CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 ottobre 2013, n. 24448
Tributi – Accertamento – Studi di settore – Errore nella dichirazione di attività esercitata – Attività soggetta agli studi di settore – Asserito svolgimento di attività diversa non soggetta agli studi di settore – Prova – Fatture – Presunzione di fatturato – Irrilevanza
Svolgimento del processo
E.E. propone ricorso per cassazione, sulla base di sette motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che, rigettandone l’appello, ha confermato la legittimità dell’accertamento ai fini dell’IRPEF, dell’IVA, e dell’IRAP, nonché dell’obbligo di corrispondere contributi previdenziali, per l’anno 1998, in quanto, facendo applicazione degli studi di settore all’attività economica svolta era emerso uno scostamento rispetto ai dati dichiarati, in ordine al quale il contribuente, invitato dall’ufficio, non era stato in grado di fornire adeguata giustificazione.
Il giudice d’appello anzitutto disattendeva il rilievo concernente la mancata effettuazione dell’udienza camerale sulla richiesta sospensione dell’atto impugnato, atteso che la Commissione provinciale aveva tenuto direttamente l’udienza sul merito della causa in una data, il 22 giugno 2006, talmente ravvicinata rispetto alla proposizione del ricorso, risalente al 16 febbraio, da non richiedere la decisione sull’istanza, avendo quindi l’udienza sul merito totalmente assorbito l’udienza sulla sospensiva, facendone venir meno le finalità cautelari, concretantesi nell’assicurare gli effetti della decisione di merito.
Quanto al merito, la documentazione prodotta era inappropriata e non dimostrava affatto lo scostamento del reddito dichiarato da quello risultante dagli studi di settore. Il contribuente “continua ad affermare una realtà che non esiste o che comunque non viene sufficientemente dimostrata”, come ampiamente rilevato dal giudice di primo grado: “non basta produrre delle fatture, ma bisogna altresì che tali fatture dimostrino la realtà econonica affermata dal contribuente (nel caso specifico il commercio all’ingrosso di carni… i cui studi di settore non erano ancora stati approvati…), e ciò non è avvenuto… ..le fatture prodotte (l’annotazione delle fatture in contabilità) non dimostrano affatto il commercio all’ingrosso di carni”.
Sul punto, poi, prosegue il giudice d’appello, “un ulteriore aspetto è di fondamentale importanza, la parte ha dichiarato essa stessa di svolgere nell’anno in questione attività di commercio al dettaglio di carni fresche. L’ufficio ha solo accertato che la dichiarazione dei redditi della parte si conformasse alle risultanze degli studi di settore. Questo non è avvenuto, essendosi rilevato lo scostamento. La contribuente cerca di giustificare lo scostamento affermando che si era sbagliata nel compilare gli studi di settore, poiché ha inserito un’attività che non era quella svolta”. Una siffatta argomentazione, ad avviso della Commissione regionale, “è inidonea a giustificare lo scostamento. Innanzitutto perché, come descrìtto, nulla è stato dimostrato a riguardo, poi perché non è pensabile che la contribuente che abbia dichiarato di svolgere una data attività affermi poi di essersi sbagliata senza incorrere nelle conseguenze che la legge prevede (nello specifico lo scostamento reddituale derivante dagli studi di settore)”. La contribuente, “non potendo giustificare lo scostamento fra i dati dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione degli studi di settore per l’attività in oggetto, afferma che l’attività prevalente era il corrmercio all’ingrosso di carne, il quale non era soggetto agli studi di settore perché non ancora approvati. Una dichiarazione che quantomeno giunge tardiva, visto che il contribuente poteva non presentare la dichiarazione relativa agli studi di settore, considerato che non erano ancora stati approvati. Se non lo ha fatto è perché l’attività prevalentemente svolta è quella dichiarata, ossia il commercio al dettaglio di carni”.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il contribuente denuncia, sotto il profilo dell’ error in procedendo, la nullità della sentenza per la mancata fissazione dell’udienza per la sospensiva in primo grado e per la mancata pronuncia di fondatezza o infondatezza della medesima (istanza di) sospensiva.
La censura va disattesa, in quanto, care questa Corte ha affermato, nel processo tributario “non viola il diritto di difesa del contribuente il giudice che, senza ritardo, decida il merito della causa senza pronunciarsi sull’istanza di sospensione dell’atto impugnato, in quanto l’art. 47, comma 7, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, prevede che “gli effetti della sospensione cessano alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado”, sicché non è ipotizzabile alcun pregiudizio per la mancata decisione sull’istanza cautelare che, pur se favorevole, sarebbe comunque travolta dalla decisione di merito” (Cass. n. 8510 del 2010).
Il terzo motivo, con il quale si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata acguisizione d’ufficio, ai sensi dell’art. 7, coma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, di documenti decisivi, si chiude con il seguente quesito di diritto: “la mancata acquisizione d’ufficio di documenti decisivi impedisce la pronuncia di una sentenza ragionevolmente motivata”.
