Corte di Cassazione sentenza n. 41991 del 25 ottobre 2012
SICUREZZA SUL LAVORO – INFORTUNIO MORTALE IL PRIMO GIORNO DI LAVORO – RESPONSABILITA’ DI UN DATORE DI LAVORO – CADUTA DAL TETTO
massima
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Vi è la responsabilità del datore di lavoro per infortunio mortale di un operaio recatosi in cantiere per il suo primo giorno di lavoro: la vittima cadeva al suolo da un’altezza di circa 4 metri, riportando gravi lesioni, per il cedimento di un pannello in vetroresina.
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FATTO
1. La Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza resa dal Tribunale, ha confermato la responsabilità di (Omissis) per il reato di cui all’art. 590 c.p. ed esclusa la responsabilità per la contravvenzione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 164 del 1956, art. 70 ha rideterminato la pena in mesi 4 di reclusione. L’operaio (Omissis), recatosi in cantiere per il suo primo giorno di lavoro alle dipendenze del (Omissis), cadeva al suolo da un’altezza di circa 4 metri, riportando gravi lesioni, per il cedimento di un pannello in vetroresina che non aveva retto il peso.
2. Ha presentato ricorso per cassazione il difensore dell’imputato. Con un primo motivo deduce violazione del divieto di reformatio in peius; rileva che il giudice di primo grado aveva irrogato al ricorrente la pena di mesi 5 di reclusione ed euro 500 di multa per i due reati ritenuti in continuazione (art. 590 c.p. e Decreto del Presidente della Repubblica n. 164 del 1956, art. 70) e cioè una pena illegale atteso che il reato di cui all’art. 590 è punito con pena alternativa e sostiene che la Corte di appello, pur riconoscendo la natura illegale di tale pena e rideterminandola in mesi quattro di reclusione, ha violato il disposto di cui all’art. 597 c.p.p., comma 3, a fronte della oggettiva difficoltà di stabilire se il giudice di primo grado aveva voluto applicare la pena detentiva o quella pecuniaria. Con un secondo motivo sostiene che il lavoratore infortunato non avrebbe dovuto affatto trovarsi sopra il tetto perchè non era compito suo effettuare quella riparazione, che peraltro non necessitava di salire sul tetto e certamente non sul punto in cui si trovava il (Omissis); si è trattato di una iniziativa autonoma del dipendente, assunta quando ancora non era in corso la prestazione lavorativa, avendo il (Omissis) detto al dipendente di aspettarlo, come tale interruttiva del nesso di causalità.
DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile perché fondato su motivi manifestamente infondati e non consentiti.
La Corte di appello, in accoglimento dei motivi di impugnazione proposti, ha riconosciuto che la pena per il reato di cui all’art. 590 c.p. è alternativa, di tal che non poteva applicarsi la pena detentiva unitamente a quella pecuniaria; ha poi ritenuto che non vi era stata una autonoma contestazione della contravvenzione di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 164 del 1956, art. 70 disposizione che era stata richiamata solo nel corpo del capo di imputazione ex art. 590 c.p., per individuare lo specifico profilo di colpa violato; ed ha di conseguenza escluso l’aumento di pena inflitto a tale titolo, rideterminando la pena in mesi 4 di reclusione. Non è certo violato il divieto di reformatio in peius atteso che la pena risulta sicuramente più lieve (di un mese) di quella inflitta in primo grado.
Quanto alla responsabilità dell’imputato, le argomentazioni svolte con il ricorso sono inammissibili in quanto prospettano ancora una volta una diversa ricostruzione dei fatti, nel senso cioè che il (Omissis), nel salire sulla tettoia, avrebbe assunto una autonoma iniziativa. Ma la corte di appello, cui analoga censura già era stata prospettata, ha ribadito che invece l’incidente si è verificato mentre l’operaio era intento a svolgere i lavori di impermeabilizzazione di cui era stata incaricata la ditta del (Omissis). E, come è noto (sez. un. 30.4.1997n.6042 rv 207944), l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali.
2.Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del procedimento nonché al versamento di 1.000,00 euro in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 1.000,00 euro in favore della cassa delle ammende.
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