioni, la succursale italiana della banca B. non potrebbe essere ritenuta assoggettabile ad IVA, in relazione ai costi che le venivano addebitati dalla casa madre per le prestazioni di servizi rese in suo favore.

1.2. Del tutto errata si paleserebbe, inoltre, l’impugnata sentenza, nella parte in cui il giudice di appello ha escluso l’applicabilità delle succitate norme comunitarie di riferimento, che escluderebbero l’assoggettabilità ad IVA delle prestazioni rese dalla casa madre ad una propria succursale, per il solo fatto che il prestatore dei servizi risiede in uno Stato non appartenente all’Unione Europea. Le disposizioni della Direttiva nn. 388/77/CE – di cui la normativa nazionale, contenuta nel d.P.R. 633/72, costituisce attuazione – sarebbero, per converso, dirette a disciplinare le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate ai fini del consumo all’interno della Comunità Europea, a prescindere dalla sede del prestatore o venditore e, quindi, anche se quest’ultimo abbia la propria sede – come nel caso concreto – in un Paese non appartenente alla Comunità Europea.

2. Le censure suesposte sono fondate.

3. Va osservato, infatti, che – in forza del combinato disposto degli artt. 7, co. 3 e 17, co. 3, del d.P.R. 633/72, il destinatario di una cessione di beni o di una prestazione di servizi, costituente soggetto passivo nel territorio dello Stato, è tenuto – provvedendo all’autofatturazione ex art. 17, co. 3 del decreto cit., secondo il sistema dell’inversione contabile o “reverse charge”, all’assolvimento dell’IVA in luogo del cedente o prestatore non residenti in Italia, e che non abbiano un rappresentante nel territorio nazionale, né siano ivi forniti di “stabile organizzazione” (cfr. Cass. 8038/13).

3.1. E’del tutto evidente, dunque, sulla scorta del dato normativo suindicato, che la “stabile organizzazione” di un soggetto residente in un Paese terzo (rientrante, o meno, della Comunità Europea) viene a svolgere un ruolo di mero criterio di collegamento territoriale, nel senso che essa consente di stabilire i casi in cui i beni ceduti o i servizi prestati dal soggetto giuridico estero siano tassabili in Italia. La “stabile organizzazione” di detto soggetto viene, invero, ad espletare nel territorio italiano lo stesso ruolo che al cedente o prestatore nazionale è attribuito nel sistema IVA. Sicché, mancando la medesima organizzazione o un rappresentante fiscale del soggetto estero, sarà, il cessionario o il committente a dover adempiere gli obblighi IVA, ai sensi delle disposizioni succitate.

3.2. La tesi sostenuta, nel caso di specie, dall’Amministrazione finanziaria, e condivisa dal giudice di appello, è – di contro – nel senso che la stabile organizzazione di un soggetto non residente assumerebbe, ai fini IVA, un’autonoma soggettività passiva di imposta, nel concorso di tutti i requisiti oggettivi e territoriali rilevanti ai fini dell’imponibilità del tributo. E ciò anche nei rapporti con la stessa casa madre, della quale detta organizzazione costituisca una mera articolazione, laddove essa si ponga, nei suoi confronti, come soggetto cedente beni o prestatore di servizi.

In altri termini, la “stabile organizzazione”, oltre a svolgere un ruolo di rappresentanza dell’impresa non residente, ai fini dell’adempimento degli obblighi di imposta connessi alle operazioni attive da quest’ultima poste in essere, costituirebbe, altresì, soggetto passivo di imposta per le prestazioni di servizi o le cessioni di beni da essa ricevute, in forza del combinato disposto degli artt. 7, co. 3 e 17, co. 3 del d.P.R. 633/72.

3.3. Tale tesi non può essere condivisa.

3.3.1. E’noto, infatti, che la disciplina dell’IVA nell’ordinamento nazionale si pone come attuazione delle Direttive comunitarie che ne hanno imposto l’adozione e fissato la disciplina. Ebbene, ai fini della risoluzione della presente controversia, rileva in particolare, ratione temporis, quanto stabilito in materia dalla sesta Direttiva IVA n. 388/77/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari.

Ed invero, a norma dell’art. 2, par. 1 di detta Direttiva, “sono soggette all’imposta sul valore aggiunto: (…) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, effettuate a titolo oneroso all’interno del paese da un soggetto passivo che agisce in quanto tale”, E per “soggetto passivo” deve intendersi – ai sensi del successivo art. 4, par. 1 – “chiunque esercita in modo indipendente e in qualsiasi luogo una delle attività economiche di cui al paragrafo 2 (attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle delle professioni liberali o assimilate) , indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività”.

