COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE CAMPANIA – Sentenza 26 gennaio 2021, n. 785
Tributi – IMU – Abitazione principale – Condizioni – Eccezioni – Individuazione
Con atto registrato con R. G. n 8474/2019, il Comune di Napoli appellava la sentenza della CTP di Napoli n. 6055/2019, con la quale è stato accolto il ricorso proposto da XXX. Con l’originario ricorso il contribuente aveva impugnato l’avviso in rettifica IMU per l’anno 2016 prot. n. XXX del 29/03/2018, emesso dal Comune di Napoli, in relazione ad un’unità immobiliare di proprietà ubicata in XXX, identificata in NCEU come XXX.
Era stato sostenuto il diritto alle agevolazioni previste per legge per le abitazioni principali, asseritamente spettanti in virtù della comprovata dimora abituale nel cespite.
Si era costituita tardivamente la Amministrazione contestando la pretesa.
Con la impugnata decisione la CTP ha accolto il ricorso rilevando che “risulta che la moglie del XXX risiede anagraficamente nell’immobile di cui è causa e, pertanto, il ricorrente, pur se residente ancora con la madre, aveva comunque diritto all’agevolazione per l’immobile in cui risiede anagraficamente il suo nucleo familiare.” Con l’appello in esame il Comune lamenta la violazione delle disposizioni in tema di IMU ricordando che “Per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.” Non si è costituita controparte. All’esito della discussione la Commissione osserva come nel periodo di applicabilità dell’ICI, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato che ai fini del riconoscimento della detrazione prevista dall’art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992, anche a seguito della modifica introdotta dall’art. 1, comma 173, della I. n. 296 del 2006, per “abitazione principale” non dovesse necessariamente intendersi quella di residenza anagrafica, atteso che la norma introduceva una presunzione relativa che poteva essere superata dal contribuente mediante la prova contraria circa l’effettivo utilizzo quale dimora abituale del nucleo familiare, suscettibile di apprezzamento riservato alla valutazione del giudice di merito.
Con la entrata in vigore del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici, risulta previsto, ex art. 13, che l’imposta municipale propria non si applica al possesso dell’abitazione principale e delle pertinenze della stessa, ad eccezione di quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, per le quali continuano ad applicarsi l’aliquota di cui al comma 7 e la detrazione di cui al comma 10.
Lo stesso articolo precisa che per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente.
In relazione a quanto sopra va ritenuto che non sia più possibile da parte del contribuente fornire la prova contraria alle risultanze anagrafiche, dimostrando, con elementi sottoposti alla valutazione del giudice, il diritto alle agevolazioni per l’abitazione principale, atteso che questa è, ex lege, quella nella quale il nucleo familiare dimori abitualmente risieda anagraficamente.
L’unico spazio residuale può essere individuato nella possibilità di dimostrare documentalmente che la mancata registrazione anagrafica della residenza sia imputabile esclusivamente ad un disservizio e/o a inefficienze della pubblica amministrazione, della quale il cittadino non deve subire gli effetti negativi. Elementi che nel caso di specie, seppur paventati in modo generico con riferimento alla esistenza di una domanda di variazione nel corso del 2011 non risultano né introdotti né provati. Va escluso che sussista la preclusione ad un esame della controversia, derivante dalla presenza di un giudicato esterno formatosi tra le stesse parti in relazione al medesimo tributo, ma per un’annualità differente. In generale, la preclusione del giudicato opera nel caso di giudizi identici, nei quali cioè l’identità delle due controversie riguardi i soggetti, la causa petendi e il petitum per come questi fattori sono inquadrati nell’effettiva portata della domanda giudiziale e della decisione (c.f.r. per tutte Cass. n. 1514-07; n. 1773-00; nonché già sez. un. n. 2874- 98); il giudicato copre poi il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e, pertanto, non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia. (Vedi Cass. n. 3488 del 2016 e n. 25745 del 2017). Va inoltre precisato che il processo tributario, rispetto a quello civile, conserva la specificità correlata al rapporto sostanziale che ne costituisce oggetto, ed attiene (v. C. cost. n. 53-98 e n. 18-00) “alla fondamentale e imprescindibile esigenza dello Stato di reperire mezzi per l’esercizio delle sue funzioni attraverso