Corte di Cassazione sentenza n. 7993 del 21 maggio 2012
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – OBBLIGO DI FEDELTA’ – PRODUZIONE IN GIUDIZIO DI FOTOCOPIE DI DOCUMENTI AZIENDALI
massima
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Violazione dell’obbligo di fedeltà – Configurabilità – Esclusione – Fondamento
Non integra violazione dell’obbligo di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c., la produzione in giudizio di copie di atti ai quali il dipendente abbia avuto accesso, giacché tale produzione, avendo ad oggetto copie – e non originali -, da un lato, non costituisce sottrazione di documenti in senso proprio e, dall’altro, essendo finalizzata all’esercizio del diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, ed esclusivamente a tale esercizio, con le modalità prescritte dal codice di rito, non comporta divulgazione del contenuto dei documenti ed assolve ad una esigenza prevalente su quella di riservatezza propria del datore di lavoro.
Idoneità a configurare una divulgazione di documentazione riservata – Esclusione – Diritto di difesa in giudizio – Prevalenza – Conseguenze in ordine alla legittimità della produzione giudiziale
Il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali, che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c., tenuto conto che l’applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea ad impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di riservatezza dell’azienda; ne consegue la legittimità della produzione in giudizio dei detti atti trattandosi di prove lecite.
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con nota dell’8/4/2002 la YM SpA contestava al proprio dipendente O.A. addebiti disciplinari, riconducibili al mancato svolgimento, da parte sua, di attività di propria pertinenza, in violazione delle richieste di volta in volta fatte dal coordinatore, P.R. nel dichiarato intento di intralciare, se non addirittura di boicottare, le attività di ricerca e sviluppo, ritenute fondamentali e alle quali era addetto in via esclusiva.
Disattese le giustificazioni fornite dal dipendente con tale nota, l’azienda con lettera del 17.04.2002 gli applicava il provvedimento disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per giorni due.
Con successiva nota del 14.06.2002 la YM SpA contestava all’ O.A. ulteriori addebiti disciplinari, di tenore non dissimile.
Ricevute (e non accolte) le giustificazioni del dipendente, la parte datoriale con nota del 21.06.2002 gli applicava il provvedimento disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione di giorni tre, precisando che i “comportamenti tenuti ben avrebbero legittimato l’adozione del più grave provvedimento di natura risolutiva”.
Con ulteriore nota del 27.06.2002 la YM SpA inviava all’ O.A. altra contestazione di addebito, con cui, dopo avere puntualizzato di avere, con nota del 14/06/2002, contestato alcuni addebiti di natura disciplinare riconducibili nella fattispecie dello scarso rendimento, asserviva che le giustificazioni su detti addebiti erano avvenute con nota del 19.06.2002, durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia, aggiungendo che, con il relativo plico, l’(OMISSIS) aveva contemporaneamente inviato copia di “tutte le comunicazioni scritte riguardanti le attività di ricerca e sviluppo intercorse” nei 60 giorni che separavano la prima e la seconda contestazione di addebiti costituite da ben 37 pagine.
Pertanto, sul presupposto che trattavasi di documenti aziendali di contenuto quanto mai riservato riguardanti una delle fondamentali attività dell’azienda, cioè quella di ricerca e sviluppo, la società contestava l’addebito di trafugamento di documenti riservati dell’azienda stessa, oltre alla recidiva per le mancanze addebitate con le note dell’8/4/2002 e del 14/06/2002 e sanzionate con i provvedimenti di sospensione del 17.04.2002 e del 21.06.2002.
Ricevute (e non accolte) le giustificazioni del dipendente, la parte datoriale, con nota del 9.7.2002 gli intimava il licenziamento per giusta causa.
