Corte di Cassazione sentenza n. 5666 del 7 marzo 2013
LAVORO – LAVORO SUBORDINATO – ESTINZIONE DEL RAPPORTO – LICENZIAMENTO INDIVIDUALE – PER GIUSTA CAUSA – GRAVITÀ DELL’INADEMPIMENTO – VALUTAZIONE – CRITERI – INDIVIDUAZIONE
massima
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In tema di licenziamento per giusta causa, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. La gravità dell’inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 cod. civ., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di Appello di Torino, con sentenza del 27 gennaio 2009, ha confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui era stato dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla F.G.A. S.p.A. a C.G. e, in accoglimento dell’appello incidentale proposto dal lavoratore, ha condannato l’Azienda a corrispondergli, anziché quindici mensilità come disposto dal Tribunale, le retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegra nonché al pagamento della somma di euro 10.000,00 a titolo di danni conseguenti alla dequalificazione, il tutto con gli accessori di legge
Ha osservato la Corte territoriale che la sanzione espulsiva era prevista dal contratto collettivo “per grave insubordinazione” o per altri gravi comportamenti del lavoratore, quali furti, danneggiamenti, rissa ed altro; che l’episodio che aveva dato luogo al licenziamento null’altro integrava che un diverbio tra dipendenti, mai trasceso nello scontro fisico e nemmeno nell’ingiuria o nella minaccia; che il lavoratore aveva tenuto, come correttamente evidenziato dal primo giudice, un comportamento poco urbano, composto e controllato, non idoneo a configurare una giusta causa di licenziamento; che pertanto la sanzione espulsiva non era proporzionata all’entità dei fatti; che non apparivano giustificati la mancata condanna del datore di lavoro, ex art. 18 St. lav., al pagamento delle retribuzioni dalla data del recesso siano a quella della reintegra nonché il mancato riconoscimento del danno da dequalificazione, tenuto conto che il lavoratore era stato più volte spostato da un reparto all’altro con l’attribuzione di mansioni non confacenti al suo passato lavorativo e, per ultimo, in un settore dove era rimasto sostanzialmente nella quasi totale inattività.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la F.G.A.. Il lavoratore ha resistito con controricorso. L’Azienda ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso è articolato in tre motivi, cui fanno seguito i relativi quesiti di diritto ex art. 366 bis cp.c, allora in vigore.
2. Con il primo motivo la ricorrente denunzia violazione dell’art. 116 c.p.c. nonché omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Deduce che la Corte territoriale, nel ritenere illegittimo il licenziamento perché non sorretto da giusta causa, ha “trascurato completamente di enunciare le ragioni del proprio convincimento in merito alla attendibilità dei testimoni e di esprimere il percorso logico in virtù del quale sarebbe stata attribuita la preferenza ad alcune testimonianze rispetto ad altre”.
In particolare la sentenza impugnata non ha tenuto conto della circostanza decisiva che il lavoratore, come riferito da taluni testi, ha colpito con alcune spallate il sorvegliante, circostanza che, ove adeguatamente valutata, avrebbe condotto ad una decisione diversa.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rilevando che la sentenza impugnata presenta gravi lacune nell’operazione valutativa della concreta ricorrenza degli elementi integranti il parametro normativo della giusta causa di licenziamento.
In particolare non è stato considerato l’atteggiamento provocatorio, ostile ed ingiurioso del lavoratore nonché il rifiuto opposto dallo stesso alla sua identificazione da parte dei sorveglianti. Tale condotta, tenuto conto dell’elemento psicologico da cui era sorretta, è idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro deve riporre nel proprio dipendente, a nulla rilevando che l’episodio non sia degenerato in uno scontro fisico.
Parimenti, nessuna menzione è stata fatta dalla Corte d’appello circa il nutrito curriculum disciplinare del lavoratore, costellato da plurimi e ravvicinati provvedimenti conservativi, idoneo a rivelare un atteggiamento incline alla ostilità nei confronti dell’Azienda, anche al di fuori della formale contestazione della recidiva.
4. Con il terzo motivo la ricorrente, denunziando violazione dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 18 St. lav., nonché omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dal notevole ritardo con il quale, dopo il licenziamento, è stata proposta l’azione giudiziale, deduce che la Corte territoriale, accogliendo l’appello incidentale del lavoratore, ha errato nel riconoscergli, a titolo risarcitorio, le retribuzioni globali di fatto a decorrere dalla data del licenziamento sino a quella della reintegra, in luogo delle quindici mensilità riconosciutegli dal primo giudice.
Ed infatti, posto che, a norma dell’art. 1227 c.c., se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate, nella specie, essendo stato il ricorso introduttivo depositato dopo circa due anni dal licenziamento, avvenuto nel novembre 2003, e cioè con ingiustificato e colpevole ritardo, tale condotta avrebbe dovuto indurre la Corte territoriale a ritenere congruo il risarcimento liquidato dal primo giudice.
