Corte di Cassazione sentenza n. 27204 del 16 dicembre 2011
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – SANZIONI DISCIPLINARI – CODICE DISCIPLINARE – PREVENTIVA PUBBLICITA’ – OBBLIGATORIETA’ – CONDIZIONI
massima
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La preventiva pubblicità del codice disciplinare, di cui al primo comma dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300, è richiesta solo quando il licenziamento venga intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo previste dalla normativa collettiva o da quella validamente predisposta dal datore di lavoro, non anche, pertanto, ove faccia riferimento a situazioni giustificative del recesso in termini direttamente contemplati dalla legge.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di Appello di Genova, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di D.G.A., proposta nei confronti dell’A.d.T., avente ad oggetto la declaratoria d’illegittimità dei provvedimenti, emessi in data 17 giugno 2005, con i quali l’Amministrazione, di cui era dipendente, aveva rispettivamente dichiarato di recedere dal contratto di lavoro per aver il D.G. svolto attività libero professionale di geometra ed irrogata la sanzione disciplinare del licenziamento per aver il D.G. arbitrariamente variato la rendita catastale di un immobile agevolando dei privati per ottenere in cambio un profitto personale a danni dell’ erario.
La predetta Corte riteneva, innanzitutto, infondata la questione della mancata affissione del codice disciplinare relativamente alla causale del recesso per esercizio di attività libero professionale e tanto sul presupposto che il relativo divieto derivava direttamente dall’ordinamento (art. 53 dlgs n. 165 del 2001) e dal rapporto d’impiego pubblico. Accertava, poi, la Corte del merito che la riattivazione del procedimento disciplinare, sospeso in attesa della definizione del procedimento penale, non conteneva nuove e diverse contestazioni di fatto, ma una mera puntualizzazione della contestazione già effettuata in data 28 luglio 2003. La Corte del merito, inoltre, riteneva che la lettura dell’atto di contestazione confermava, sotto il profilo motivazionale, l’asserita specificità degli addebiti non rilevando il richiamo alla legge 241 del 1990 trattandosi di atto di autonomia privata. Né la Corte territoriale reputava tardiva la contestazione relativa all’esercizio dell’attività libero professionale in considerazione della circostanza che l’Amministrazione nel 2005 aveva proceduto, non ad una nuova contestazione, ma alla riattivazione del procedimento disciplinare che era stato sospeso nel 2003. Dopo aver accertato, in base agli elementi istruttori, la fondatezza dei vari addebiti, la predetta Corte considerava pienamente giustificato il licenziamento attesa la gravità della condotta, come qualificata dalla durata del tempo della condotta e dalla molteplicità degli incarichi professionali assunti.
Avverso questa sentenza il D.G. ricorre in cassazione sulla base di dodici censure, precisate da memoria.
Resiste con controricorso la parte intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con la prima censura il ricorrente, deducendo violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, pone il seguente quesito di diritto: “se la mancata affissione del codice disciplinare impedisca la necessaria individuazione e specificità dei comportamenti suscettibili d’integrare un illecito disciplinare”.
La censura è infondata.
Invero è giurisprudenza consolidata che la preventiva pubblicità del codice disciplinare, di cui al primo comma del citato art. 7 della legge n. 300 del 1970, è richiesta solo quando il licenziamento venga intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo previste dalla normativa collettiva o da quella validamente predisposta dal datore di lavoro, non anche, pertanto, ove faccia riferimento a situazioni giustificative del recesso in termini direttamente contemplati dalla legge (Cfr. per tutte ex plurimus Cass. S.U. 1° febbraio 1998 n. 935) .
Orbene la Corte del merito ha rilevato che gli addebiti mossi al dipendente costituiscono violazione di divieti posti dall’ordinamento (art. 53 dlgs n. 165 del 2001) e dal rapporto d’impiego pubblico. É quindi corretta sotto il profilo denunciato la sentenza impugnata.
Con la seconda critica il ricorrente, allegando violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 in relazione al principio d’immodificabilità della contestazione e violazione dell’art. 25 del CCNL Ministeri e dell’ art. 68 CCNL Agenzie fiscali, pone il seguente quesito di diritto: “se le successive modificazioni e integrazioni delle contestazioni disciplinari violino il principio di unitarietà ed immediatezza del procedimento disciplinare con conseguente violazione del diritto di difesa del lavoratore”.
La critica è infondata.
Invero il ricorrente a fronte dell’ accertamento condotto dalla Corte del merito, in base al quale la riattivazione del procedimento disciplinare non contiene nuove e diverse contestazioni di fatto, per correttamente investire questa Corte del relativo sindacato di legittimità avrebbe dovuto precisare, in adempimento del principio di autosufficienza, il contenuto dell’originaria contestazione e di quella successiva onde consentire a questa Corte la valutazione dell’osservanza del principio d’immodificabilità della contestazione. Non avendo il ricorrente fornito alcuna precisazione al riguardo è conseguenzialmente impedito qualsiasi sindacato di legittimità in proposito.
Con la terza censura il ricorrente prospetta omessa motivazione in punto di tardività ed illegittima estensione della contestazione disciplinare.
Con il quarto motivo il ricorrente allega omessa motivazione in ordine alla censura per violazione dei limiti di efficacia della sentenza penale e violazione degli artt. 129, 529 e 531 c.p.p.
Con la quinta critica il ricorrente denuncia omessa motivazione sull’eccepita violazione dell’art. 2 della legge 604/1966 e dell’art. 1375 c.c.