Le cennate sanzioni disciplinari conservative ed il conseguente licenziamento costituivano peraltro oggetto di impugnativa da parte dell’ O.A., con ricorso depositato il 10.3.2003 avanti al Giudice del lavoro presso il Tribunale di Ascoli Piceno, che, nel contraddittorio con la società, con sentenza in data 25.10 -5.12.2005, annullava il licenziamento impugnato e condannava la parte datoriale all’immediata reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro, oltre al pagamento di un’indennità mensile di euro 2.059,17 al lordo, dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione, e con obbligo di regolarizzazione assistenziale e previdenziale, rigettando ogni diversa domanda. Ciò in quanto, sulla scorta delle risultanze testimoniali, per un verso, doveva ritenersi la legittimità delle sanzioni disciplinari conservative, mentre, per altro verso, non poteva ritenersi che si fosse verificato un vero e proprio trafugamento della documentazione aziendale, ma piuttosto il suo utilizzo ai fini di difesa nel procedimento disciplinare, sicché’la sanzione espulsiva appariva sproporzionata rispetto alla gravità dell’addebito.
Avverso tale decisione proponeva appello la S.p.A. Y.M., con ricorso depositato il 5.1.2006, nel quale insisteva per il rigetto della domanda avversaria, con richiesta di restituzione di quanto versato in ottemperanza alla sentenza di primo grado.
L’appellato si costituiva, resistendo al gravame e proponendo appello incidentale al fine di ottenere la declaratoria di nullità, per genericità delle relative contestazioni, delle sanzioni di sospensione di due e di tre giorni infittegli, nell’ordine, il 17.4 ed il 21.6.2002 o, in subordine, declaratoria di illegittimità delle medesime per violazione del principio di gradualità, la condanna della controparte al ristoro del danno biologico da lui sofferto, da liquidarsi in via equitativa, non disposta dal primo Giudice, ed, infine, la condanna della controparte al corretto ristoro del danno conseguente al licenziamento, che il Tribunale aveva immotivatamente indicato in euro 2.059,17 mensili, inferiori alla retribuzione globale di fatto voluta dalla legge.
Con sentenza del 14-19 marzo 2008, l’adita Corte d’appello di Roma, ritenuto illegittimo il licenziamento intimato dalla Y.M. SpA il 9.07.2002 sulla base dei comportamenti in precedenza contestati con nota del 27.06.2002 e respinte le critiche e le istanze istruttorie avanzate con il ricorso in appello del 5.01.2006, rigettava il gravame proposto dalla Y.M. SpA e, in accoglimento dell’appello incidentale spiegato dall’ O.A., annullava anche le sanzioni della sospensione di giorni 2 e giorni 3 inflitte al predetto e condannava la società a corrispondergli la retribuzione dovuta per i 5 giorni complessivi di sospensione.
Condannava altresì l’appellante a corrispondere all’O.A. un indennizzo pari alla retribuzione globale di fatto perduta dal giorno del licenziamento alla effettiva reintegrazione, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione al saldo e con ripristino della situazione previdenziale ed assistenziale in luogo della somma mensile fissa indicata dal primo Giudice – detratti gli importi già versati.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre la Y.M. Spa con due motivi, di cui il secondo articolato in due distinte censure.
L’O.A.ha depositato procura.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso la Y.M. SpA, denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul fatto, controverso e decisivo per il giudizio, del trafugamento di documenti, cioè furto di documenti informatici ad opera dell’O.A. (art. 360 c.p.c., n. 5), lamenta che il Giudice d’appello abbia posto a base del suo ragionamento circostanze in contrasto con quanto risultante dagli atti del processo; ciò in quanto il licenziamento impugnato troverebbe il suo fondamento non sull’addebito di “trafugamento di dati aziendali”, come ipotizzato dal Giudice di appello, ma sull’addebito di “trafugamento di documenti riservati dell’azienda”. Inoltre – aggiunge -, erroneamente il Giudice di appello avrebbe ritenuto che l’O.A. non avesse sottratto gli originali dei documenti informatici poi fatti pervenire in copia all’azienda con la nota di giustificazioni del 19.06.2002, bensì che avesse fatto uscire dall’ambito aziendale le sole copie di essi ai fini dell’inviolabile esercizio del diritto di difesa e che, una tale condotta, non costituisse sottrazione di documenti in senso proprio.
Il motivo è infondato.
Invero, sul punto, l’impugnata sentenza ha osservato che già il primo Giudice, aveva ritenuto in fatto che l’O.A. aveva fatto uscire dall’azienda i documenti allegati in copia alla nota di giustificazioni del 19.6.2032, poiché’, secondo quanto riconosciuto dallo stesso lavoratore nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, egli, il 17.6.2002, appena ricevuto l’addebito, aveva estratto copia di tutta la documentazione necessaria ad impostare le giustificazioni, proponendosi di utilizzarla per redigere la propria difesa, a casa, dopo l’orario di lavoro.