3.3.2. Orbene, da tali inequivoche disposizioni della Direttiva comunitaria succitata ben possono trarsi fonda- mentali indicazioni, ai fini della risoluzione della definizione della presente controversia. Secondo la giurisprudenza costante della Corte di Giustizia, infatti, una prestazione di servizi è effettuata “a titolo oneroso”f ai sensi dell’art. 2. Par. 1 della Direttiva n. 388/77/CEE, soltanto quando tra il prestatore e il destinatario intercorra un rapporto giuridico di tipo negoziale implicante la stipulazione di un prezzo o di un controvalore, sicché il compenso ricevuto dal prestatore costituisca il controvalore effettivo del servizio reso al destinatario (cfr. C. Giust. 1.4.82, C-89/91; C. Giust. 3.3.94, C-16/93; C. Giust. 5.6.97, C-2/95; C. Giust. 29.10.09, C-246/08).

Ne discende che la necessaria alterità tra soggetti implicita nella nozione di rapporto negoziale – basti considerare il riferimento all’accordo di due o più parti, come distinti centri di interessi, cui fa riferimento l’art. 1321 c.c. – induce ad escludere che siffatta situazione possa ravvisarsi nelle prestazioni di servizi rese – come nella specie – da una società nei confronti di una propria articolazione territoriale. In mancanza di una relazione dicotomica tra soggetti distinti, invero, anche la configurabilità di un effettivo corrispettivo ~ e, non a caso, nella fattispecie concreta si fa riferimento all’addebito delle spese sostenute dalla casa madre, e non ad un compenso – non è correttamente configurabile.

3.3.3. Un rapporto giuridico oneroso tra soggetti diversi, ai fini di assoggettare all’IVA le prestazioni fornite, potrebbe – del resto – configurarsi, tra una società non residente (esercente l’attività bancaria) ed una delle sue succursali, solo se l’attività svolta da quest’ultima fosse qualificabile come “indipendente” ai sensi dell’art. 4, par 1 della VI Direttiva.

Senonché va – per contro – considerato che la succursale non sopporta in proprio i rischi economici connessi all’esercizio dell’attività bancaria, quali – ad esempio – il mancato rimborso dei prestiti erogati da parte dei clienti. E’, difatti, soltanto l’istituto di credito, in quanto persona giuridica fornita di una propria dotazione patrimoniale, a sopportare siffatti rischi; ed è per tale ragione che esso è soggetto, nello Stato di appartenenza, a controlli di solidità finanziaria e di solvibilità (C. Giust. 2.3.06, C-210/04). Per il che, il difetto anche di tale connotazione di indipendenza, in capo alla filiale o succursale, vale ulteriormente ad evidenziarne il difetto di alterità con la casa madre, inducendo – di conseguenza – ad escluderne una soggettività passiva ai fini IVA, a norma dell’art. 2, par. 1 della sesta Direttiva.

3.3.4. Né siffatta soggettività, a giudizio di questa Corte, potrebbe in alcun modo essere ancorata al disposto dell’art. 9, par. 1 della medesima Direttiva succitata.

3.3.4.1. Tale disposizione, invero, – a tenore della quale “si considera luogo di una prestazione di servizi il luogo in cui il prestatore ha fissato la sede della propria attività economica o ha costituito un centro di attività stabile, a partire dal quale la prestazione di servizi viene resa” – mira ad individuare il soggetto passivo di imposta in caso di transazioni commerciali intercorse tra una succursale ed i terzi, nel senso che tale soggetto passivo deve essere individuato comunque nel “prestatore” del servizio, ovverosia in colui che ha fissato la struttura stabile (C. Giust. 23.3.06, cit.).

Per contro, quest’ultima – non avente una autonoma soggettività passiva di imposta – opera esclusivamente quale criterio di collegamento tra la prestazione di servizi ed il territorio dello Stato membro. In altri termini, già con riferimento alle transazioni intercorse tra la succursale della banca ed i terzi, il soggetto passivo IVA resta esclusivamente identificato nell’istituto di credito centrale. Ma ciò – come è evidente – è da ritenersi, a fortiori, per quanto attiene alle transazioni effettuate tra la società ed una delle sue articolazioni, stabilita in uno Stato diverso da quello della casa madre, nelle quali la stabile organizzazione non svolge neppure il limitato ruolo di criterio di collegamento territoriale, non configurando tale ipotesi la fattispecie di rapporti negoziali onerosi tra soggetti indipendenti, cui si riferiscono le succitate norme della sesta Direttiva.