5. I primi due motivi, che per ragioni di connessione vanno trattati congiuntamente sono infondati.
É principio consolidato di questa Corte che in tema di licenziamento per giusta causa, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza (cfr., fra le altre, Cass. 22 giugno 2009 n. 14586; Cass. 26 luglio 2010 n. 17514; Cass. 13 febbraio 2012 n. 2013).
La gravità dell’inadempimento deve essere valutata nel rispetto della regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte (Cass. 10 dicembre 2007 n. 25743).
Inoltre va assegnato rilievo all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo.
Il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria (Cass. 25 maggio 2012 n. 8293; Cass. 7 aprile 2011 n. 7948; Cass. 15 novembre 2006 n. 24349).
É stato ancora precisato da questa Corte che il controllo sulla congruità e sufficienza della motivazione, consentito dall’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., non deve risolversi in nuovo giudizio di merito attraverso una autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa, risultando ciò estraneo alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (cfr. Cass. 26 luglio 2010 n. 17514; Cass. 23 febbraio 2009 n. 4369; Cass. 10 dicembre 2007 n. 25743; Cass. 7 giugno 2005 n. 11789).
Spetta, infatti, al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti. Conseguentemente per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto il mancato esame di elementi probatori costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre circostanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (cfr., tra le altre, Cass. 15355/04; Cass. 9368/06; Cass. 9245/07; Cass. 14752/07).
Nella specie la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, ha compiutamente valutato le risultanze processuali, esaminando altresì in particolare il “fatto controverso”, costituito, secondo la ricorrente, dall’avere “il sig. C. colpito il sorvegliante con alcune spallate”.
Al riguardo, dopo avere affermato che l’episodio che ha dato luogo al licenziamento era stato ben ricostruito dal primo giudice, a seguito di un’accurata istruttoria, la Corte d’appello ha precisato che le dichiarazioni del teste che aveva riferito di aver visto il C.G. dare “due o tre spallate al sig. S.” mentre i due camminavano affiancati all’esterno dell’officina, erano state smentite da tutti gli altri testi. Da ciò è pervenuta alla conclusione che in definitiva si era trattato di un “diverbio tra dipendenti, mai trasceso nello scontro fisico, e nemmeno nell’ingiuria o nella minaccia”.
Ha quindi confermato sul punto la sentenza di primo grado che, definendo l’episodio come espressione di un comportamento poco urbano, composto e controllato, ha ritenuto la sanzione espulsiva non proporzionata alle reale entità dei fatti.
Quanto, poi, ai precedenti procedimenti disciplinari in cui era incorso il lavoratore, cui avevano fatto seguito sanzioni conservative, la sentenza impugnata ha posto in evidenza che esse, a “fronte della pochezza dell’episodio in sé che aveva dato luogo al licenziamento, non erano idonee ad incidere sulla illegittimità dello stesso.
Trattasi di motivazione congrua, sufficiente e non contraddittoria, conseguente ad una corretta valutazione delle risultanze processuali, non censurabile in questa sede di legittimità, onde i rilievi formulati dalla ricorrente con i motivi in esame sono inidonei ad inficiare la decisione impugnata.
6. Anche il terzo motivo è infondato.
La Corte d’appello ha ritenuto “ragionevole” il ritardo con il quale è stata promossa l’azione giudiziale, sia in considerazione della situazione personale del ricorrente (il consulente tecnico d’ufficio ha accertato la sussistenza di una patologia di natura neuropsichiatrica (disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso di entità lieve-moderata, con un periodo di invalidità parziale pari al 25%, dal novembre 2003 al settembre 2006), che per la perdita di tempo conseguente all’esperimento del tentativo di conciliazione e alla richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
Tutto ciò, ad avviso della Corte, escludeva che potesse essere considerata colposa la condotta del lavoratore ai fini della limitazione del risarcimento dei danni ex art. 1227 c.c..
Trattasi di un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, che non è sindacabile in questa sede di legittimità, in quanto sorretto da logica ed adeguata motivazione.
Al riguardo deve ricordarsi che il ricorso per cassazione non può essere rivolto all’esame dei fatti che hanno formato oggetto di accertamento e di apprezzamento da parte del giudice del merito, dovendo la Corte limitarsi al solo controllo di congruità, adeguatezza e logicità della motivazione che sorregge la decisione. Nella specie sussistono tali elementi, avendo il giudice d’appello dato esaurientemente conto delle ragioni del proprio convincimento, senza incorrere nel vizio di motivazione denunziato.
7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato, previa condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 50,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
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