Pertanto, richiamando il condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 12528/2004) ha escluso che potesse integrare violazione dell’obbligo di fedeltà, di cui all’articolo 2105 c.c., la produzione in giudizio di copie di atti ai quali il dipendente abbia avuto accesso, giacché tale produzione, avendo ad oggetto copie – e non originali, da un lato, non costituiva sottrazione di documenti in senso proprio e, dall’altro, essendo finalizzata all’esercizio del diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, ed esclusivamente a tale esercizio, con le modalità prescritte dal codice di rito, non comportava divulgazione del contenuto dei documenti ed assolve ad una esigenza prevalente su quella di riservatezza propria del datore di lavoro (v. Cass. n. 12528/04).
Nella specie -soggiunge la Corte territoriale-, poiché’la produzione in giudizio della copia degli atti implicava all’evidenza che dette copie erano state fatte uscire dall’ambito aziendale, doveva convenirsi che tale circostanza, pur astrattamente violando il dovere di riservatezza del dipendente, perdeva la propria rilevanza al riguardo laddove attuata per l’esercizio del proprio diritto di difesa.
Nel caso in esame, inoltre, neppure poteva ritenersi che vi fosse stata lesione del diritto della parte datoriale alla riservatezza dei documenti aziendali (ivi compresi quelli inerenti alle comunicazioni e-mail intercorse tra altri dipendenti), in quanto le copie degli atti in oggetto – in difetto di elementi di prova di opposto segno – non risultavano essere state divulgate a terzi (neppure attraverso quella limitata diffusione che si realizza con la loro produzione in giudizio), ma piuttosto consegnate alla stessa parte datoriale nel contesto del procedimento disciplinare, rimanendo quindi in un ambito di conoscenza circoscritto a quello strettamente aziendale.
Del tutto improprio risultava quindi l’addebito di trafugamento di dati aziendali, su cui essenzialmente si fondava il licenziamento impugnato.
Dal che discendeva la sostanziale irrilevanza della contestata recidiva.
A maggior conforto della correttezza della argomentazioni adottate dalla Corte d’appello a sostegno della decisione, va aggiunto che -secondo la giurisprudenza di questa Corte – il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali, che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c., tenuto conto che l’applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di riservatezza dell’azienda; ne consegue la legittimità della produzione in giudizio dei detti atti trattandosi di prove lecite (Cass. n. 3038/2011). Tale orientamento vale anche, con riferimento alla utilizzazione da parte del lavoratore di documenti aziendali di carattere riservato allorché’la produzione in giudizio dei documenti è determinata al fine di esercitare il diritto di difesa, di per sé da considerarsi lecita per la prevalenza di detto diritto ed anche in virtu’di quanto previsto dalla Legge n. 675 del 1996, articolo 12 (Cass. n. 22923/2004).
Sulla base di tale impostazione la decisione impugnata appare corretta anche a voler ritenere l’avvenuta acquisizione ai fini di difesa dei documenti aziendali.
Altrettanto correttamente poi la Corte d’appello ha ritenuto non valutabili perché’estranei alla contestazione degli addebiti le deduzioni svolte nella memoria difensiva di primo grado, secondo cui era risultato che, sia nell’archivio dati del computer già in uso all’O.A. sia nell’intero sistema centralizzato (server di rete) non era più presente la documentazione relativa a tutta l’attività di ricerca e sviluppo svolta dall’O.A. stesso e che quest’ultimo aveva utilizzato il suo personal computer per accedere abusivamente alla casella di posta personale del dipendente (OMISSIS) e aveva cancellato tutti i file di bg che registravano “lo storico dei movimenti e attività del server di rete di posta elettronica della Società sino al 27/05/2002”.
Con il secondo motivo la ricorrente contesta il capo della sentenza con cui, in accoglimento dell’appello incidentale proposto dall’appellato, sono state annullate le sanzioni della sospensione rispettivamente per giorni due e per giorni tre inflitte al dipendente il 17/4/2002 e il 21/6/2002 con condanna della società a corrispondere al lavoratore la retribuzione dovuta per i predetti cinque giorni complessivi di sospensione.
