CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 maggio 2022, n. 13935
Lavoro – Svolgimento di mansioni di inserviente addetta alle pulizie – Pagamento dei contributi – Esistenza del rapporto di lavoro subordinato – Accertamento
Fatti di causa
La Corte d’appello di Bari, confermando la pronuncia di primo grado, ha dichiarato non sussistente l’obbligo in capo all’Inps di costituire la posizione contributiva relativa al rapporto d’impiego asseritamente intercorso tra A.A. e il Comune di Conversano fra il 1.10.1980 e il 30.6.1984 per lo svolgimento di mansioni di inserviente addetta alle pulizie.
La vicenda presenta uno svolgimento processuale peculiare, essendosi articolata in più gradi, fasi e sedi con esiti collimanti:
a) Il Consiglio di Stato, con riferimento al rapporto Comune di Conversano – lavoratori, trattandosi di periodi anteriori all’intervenuta giurisdizione ordinaria, ha stabilito l’inesistenza di un rapporto d’impiego pubblico, tale da rendere impossibile la costituzione di una posizione contributiva in favore della ricorrente;
b) Il Tribunale di Bari, con riferimento al rapporto Comune – Inps, ha accolto l’opposizione del Comune avverso il decreto ingiuntivo concesso all’Inps per il pagamento dei contributi relativi alla prestazione lavorativa oggetto di causa; il conseguente giudizio di appello ha riformato parzialmente tale decisione, rilevando che la verifica preventiva dell’esistenza o meno dei rapporti di lavoro subordinato col Comune di Conversano doveva essere decisa dallo stesso giudice di primo grado investito della causa in cui la lavoratrice si doleva della mancata costituzione della posizione previdenziale in suo favore da parte dell’Inps; ha, perciò, disposto la rimessione delle parti davanti al primo giudice, concedendo alle stesse un termine perentorio di sei mesi dalla notifica della sentenza;
c) nel giudizio di riassunzione, la Corte d’appello, adìta con riferimento al rapporto lavoratore – INPS, ha confermato la sentenza di primo grado, che aveva accertato la natura non retributiva delle somme percepite dall’appellante; tali somme, secondo il primo giudice, erano, infatti, di natura assistenziale, essendo attinte da fondi destinati all’assistenza dei lavoratori involontariamente disoccupati.
La Corte territoriale, confermando tali conclusioni, ha, pertanto negato l’esistenza del rapporto di subordinazione, secondo quanto emerso anche dalle prove orali chieste dai ricorrenti e ammesse nel giudizio d’appello.
La stessa Corte ha, inoltre, rilevato che la domanda attorea cli condanna, spiegata a solo carico dell’INPS e non anche del Comune di Conversano, era inammissibile, in quanto non riconducibile all’azione di regolarizzazione contributiva, azione tipica ove il datore è il soggetto tenuto a versare i contributi derivanti dal contratto di lavoro, mentre l’Inps riveste soltanto il ruolo di accipiens dell’eventuale pagamento, imposto al datore dalla sentenza di condanna.
Sostiene la Corte che neppure l’invocato principio generale di automaticità delle prestazioni contributive è idoneo a produrre l’effetto di imporre all’ente previdenziale di regolarizzare la posizione contributiva: anche qualora l’ente previdenziale, messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima che sia decorso il termine di prescrizione, non si sia attivato tempestivamente per l’adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato, l’assicurato, essendo la prescrizione irrinunciabile, non può esperire azione di regolarizzazione nei confronti dell’Inps, ma può soltanto esperire azione risarcitoria a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2116, co.2, cod. civ. nonché azione mirata alla costituzione della rendita vitalizia ai sensi dell’art. 13 I. n. 1338/62, il cui presupposto è costituito proprio dalla prescrizione dei contributi.
Tali essendo gli unici rimedi che il legislatore pone a tutela della posizione assicurativa del lavoratore, ha quindi dichiarato inammissibile l’azione della lavoratrice diretta alla regolarizzazione contributiva nei confronti dell’Inps.
A. A. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, illustrati da successiva memoria.
L’Inps ha opposto tempestive difese.
Il P.G. ha proposto l’inammissibilità del ricorso.
