Corte di Cassazione sentenza n. 5655 del 7 marzo 2013
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – SANZIONI DISCIPLINARI – PREDISPOSIZIONE ED AFFISSIONE DEL CODICE DISCIPLINARE – NECESSITÀ – LIMITI – SANZIONI RELATIVE A COMPORTAMENTI INTEGRANTI VIOLAZIONI DEL MINIMO ETICO O ILLECITO PENALE – ESCLUSIONE – CARATTERE CONSERVATIVO OD ESPULSIVO DELLA SANZIONE – IRRILEVANZA
massima
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Per tutte le sanzioni disciplinari, conservative ed espulsive, nei casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessaria la affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Con ricorso al Giudice del lavoro di Roma G.C., premesso di avere svolto mansioni di addetto alle vendite di generi alimentari in un esercizio commerciale appartenente a Supermercati Alimentari S. srl, esponeva di essere stato licenziato in data 4.04.01 per giusta causa, in quanto accusato aver venduto ad un avventore merce a prezzo inferiore a quello fissato dall’Azienda, e, contestando la legittimità del recesso, ne chiedeva l’annullamento.
2. Rigettata la domanda e proposto appello dal G.C., la Corte d’appello di Roma con sentenza del 2.04.07 rigettava l’impugnazione, ritenendo raggiunta la prova dei fatti contestati sulla base delle dichiarazioni rese dai testi escussi e considerando proporzionata l’entità della sanzione irrogata, posto che il comportamento posto in atto si era rivelato tale da incrinare il legame fiduciario con il datore.
3.- Propone ricorso per cassazione G.C., risponde con controricorso S. s.r.l. Il Collegio ha disposto la stesura di motivazione semplificata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
4.- I motivi dedotti dal ricorrente posso riassumersi come segue.
4.1.- Omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c.
Sostiene il ricorrente di aver dedotto fin dal ricorso introduttivo la violazione dell’art. 2 della l. 15.07.66 n. 604 per la mancata risposta del datore alla richiesta di comunicazione dei motivi del licenziamento e di non aver ottenuto risposta, né in primo grado né dal giudice d’appello, nonostante la questione fosse stata riproposta con l’atto di impugnazione. Il giudice, invece, si sarebbe limitato ad esaminare solo il profilo della fondatezza sostanziale dell’incolpazione ascritta e non anche a rispondere alla detta eccezione.
4.2.- Carenza di motivazione in punto di valutazione delle prove, nonostante con l’appello fosse stata posta in rilievo la contraddittorietà delle testimonianze rese in istruttoria. In particolare è segnalato il rilievo dato dalla motivazione alla testimonianza del teste T. ed alla circostanza dell’alterazione dello scontrino fiscale rilasciato all’acquirente a sostegno dell’effettiva attuazione del comportamento ascritto, nonostante dall’esame delle dichiarazioni del teste e dall’esame del documento fiscale emerga una ricostruzione dei fatti che porta, invece, ad escludere il fondamento della tesi accusatrice.
4.3.- Ulteriore carenza motivazionale è dedotta a proposito dell’accertamento compiuto circa l’effettiva affissione del codice disciplinare, su cui le dichiarazioni dei testi sono tra di loro divergenti.
4.4.- Le carenze motivazionali di cui ai punti che precedono sono dedotte anche sotto il profilo della violazione di legge, in quanto in forza degli artt. 115-116 c.p.c. e 2697 c.c. il giudice di appello avrebbe dovuto prendere in considerazione il reale contenuto delle dichiarazioni testimoniali, rilevando all’esito che il datore non aveva ottemperato all’onere probatorio a lui facente carico.
4.5.- Violazione degli artt. 1450, 2106 e 2119 c.c., degli artt. 1, 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, nonché dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori e carenza di motivazione, essendosi il giudice sottratto ad una coerente valutazione della proporzione tra il comportamento ascritto e la sanzione irrogata, in particolare non tenendo conto della particolare tenuità del danno subito dal datore, senza tener conto di tutta una serie di requisiti soggettivi del dipendente (ivi compresa la buona fede) e delle circostanze materiali in cui i fatti erano intervenuti.
5.- Il ricorso è infondato.