l’attività dell’amministrazione finanziaria, la quale ha il potere-dovere di provvedere, con atti autoritativi, all’accertamento e alla pronta riscossione dei tributi“. Una similare ratio rileva anche in presenza di tributi non destinati allo Stato, ovvero di contributi obbligatori secondo la definizione propria delle scienze delle finanze, in rapporto alle esigenze di reperimento dei proventi necessari a finanziare i servizi assicurati dagli enti preposti. In base all’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (v. Sez. un. 13916-06), il processo tributario, ancorché generalmente instaurato mediante impugnazione di un atto lato sensu impositivo (C.f.r. il d.lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. d) e art. 19, comma 1), ha per oggetto lo specifico rapporto tributario dedotto in giudizio quale risulta, da un lato, dalla pretesa fatta valere dall’amministrazione con l’atto medesimo e, dall’altro, dai motivi della sua impugnazione. In ragione di siffatta complessità oggettiva, associata all’autonomia dei singoli periodi d’imposta (che, ex art. 7 del T.U.l.R., è espressione di un principio generale in materia, valevole per tutti i tributi, anche non destinati allo Stato), deve negarsi la possibile esistenza di un’unica obbligazione tributaria corrispondente a più periodi (v. già Cass. n. 14714-01). Per cui l’eventualità che il giudicato, formatosi in ordine a un periodo, possa avere efficacia preclusiva nel giudizio relativo al medesimo tributo per un altro periodo va limitata al caso in cui si discorra degli elementi rilevanti necessariamente comuni ai distinti periodi d’imposta, onde potersene desumere che l’accertamento di fatto su tali elementi (e solo l’accertamento di fatto) debba fare stato nel giudizio relativo alle obbligazioni sorte in un periodo d’imposta diverso. L’esempio tipico è quello delle cd. qualificazioni giuridiche (del tipo di “ente commerciale” o di “soggetto residente”), in quanto assunte dal legislatore alla stregua di elementi preliminari per l’applicazione di una specifica disciplina. Come ribadito più volte dalla giurisprudenza di legittimità “nel processo tributario, l’effetto vincolante del giudicato esterno in relazione alle imposte periodiche concerne i fatti integranti elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di annualità, abbiano carattere stabile o tendenzialmente permanente mentre non riguarda gli elementi variabili, destinati a modificarsi nel tempo.” (Vedi Cass. n. 25516 del 2019), e quindi “in relazione alle imposte periodiche, è limitato ai soli casi in cui vengano in esame fatti che, per legge, hanno efficacia permanente o pluriennale, producendo effetti per un arco di tempo che comprende più periodi di imposta, o nei quali l’accertamento concerne la qualificazione di un rapporto ad esecuzione prolungata” (vedi Cass. n. 31084 del 2019) In definitiva, posto che ogni tributo periodico è costituito da elementi stabili ed elementi variabili, solo con riferimento agli elementi stabili il giudicato può esprimere portata vincolante esterna (Cfr. Cass. n. 1300 del 2018; Cass. n. 18923 del 2011).
Nella fattispecie, l’accertamento compiuto dal giudice tributario nella diversa annualità, sul cui passaggio in giudicato non vi è contestazione, non può essere esteso agli anni successivi in quanto tale valutazione non investe un elemento costitutivo della fattispecie a carattere stabile o tendenzialmente permanente e comune ai vari periodi di imposta, posto che sia le condizioni di erogazione del servizio sia le concrete modalità di attuazione dello stesso costituiscono circostanze mutevoli nel tempo che richiedono di volta in volta una verifica ed un accertamento per ciascun periodo di imposta.
Trattandosi di presupposti fattuali specificamente riferibili alle singole annualità di prestazione del servizio, gli effetti delle sentenze in giudicato non possono temporalmente estendersi oltre i periodi in esse considerate, difettando il requisito imprescindibile della durevolezza e permanenza nel tempo del dato oggettivo di attivazione ed erogazione del servizio, inteso quale presupposto dell’imposizione. Pertanto, in riforma della impugnata decisione, il proposto appello va accolto con condanna del contribuente al pagamento delle spese e competenze del doppio grado, liquidate in Euro 350,00 per il I grado, ed in Euro 400,00 per il II grado.
P.Q.M.
Accoglie l’appello, con riforma della impugnata decisione. Condanna il D. al pagamento delle spese e competenze del doppio grado, liquidate in Euro 350,00 per il I grado, ed in Euro 400,00 per il II grado.
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