Ragioni della decisione
Il primo motivo contesta “Violazione ed erronea applicazione dell’art. 353 cod.proc.civ. e conseguente omessa dichiarazione di nullità dell’attività processuale compiuta e della sentenza emanata – Violazione ed erronea applicazione degli artt. 168, 168 bis cod. proc. civ.; Violazione ed erronea applicazione degli artt. 112 e 156 cod. proc. civ. – Violazione ed erronea applicazione dell’art. 324 cod. proc. civ. – Travisamento della “causa petendi” della domanda giudiziale – Nullità della nuova iscrizione a ruolo dell’atto di riassunzione di tutti gli atti e verbalizzazioni successive e della sentenza”.
Parte ricorrente lamenta che i vizi formali della sentenza che ha disposto la riassunzione del processo dinanzi al giudice investito della domanda principale di regolarizzazione contributiva avrebbero compromesso il suo diritto di difesa.
Il secondo motivo denuncia “Violazione e falsa applicazione degli artt. 112 – 324 e 353 c.p.c. in relazione all’esame e pronunzia su fatti decisivi per il giudizio riguardanti rapporti processuali non rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario e riguardanti una parte estromessa dal giudizio”.
Il giudizio di riassunzione avrebbe travisato il contenuto della domanda originaria, spostandosi sulla natura del rapporto di lavoro; la Corte d’appello avrebbe dovuto annullare la sentenza di primo grado per violazione del giudicato formale contenuto nella precedente sentenza della Corte d’appello il quale definiva in modo del tutto diverso il petitum sostanziale dedotto.
Il terzo motivo contesta “Nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per omessa pronunzia sulla concorde domanda delle parti e su un motivo di gravame – Nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ. per omesso esame e pronunzia su un punto decisivo della controversia in relazione al riconoscimento formale da parte dell’INPS del diritto vantato dalla parte ricorrente e delle prove proposte concordemente dalle parti su un punto decisivo della controversia – Nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ. per omesso esame e pronunzia sulle prove proposte dalle parti e su richieste istruttorie formulate sull’accordo delle parti su un punto decisivo della controversia”.
Il provvedimento impugnato avrebbe violato i limiti di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, mentre avrebbe dovuto accogliere la richiesta originaria della lavoratrice alla costituzione in suo favore della posizione contributiva da parte dell’INPS relativamente al periodo lavorativo prestato alle dipendenze del Comune di Conversano.
Il quarto ed ultimo motivo lamenta “Violazione del principio elaborato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, da ritenersi insito nel diritto al giusto processo di cui all’art. 111 Costituzione di effettività della tutela giurisdizionale
– Violazione e falsa applicazione degli artt. 112 – 115 – 353 cod. proc. civ. – Omessa decisione nel merito”.
Parte ricorrente si duole delle valutazioni espresse dal giudice dell’appello circa l’attività istruttoria (attività ispettiva dell’organo amministrativo preposto), mentre ribadisce che la decisione avrebbe dovuto limitarsi ad accertare il proprio diritto alla regolarizzazione contributiva da parte dell’INPS.
I motivi, da esaminarsi congiuntamente per intima connessione, presentano plurimi motivi di inammissibilità.
Va preliminarmente stigmatizzata la proposizione delle censure in modo affastellato e promiscuo, tale da rendere non identificabili i singoli capi della sentenza che s’intendono impugnare, ed inintelligibili le tesi prospettate al fine di corroborare le proposte censure.
L’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e di quelle emergenti dalla trattazione del merito della fattispecie mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 cod. proc. civ., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze della ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse. Tale orientamento è costantemente seguito nella giurisprudenza di legittimità, che in tema di ricorso per cassazione ritiene inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, cod.proc.civ., e dichiara non consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro (per tutti cfr. Cass. n.26874 del 2018, Cass.n.3554 del 2017 e Cass.n. 18021 del 2016).