Con una prima censura denuncia motivazione illogica, incongrua e contraddittoria sul requisito della specificità della contestazione di addebiti dell’8.04.2002 sanzionata con il provvedimento disciplinare del 17/4/2002 (art. 360 c.p.c., n. 5).
Con una seconda censura la ricorrente denuncia motivazione illogica, incongrua e contraddittoria in ordine alla ritenuta genericità della successiva contestazione di addebiti del 14/6/2002 alla quale ha fatto seguito il provvedimento del 21/6/2002 (art. 360 c.p.c., n. 5).
Il motivo, pur valutato nella sua duplice articolazione, è infondato, avendo il Giudice a quo fornito in proposito adeguata motivazione.
Quanto alla sanzione del 17 aprile 2002, il Giudice d’appello, criticando l’opinione espressa dal primo Giudice, ha in primo luogo richiamato la contestazione dell’addebito -riprodotta integralmente nella esposizione in fatto della sentenza- riguardante, così come correttamente sintetizzata nella motivazione, il mancato sviluppo dei temi assegnati all’O.A. nella riunione del 13.2.2002 in vista del meeting programmato per i successivi 21 e 22 marzo, ed il rifiuto di porre a disposizione dello staff le poche attività svolte “così costringendo il coordinatore P.R. ed il componente dello staff M.A. ad iniziare soli nuovi studi e ricerche per presentarle tempestivamente al meeting del 21-23/03/2002”.
Orbene, la Corte territoriale ha motivatamente ritenuto l’assoluta genericità della prima di tali due circostanze oggetto di contestazione, non essendo specificato quali fossero i “temi assegnati” e quale sarebbe stata la prestazione, in ordine allo “sviluppo” di essi, che il dipendente avrebbe dovuto tenere.
Quanto all’altro addebito, ha osservato che esso non aveva goduto del conforto delle testimonianze raccolte, poiché’i testi assunti sul punto – entrambi di indicazione datoriale – avevano, con sostanziale uniformità di accenti, affermato, il primo, che “l’O.A. non si rifiutò di mettere a disposizione i risultati dell’attività di ricerca da lui svolti, … piuttosto non seguiva le mie direttive” – così come riferito dal preposto P.R., consistenti nello svolgimento di un’attività di equipe; il secondo, teste M.A.), che “l’O.A. non si rifiutava di mettere a disposizione i propri dati ma lo faceva in modo formale”.
Sicché coerentemente la Corte d’appello ha tratto la conclusione che la contestazione, nei termini in cui era stata formulata, appariva “quantomeno non centrata”.
In ordine alla successiva contestazione con cui si addebitava all’O.A.di:
a) rifiutarsi sistematicamente di seguire la metodologia di lavoro stabilita nelle apposite riunioni periodiche;
b) non apportare alcun concreto contributo di idee o di progetti, ma limitarsi a riferire circostanze e fatti scontati e noti a tutti;
c) assumere una posizione di netto contrasto con i colleghi dello staff così vanificando gli impegni e gli sforzi degli stessi,
la Corte d’appello ha ritenuto i detti addebiti del tutto indeterminati, non precisandosi: a) i termini della “metodologia di lavoro” asseritamente non seguita, b) quale sarebbe stato il contributo di progetti e di idee esigibile dal prestatore, che egli avrebbe invece mancato di apportare, ed in forza di quale disposizione contrattuale egli sarebbe stato tenuto ad un tal genere di prestazione ideativi; c) in quali comportamenti dello stesso lavoratore si sarebbe concretizzato il contrasto con i col leghi dello staff, al punto da generare le gravi conseguenze contestate.
Stante siffatta genericità delle contestazioni, venivano, dunque -prosegue la Corte-, a menomarsi le facoltà difensive del prestatore in sede disciplinare, con conseguente annullamento della inflitta sospensione.
Trattasi in tutti gli esaminati casi di accertamenti di merito, adeguatamente, ancorché’sinteticamente, motivati che non si prestano ad essere censurati in questa sede.
Per quanto precede il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in euro 40,00 oltre euro 3.500,00 per onorari ed oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A.
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