La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 10640 depositata il 19 aprile 2024, intervenendo in tema di licenziamento per mancato raggiungimento dell’obbietivo o scarso rendimento, ha ribadito il principio secondo cui “… il licenziamento per cosiddetto ‘scarso rendimento’, (…), costituisce un’ipotesi di recesso del datore per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento, prevista dagli artt. 1453 e segg. Cod. civ. Si osserva infatti che, nel contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un risultato ma alla messa a disposizione del datore delle proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti, con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, giacché si tratta di lavoro subordinato e non dell’obbligazione di compiere un’opera o un servizio (lavoro autonomo). Ove, tuttavia, siano individuabili dei parametri per accertare che la prestazione sia eseguita con la diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, il discostamento dai detti parametri può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione” (in termini: Cass. n. 14310 del 2015, in continuità con Cass. n. 2291 del 2013; Cass. n. 24361 del 2010; Cass. n. 1632 del 2009; Cass. n. 3876 del 2006; Cass. n. 10303 del 2005; Cass. n. 6747 del 2003; Cass. n. 13194 del 2003; Cass. n. 2448 del 2001; in materia di rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri v. Cass. n. 10963 del 2018) …”
La vicenda ha riguardato un dipendente a cui veniva notificato il provvedimento di licenziamento a causa di numerose assenze per malattia che avevano inciso negativamente sull’organizzazione aziendale e sui livelli di produzione del settore cui il predetto era stato assegnato. Il lavoratore impugna il provvedimento di espulsione. Il Tribunale adito, in veste di giudice del lavoro, annullarono il licenziamento e disposero di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro nonché a versare i contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, con diritto altresì a percepire un indennizzo commisurato a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori. Il datore di lavoro impugnava la decisione del Tribunale. La Corte di appello con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege 92 del 2012, ha confermato la pronuncia di prime cure. In particolare per i giudici di appello il recesso, intimato pacificamente prima del superamento del periodo di comporto, dovesse considerarsi nullo, con applicazione della tutela reintegratoria attenuata secondo il disposto dell’art. 18, comma 7, S.d.L., risultando irrilevanti le prove dedotte dalla società su elementi diversi rispetto a quello decisivo rappresentato dal mancato esaurimento del periodo di comporto. Avverso tale sentenza il datore di lavoro proponeva ricorso in cassazione fondato su cinque motivi.
I giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso e condannato la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite.
Per gli Ermellini “… “lo scarso rendimento è caratterizzato da colpa del lavoratore“, (Cass. n. 16472 del 2015; Cass. n. 16582 del 2015; Cass. n. 17436 del 2015), per cui, avuto riguardo alle fattispecie concrete, occorre tenere distinte le ipotesi in cui ci si dolga della condotta del lavoratore cui si addebitano forme di inadempimento rispetto alla prestazione attesa dal datore, comunque ascrivibili alla sfera volitiva del dipendente, dando luogo al licenziamento cd. ontologicamente disciplinare, dai casi riferibili alle ragioni organizzative dell’impresa, che possono anche ravvisarsi in condizioni attinenti alla persona del lavoratore (Cass. n. 12072 del 2015) quali la sopravvenuta inidoneità per infermità fisica, la carcerazione (Cass. n. 12721 del 2009), il ritiro della patente o la sospensione delle autorizzazioni amministrative (Cass. n. 603 del 1996; Cass. n. 7638 del 1996; Cass. n. 6362 del 2000; Cass. n. 13986 del 2000), la mancanza del titolo professionale abilitante (Cass. n. 25073 del 2013), ma sempre che si tratti di circostanze oggettive idonee a determinare la perdita di interesse del datore di lavoro alla prestazione e che siano estranee alla sfera volitiva del soggetto, tali da non poter configurare, nella sostanza, un inadempimento comunque imputabile; in particolare, la sussunzione della fattispecie concreta nell’una piuttosto che nell’altra ipotesi normativa non può essere rimessa alla libera scelta del datore di lavoro, in virtù di un mero atto di qualificazione del recesso, svincolato dalla valutazione della concreta ragione posta a fondamento del licenziamento, sicché deve escludersi la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo quando, a di là di ogni eventuale riferimento a ragioni relative all’impresa, il licenziamento è fondato su di un comportamento riconducibile alla sfera volitiva del lavoratore e lesivo dei suoi doveri contrattuali ed esprime pertanto un giudizio negativo nei suoi confronti (in termini: Cass. n. 18287 del 2012; in precedenza Cass. n. 326 del 1997 e, sulla nozione ontologica del licenziamento disciplinare, v. Cass. SS.UU. n. 4823 del 1987); quando, poi, il recesso del datore di lavoro è comunque collegato ad assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), lo stesso è soggetto alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali; ne consegue che il datore di lavoro, da un lato, non può recedere dal rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto periodo di comporto), il quale è predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (Cass. n. 1861 del 2010; Cass. n. 1404 del 2012; Cass. n. 24525 del 2014; Cass. n. 31763 del 2018); …”
Infine il Supremo consesso in continuità, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 12568 del 2018, ha riaffermato che “… la nullità del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità; hanno ribadito come il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisca una fattispecie autonoma di licenziamento, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’art. 2119 cod. civ. e agli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966; hanno chiarito che il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva – o, in difetto, dagli usi o secondo equità – di per sé non costituisce inadempimento alcuno (trattandosi di assenze pur sempre giustificate); né per dare luogo a licenziamento si richiede un’accertata incompatibilità fra tali prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell’impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali; hanno statuito che nell’art. 2110, comma 2, cod. civ. si rinviene un’astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale (in conformità, di recente, Cass. n. 27334 del 2022); …”
In sintesi per la Suprema corte il licenziamento per c.d. scarso rendimento costituisce un’ipotesi di recesso del datore per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore. Inoltre il contenuto del contratto di lavoro subordinato non statuisce che il dipendente si obbliga al raggiungimento di un risultato, ma alla sola messa a disposizione, in favore del datore, delle proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti.
Pertanto il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento.
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