Il motivo si rivela in parte inammissibile ed in parte infondato per plurime ragioni: esso è anzitutto privo, per quel che attiene alla denuncia del vizio di motivazione, del “momento di sintesi” prescritto dall’art. 366 bis cod. proc. civ.; quanto all’ulteriore profilo, costituito dalla denuncia di violazione di legge, anche a prescindere dalla circostanza che esso è corredato da un quesito di diritto inidoneo in quanto generico e senza riferimenti alla fattispecie concreta, esso è infondato, atteso che il giudizio di merito è stato introdotto con l’impugnazione di un avviso di accertamento notificato il 20 dicembre 2005, ed il comma 3 dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 è stato abrogato dall’art 3 bis, coma 5, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito nella legge 2 dicembre 2005, n. 248.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 116, 212 e 634 cod. proc. civ., 2710, 2711, 2727, 2709 c.c., 32, 36 e 58 d.lgs. 546/1992, nonché motivazione insufficiente, contraddittoria ed illogica in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.”, concludendo l’illustrazione della censura con il seguente “quesito di diritto”: “la mancata valutazione delle fatture prodotte dal contribuente quale circostanza decisiva ai fini del decidere, laddove la Commissione regionale abbia ritenuto l’indicazione del numero di partita IVA decisivo per consentire di distinguere i soggetti privati dalle aziende, integrano il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.”.
L’illustrazione del quarto motivo, oon il quale si denuncia “violazione e falsa applicazione del corna 4 dell’art. 52 e del comma 2 dell’art. 54, nonché dell’art. 23 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e degli artt. 116 e 212 c.p.c., 2711 c.c., 36 d.lgs. 546/1992, nonché motivazione insufficiente, contraddittoria ed illogica in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.”, si chiude con il seguente quesito di diritto: “Il registro delle fatture confrontato con la dichiarazione dei redditi è prova idonea all’accertamento della effettuazione di vendite a soggetti con partita IVA”.
Con il quinto, con il sesto e con il settimo motivo, con ciascuno dei quali denuncia sia violazione di legge che vizio di motivazione, assume, rispettivamente, che “la mancata indicazione e motivazione da parte dell’Agenzia delle entrate dell’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli determinati con gli studi di settore comporta violazione di legge”; che “le risultanze degli accertamenti degli anni precedenti deve essere oggetto di confronto con la dichiarazione dei redditi contestata”; e che “la mancata motivazione degli avvisi di accertamento per mancanza a) del riferimento ai decreti di approvazione dello studio di settore applicato e le relative note metodologiche, b) dei dati contabili e strutturali utilizzati dalla procedura, c) dei risultati dell’applicazione (i cluster di classificazione, gli indici di incoerenza, il ricavo puntuale e quello minimo), è censurabile in sede di legittimità”.
Gli ultimi due motivi sono inammissibili.
Quanto al settimo, questa Corte ha infatti chiarito come “in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 cod. proc. civ., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento – il quale non è atto processuale, bensì amministrativo, la cui motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso -, è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto atto che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio sulla suddetta congruità esclusivamente in base al ricorso medesimo” (Cass. n. 15867 del 2004, n. 8312 del 2013).
Il sesto motivo si rivela inammissibile alla stregua del disposto dell’art. 366 bis cod. proc. civ., risolvendosi in una mera asserzione, inidonea tanto come memento di sintesi, con riguardo al profilo del vizio di motivazione, quanto come quesito di diritto, con riguardo alla dedotta violazione di legge.
Il secondo, il quarto ed il quinto motivo vanno esaminati congiuntamente, in quanto strettamente legati.
La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, come questa Corte ha affermato, “costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti i ricostruzione per lavorazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito” (Cass. sez. un. 26 dicembre 2009, n. 26635).
Ciò premesso, il Collegio osserva che la decisione impugnata poggia su una doppia ratio decidendi.
Da una parte la inidoneità dei documenti offerti, comprese le fatture, prodotte nel corso del giudizio di appello, che si sostiene recassero il numero di partita IVA degli acquirenti, a provare che l’attività svolta fosse di commercio all’ingrosso (“… la documentazione prodotta è inappropriata e non dimostra affatto… Non basta produrre delle fatture, ma bisogna altresì che esse dimostrino la realtà economica affermata dal contribuente (nel caso specifico il commercio all’ingrosso di carni), e ciò non è avvenuto)”.
Dall’altra, la dichiarazione dello stesso contribuente di svolgere per quel periodo d’imposta l’attività dì commercio al dettaglio di carni fresche, dichiarazione fatta oggetto – alla luce della successiva affermazione dello stesso contribuente di essere incorso in errore -, di un esame particolare, anche sotto il profilo della sua tenuta logica in relazione allo scostamento rilevato tra il reddito dichiarato e gli elementi risultanti dallo studio di settore indicato, quello del commercio al dettaglio, e al non assoggettamento del commercio all’ingrosso, per quel periodo d’imposta, agli studi di settore, non ancora approvati per quel comparto merceologico.
Rispetto a tali due fondamenti della decisione, cui ha condotto una valutazione del materiale probatorio accurata e immune da vizi, il contribuente non articola adeguate censure, né individua motivi di non conformità della sentenza impugnata ai principi elaborati da questa Corte, cui si è fatto cenno supra, in tema di accertamenti standardizzati.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il contribuente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in euro 3.000 oltre alle spese prenotate a debito.
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