In più, vi è da rilevare che parte ricorrente non trascrive e non produce la sentenza che ha disposto la riassunzione del processo al primo giudice, né la localizza. Neppure localizza tutti gli altri elementi istruttori cui le censure rimandano (tra i quali: verbale di accertamento dell’ispettorato del lavoro per omesso versamento dei contributi previdenziali, verbali di udienza, quale quello del 24.6.2003, ove l’Inps avrebbe dato conto – nella memoria difensiva della causa pendente contro il Comune di Conversano – dell’espresso riconoscimento del diritto del lavoratore alla regolarizzazione contributiva).
Secondo le Sez. Un. n. 22726 del 2011 (seguita da Cass. n. 195 del 2016, Cass. n. 21554 del 2017, Cass. 11805 del 2021), in tema di giudizio per cassazione, l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., così come modificato dall’art. 7 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369, terzo comma, cod. proc. civ., “…ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, cod. proc. civ., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi“.
Nel caso in esame la ricorrente menziona elementi e documenti istruttori omettendo di riprodurli tutti e senza nemmeno localizzarli nel ricorso per cassazione; in particolare si astiene per un verso dal dichiararli prodotti in copia e per altro verso dal segnalarne la presenza nel fascicolo d’ufficio del giudice d’appello, come ammesso da questa Corte in alternativa all’onere di produzione ai sensi dell’art. 369, co.2, cod. proc. civ.
Quanto al denunciato vizio di travisamento dell’interpretazione della domanda va ribadito che tale potere appartiene al giudice dinanzi al quale è stato riassunto il processo, il quale ne ha dichiarato l’inammissibilità per carenza del diritto fatto valere.
In riferimento al vizio di ultrapetizione, esso neppure è riscontrabile, atteso che, come risulta dalla sentenza gravata, parte ricorrente ha chiesto l’accertamento nei confronti dell’Inps del diritto alla regolarizzazione contributiva con condanna nei confronti dello stesso alla costituzione della corrispondente posizione previdenziale.
Secondo quanto costantemente affermato da questa Corte, al fine di dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. occorre denunziare che il Giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, ha posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dai poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 cod. proc. civ. (Cass. n.26769 del 2018).
D’altro canto, la statuizione che è scaturita dalla (legittima) qualificazione della domanda attorea da parte della Corte d’appello adìta nel giudizio di riassunzione è conforme al principio di diritto affermato, anche di recente, da questa Corte secondo cui “In caso di omesso versamento di contributi da parte del datore di lavoro, l’ordinamento non prevede un’azione dell’assicurato volta a condannare l’ente previdenziale alla regolarizzazione della sua posizione contributiva, nemmeno nell’ipotesi in cui l’ente previdenziale, che sia stato messo a conoscenza dell’inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia tempestivamente attivato per l’adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato, residuando unicamente in suo favore la facoltà di chiedere all’Inps la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 della legge n 1338 del 1962 ed il rimedio risarcitorio di cui all’art. 2116 c.c. Né tale ultima azione è impedita dalla cancellazione della società datrice di lavoro dal registro delle imprese, determinandosi in tale ipotesi un fenomeno successorio in forza del quale l’obbligazione della società non si estingue, ma si trasferisce ai soci, che ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente a seconda che, “pendente societate”, fossero responsabili per i debiti sociali in via limitata o illimitata.” (Cass. n. 6722 del 2021).
Quanto alle ripetute censure alle scelte e alle valutazioni dei mezzi istruttori da parte del giudice dell’appello esse sono inammissibilmente prospettate in questa sede. In tema di valutazione delle prove vige il principio del libero convincimento posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., il quale opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del di. n.83 del 2012, conv. con modif. dalla I. n.134 del 2012, limiti che, nel caso in esame, risultano ampiamente travalicati (Cass. n. 23940 del 2017).
Emerge, infatti, dalla pur complicata prospettazione delle censure, che parte ricorrente non intende contestare una violazione di norme sostanziali o processuali, ma lamenta la mancata valutazione di elementi istruttori che a suo parere avrebbero condotto a un giudicato a sé favorevole, secondo la deduzione tipica del vizio di motivazione; tuttavia, questa Corte ha anche affermato – ed il principio è ormai pacifico – che “…l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” ( Sez. Un. n. 8053 del 2014).
In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
In considerazione dell’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 700,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art.1, comma 17 della I. n.228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.