6.- Nel dedurre il vizio di omesso esame (primo motivo) parte ricorrente segnala di aver “denunziato” in primo e secondo grado la violazione dell’art. 2 della legge n. 604, in quanto il datore, quantunque richiestone, non avrebbe indicato i motivi del licenziamento. Dato che il giudice di appello, nel riassumere i motivi di impugnazione sottoposti al suo esame, non indica uno specifico mezzo concernente la violazione di detto art. 2, sarebbe stato oggi onere del ricorrente indicare in che termini la questione fu sottoposta al giudice e, in particolare, se essa fu fatta oggetto di un motivo specifico, ai sensi degli artt. 342 e 434 c.p.c. Tale carenza espositiva comporta l’inammissibilità del motivo.
7.- Con il secondo motivo parte ricorrente deduce quelle che, a suo avviso, sono le incongruenze motivazionali in cui sarebbe incorso il giudice nella valutazione delle dichiarazioni testimoniali e propone una ricostruzione dei fatti, basata su considerazioni di merito concernenti la testimonianza di un teste (tale T.) e nella confutazione delle altre testimonianze. Tale ricostruzione, però, è del tutto soggettiva, in quanto non accompagnata né da puntuale riscontro delle verbalizzazioni, né dal raffronto con quanto testualmente dichiarato dagli altri testimoni e considerato dal giudice di appello. Inoltre, ove pure si prendessero in considerazione le denunziate (pretese) incongruenze, il risultato non cambierebbe in quanto le circostanze che si assumono non correttamente valutate sono ininfluenti al fine della logicità e congruità dell’accertamento del comportamento del G.C. effettuato dal giudice, che rimane pur sempre ed in ogni caso quello ascritto al dipendente in sede di contestazione disciplinare, ovvero la vendita di merce a prezzo inferiore a quello indicato dall’azienda.
8.- Il terzo motivo, concernente l’insufficienza dell’accertamento circa l’affissione del codice disciplinare, è inconferente. La giurisprudenza di questa Corte ritiene, infatti, che per tutte le sanzioni disciplinari, conservative ed espulsive, nei casi in cui il comportamento sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al ed. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessaria l’affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, a prescindere dalla predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta (v. da ultimo Cass. 27.01.11 n. 1926). In forza di questo principio e dell’accertamento compiuto dal giudice di merito (che ha posto in evidenza la gravità della violazione, essendo il G.C. preposto a mansioni che comportavano, tra l’altro, la contabilizzazione delle vendite), il motivo deve ritenersi infondato.
9.- Il rigetto dei motivi secondo e terzo comporta l’assorbimento del quarto motivo (n. 4.4), il quale riprende le stesse censure dei due precedenti sotto il profilo della violazione dei principi enunziati dagli artt. 115 e 116 in materia di disponibilità e valutazione delle prove.
10.- Quanto al quinto motivo, con cui si contesta il giudizio di proporzionalità tra comportamento e sanzione irrogato, deve rilevarsi che la giurisprudenza di legittimità ritiene che in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione è rimesso al giudice di merito e si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al rapporto posto in essere, ove l’inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della non scarsa importanza di cui all’art. 1455 ce, sicché l’irrogazione della sanzione espulsiva risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (v. da ultimo Cass. 22.03.10 n. 6848).
Nel caso di specie, il giudice di appello, accertato il comportamento del dipendente, ne ha posto in risalto la gravità e la idoneità a ledere il contenuto fiduciario che governa il rapporto di lavoro, ritenendo congruamente irrogata la sanzione espulsiva. Trattandosi di accertamento di merito logicamente motivato e coerente con le valutazioni compiute dallo stesso giudice a proposito del carattere infedele del comportamento tenuto dal dipendente, il giudizio di proporzionalità deve ritenersi correttamente articolato.
11.- In conclusione, essendo tutti i motivi infondati, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alle spese del giudizio di legittimità. I compensi professionali vanno liquidati in euro 3.000 sulla base del d.m. 20.07.12 n. 140, tab. A-Avvocati, con riferimento alle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (studio, introduzione e decisione) e allo scaglione del valore indeterminato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000 (tremila) per compensi ed in euro 40 (quaranta) per esborsi, oltre Iva e Cpa.
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