Con la sesta censura il ricorrente deduce n insufficiente e contraddittoria motivazione circa la mancata valutazione delle prove.
Con il settimo motivo il ricorrente assume omessa motivazione sulla violazione della proporzionalità tra addebito e sanzione.
Le censure sono inammissibili per violazione dell’art. 366 bis c.p.c.
Infatti non può ritenersi soddisfi la prescrizione di cui all’art. 366 bis c.p.c. la mera indicazione del fatto su cui si appunta la critica concernente il vizio di motivazione, atteso che oltre al mero fatto il ricorrente deve indicare, in una sintesi riassuntiva simile al quesito di diritto, le ragioni che rendono, in caso d’insufficienza, inidonea la motivazione a giustificare la decisione, in caso di omissione, decisivo il difetto di motivazione e in caso di contraddittorietà, non coerente la motivazione (Cfr. Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556, Cass. S.U. 18 giugno 2008 n. 1652 8 e Cass. S.U. 1° ottobre 2007 n. 2063).
Orbene nella specie manca in ciascun dei motivi in esame la predetta sintesi riassuntiva.
A tanto va aggiunto che in ordine ai punti in relazione ai quali si assume l’omessa motivazione la Corte di Appello, contrariamente a quanto prospettato nelle rispettive censure, fornisce una specifica argomentazione, di guisa che andavano specificate, in una sintesi riassuntiva, le ragioni per le quali la relativa motivazione del giudice del merito era inadeguata non essendo sufficiente l’allegazione di una omessa motivazione.
Lo stesso dicasi per la prospetta insufficiente motivazione in ordine alla valutazione delle prove.
Con l’ottavo motivo il ricorrente, denunciando violazione del principio di unicità del procedimento disciplinare e tardività della contestazione, nonché violazione dell’art. 24 e dell’art. 64 del CCNL Ministeri e 66 Agenzie fiscali, pone il seguente quesito di diritto: “se la tardività della contestazione violi il principio della unitarietà del procedimento disciplinare al fine di assicurare il corretto esercizio del diritto di difesa”.
La censura inammissibile ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.
La giurisprudenza di questa Corte, infatti, ha chiarito che il quesito di diritto, previsto dalla richiamata norma di rito, ha lo scopo precipuo di porre in condizione la Cassazione, sulla base della lettura del solo quesito, di valutare immediatamente il fondamento della dedotta violazione (Cass. 8 marzo 2007 n.5353) ed a tal fine è imposto al ricorrente di indicare, nel quesito, anche l’errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759), in modo tale che dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in maniera univoca l’accoglimento od il rigetto del ricorso (Cass. S.U. 28 settembre 2007 n. 20360).
In tale prospettiva questa Corte ha affermato che, a norma dell’art. 366 bis c.p.c., non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, (Cass. S.U. 11 marzo 2008 n. 6420); ovvero quando, essendo la formulazione generica e limitata alla riproduzione del contenuto del precetto di legge, è inidoneo ad assumere qualsiasi rilevanza ai fini della decisione del corrispondente motivo, mentre la norma impone al ricorrente di indicare nel quesito l’errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass. S.U. 9 luglio 2008 n. 18759 cit.).
Pertanto questa Corte ha rimarcato che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis epe deve comprendere l’indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo con la conseguenza che la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile (Cass. SU 30 settembre 2008 n. 24339 e Cass. 19 febbraio 2009 n. 4044).
Nella specie rileva la Corte che, relativamente alla dedotta violazione di legge, la formulazione del relativo quesito di diritto o del principio di cui si chiede l’applicazione, prescinde del tutto dall’indicazione, come si desume dalla su riportata trascrizione dello stesso, sia della diversa regola iuris posta a base della sentenza impugnata, sia di quella di cui si chiede l’affermazione, sicché non è consentito a questa Corte di valutare, sulla base del solo quesito, se dall’accoglimento del motivo possa o meno derivare l’annullamento della sentenza impugnata.
L’affermazione di un principio di diritto da parte di questa Corte, del resto, non è fine a se stessa, ma è necessariamente strumentale, pur nella funzione nomofilattica, alla idoneità o meno del principio da asserire a determinare la cassazione della sentenza impugnata.
Con il nono motivo il ricorrente, denunciando violazione della legge n. 662 del 1996 nonché violazione dell’art. 25 e dell’art. 64 del CCNL Ministeri e 67 Agenzie fiscali, formula il seguente quesito di diritto:”se sia consentita l’applicazione della norma collettiva pur in assenza di una specifica previsione con applicazione di una sanzione più affittiva rispetto a quella prevista per un comportamento più grave”.
Anche tale censura, per come articolato il quesito di diritto, è inammissibile per genericità del quesito.
Valgono in proposito le osservazioni svolte relativamente all’esame del precedente motivo.
Con il decimo, undicesimo e dodicesimo motivo di censura il ricorrente prospetta vizio di motivazione in ordine rispettivamente: alla mancanza dei requisiti della professionalità, continuità e prevalenza ai fini della presunta incompatibilità, alla ritenuta applicazione dell’art. 67 CCNL ed alla sussistenza dei fatti contestati.
Tutte le richiamate censure sono prive della relativa sintesi riassuntiva e come tali non sono conformi alla prescrizione di cui all’art. 366 bis c.p.c., nel senso innanzi indicato.
Sulla base delle esposte considerazioni, pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in E. 50,00 per esborsi ed E. 3.000,00 (tremila/00) per onorario oltre spese generali, IVA e CPA.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 4 ottobre 2011.
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