3.3.4.2. Tali considerazioni hanno, pertanto, indotto la Corte di Lussemburgo ad affermare che gli artt. 2, par. 1 e 9, par. 1, della Direttiva n. 388/77/CEE devono essere interpretati nel senso che un centro di attività stabile, che non sia un ente giuridico distinto dalla società di cui fa parte, stabilito in uno Stato membro diverso da quello della casa madre, ed al quale quest’ultima fornisce prestazioni di servizi, non deve essere considerato un soggetto passivo in ragione dei costi che gli vengono imputati a fronte di tali servizi (C. Giust. 23.3.06, cit.).

3.3.5. Sulla scorta di tali inequivoci principi desumibili dalla normativa comunitaria cogente e dalla giurisprudenza comunitaria, questa Corte ha, pertanto, già avuto modo di affermare – e l’indirizzo merita di essere confermato – che le prestazioni di servizi effettuate da una società avente sede in uno Stato dell’Unione Europea in favore di una propria struttura secondaria priva di personalità giuridica, situata in Italia, non sono assoggettabili ad IVA, anche se alla struttura secondaria venga addebitato un costo dalla casa madre (cfr. Cass. 526/07).

3.3.6. E tale conclusione, a giudizio della Corte, non può essere posta in discussione neppure per il fatto che nel caso concreto – a differenza della fattispecie presa in esame dal precedente summenzionato – la casa madre abbia sede in uno Stato (il B.e) non appartenete all’Unione Europea.

3.3.6.1. Va osservato, infatti, che la menzionata sentenza della Corte di Giustizia 23.3.06, C.210/04 non esclude affatto che i principi suesposti si attaglino anche al caso in cui la sede della società bancaria si trovi in uno Stato che non sia parte dell’Unione Europea, essendosi detta pronuncia (punto 22) limitata ad escludere la rilevanza della questione nel caso sottoposto al suo esame, concernente i rapporti tra la casa madre situata nel Regno Unito (Stato membro) e la succursale italiana.

3.3.6.2. In tal senso depongono, del resto, anche le conclusioni rassegnate dall’Avvocato Generale nell’ambito della stessa causa n. 210/04, laddove suggerisce alla Corte di risolvere la questione rimessale affermando che “gli artt. 2, punto 1, e 9, n. 1, della sesta direttiva devono essere interpretati nel senso che, al di fuori delle eccezioni previste dalla sesta direttiva, le prestazioni di servizi fornite da una società madre non residente ad una sede secondaria in uno Stato membro, che non sia iscritta in tale Stato come entità giuridica distinta e che costituisca un centro di attività stabile, ai sensi di quest’ultima disposizione, non sono suscettibili di costituire operazioni imponibili a titolo di IVA, anche quando il costo di tali servizi sia stato imputato a tale centro”. E’- per vero – del tutto significativo il riferimento operato dall’Avvocato Generale alla “società madre non residente”, senza alcuna distinzione, dunque, ai fini di escludere l’imponibilità delle operazioni in questione, quanto alla sede della società stessa, se ubicata, cioè, in uno Stato membro della UE o in uno Stato terzo.

3.3.6.3. D’altro canto, va altresì osservato, al riguardo, che le menzionate decisioni della Corte di Giustizia relative alle prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso, ai sensi dell’art. 2, par. 1 della sesta Direttiva, nel valorizzare ai fini della imponibilità il presupposto del rapporto negoziale tra soggetti diversi, non richiedono affatto che. tali soggetti appartengano necessariamente a Stati membri entrambi dell’Unione Europea (cfr., ad es., C. Giust. 1.4.82, C-89/91, che riguarda una controversia concernente un rapporto contrattuale tra una società tedesca ed una società statunitense).

3.4. Per tutte le ragioni suesposte, pertanto, il ricorso proposto dal Banco do B., succursale di Milano, non può che essere accolto.

4. L’accoglimento del ricorso comporta la cassazione dell’impugnata sentenza. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Corte, nell’esercizio del potere di decisione nel merito di cui all’art. 384, co. 1 c.p.c., accoglie il ricorso introduttivo della società contribuente.

5. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico dell’Amministrazione intimata, nella misura di cui in dispositivo. Concorrono giusti motivi per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese dei giudizi di merito.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della società contribuente; condanna l’intimata alle spese del presente giudizio, che liquida in € 13.000,00, oltre ad € 200,00 per esborsi; dichiara compensate tra le parti le spese dei giudizi di merito.