COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE LOMBARDIA – Sentenza 10 luglio 2020, n. 1556
Tributi – IRES – Imprese operanti nel settore petrolifero e dell’energia elettrica – cd. “Robin Tax” – Pronuncia di incostituzionalità dell’imposta con efficacia ex tunc – Successivo accertamento su annualità pregresse – Illegittimità
Ragioni di fatto e di diritto della decisione
La vicenda al vaglio del presente giudizio trae linfa dall’avviso di accertamento n.TMBxxxxxx emesso nei confronti della s.p.a. K. ai fini dell’addizionale IRES prevista dall’art. 81, comma 16, del decreto legge n. 112 del 2008 sul reddito delle imprese operanti nel settore petrolifero e dell’energia elettrica: il maggiore reddito determinato per l’anno di imposta 2012 è stato pari ad Euro 62.015,00 e la maggiore imposta accertata pari ad Euro 6.511,00.
La s.p.a. K. ha impugnato l’avviso di accertamento n. TMBxxxxxx avanti alla C.T.P. di Milano che, con sentenza n. 5191 del 2018 ha accolto il ricorso sulla base della seguente motivazione: “Con sentenza n. 10 dell’11 febbraio 2015 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’imposta comunemente denominata “Robin Tax” ed ha altresì statuito che, in via del tutto eccezionale e solo in ragione dei superiori principi della parità del bilancio dello Stato, gli effetti della pronuncia operassero non già ex tunc, ma a far data dalla pubblicazione della sentenza … L’espresso riferimento alle restituzioni dei versamenti tributari chiarisce che l’eccezionale decorrenza ex nunc della pronunzia di incostituzionalità trovi la sua unica ratio nell’esigenza di evitare le conseguenze pregiudizievoli per le casse dello stato delle richieste di rimborso da parte dei contribuenti che già avevano versato l’imposta poi colpita da pronuncia di incostituzionalità. Ne consegue che, contrariamente all’assunto dell’Ufficio, i rapporti fiscali già definiti al momento della decisione della Consulta sono quelli in cui vi è stato lo spontaneo versamento dell’imposta, ovvero quelli in cui è intervenuto all’esito del contenzioso tributario un giudicato favorevole per l’Amministrazione Finanziaria. Sulla base della chiara lettura del percorso motivazionale che ha portato i Giudici Costituzionali a derogare al principio generale dell’efficacia retroattiva delle pronunzie della Corte, risulta evidente che l’Ufficio non è legittimato a far valere una pretesa impositiva sulla base di una norma già dichiarata incostituzionale. Nel caso in esame l’avviso di accertamento è stato notificato in data 29 settembre 2017 in epoca di oltre due anni successiva alla declaratoria di incostituzionalità, dunque sulla base delle considerazioni sopra evidenziate, l’Ufficio ha fatto valere una pretesa erariale illegittima poiché ormai priva di supporto normativo”.
L’Ufficio ha appellato la sentenza n. 5191 del 2018 rilevando che la deroga alla generale retroattività dell’efficacia delle sentenze d’incostituzionalità delle leggi sancita dalla sentenza della Consulta n. 10 del giorno 11 febbraio 2015 dovesse far salve anche le pretese erariali ex art. 81, comma 16, del decreto legge n. 112 del 2008 antecedenti la data di pubblicazione della predetta sentenza, pretese erariali – tra cui quella al vaglio del presente giudizio – che possono essere accertate negli ordinari termini di cui all’art. 43 del d.p.r. n. 600 del 1973 pena, in mancanza, la verificazione di una vistosa disparità di trattamento tra chi si era spontaneamente adeguato alla normativa allora vigente poi dichiarata incostituzionale e chi non vi ha dato esecuzione.
Si è costituita nel giudizio di appello la s.p.a. K. instando per il rigetto del gravame dell’Ufficio e per la conferma della sentenza di primo grado: la contribuente ha rilevato come la deroga alla generale retroattività dell’efficacia delle sentenze d’incostituzionalità delle leggi sancita dalla sentenza della Consulta n. 10 del giorno 11 febbraio 2015 avesse voluto mettere al riparo il bilancio dello stato dalle richieste di rimborso ma non legittimare accertamenti successivi alla data di pubblicazione della predetta sentenza basati su una norma oramai non più esistente.
Questi i fatti di causa, la Commissione ritiene di dovere disattendere l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate e di confermare la sentenza di primo grado per i motivi di seguito indicati, non senza premettere che la motivazione della sentenza gravata spiega in maniera chiara e puntuale l’infondatezza della pretesa erariale azionata dall’Ufficio.
L’Ufficio pretende di basare la debenza di un’addizionale IRES sulla base di una norma dichiarata incostituzionale per la quale la Consulta ha dovuto escogitare il meccanismo della retroattività attenuata delle proprie decisioni al solo scopo di salvare le casse dello Stato dall’assalto di potenziali ed innumerevoli richieste di rimborso: contrariamente a quanto auspicato dall’Ufficio, questa Commissione non può resuscitare un morto, vale dire non può far rivivere una norma dichiarata incostituzionale, per di più a fondamento di un accertamento avvenuto a distanza di oltre due anni dalla pubblicazione sentenza della Consulta n. 10 del giorno 11 febbraio 2015: del tutto correttamente i primi giudici hanno asserito che, salvi i rapporti fiscali già definiti al momento della decisione della Consulta che “sono quelli in cui vi è stato lo spontaneo versamento dell’imposta ovvero quelli in cui è intervenuto all’esito del contenzioso tributario un giudicato favorevole per l’Amministrazione Finanziaria”, rapporti per i quali la pretesa fiscale può essere ritenuta definitivamente acquisita alle casse dello Stato, nel caso al vaglio del presente giudizio in cui “l’avviso di accertamento è stato notificato in data 29 settembre 2017 in epoca di oltre due anni successiva alla declaratoria di incostituzionalità” “l’Ufficio ha fatto valere una pretesa erariale illegittima poiché ormai priva di supporto normativo“; a nulla rileva il timore della difesa erariale, in caso di diversa interpretazione, circa l’esistenza di una disparità di trattamento tra chi si era spontaneamente adeguato alla normativa allora vigente poi dichiarata incostituzionale e chi non vi ha dato esecuzione, non potendo tale nobile intento giustificare pretese fiscali in assenza di una norma di legge a fondamento in esse giusta il disposto dell’art. 23 della Costituzione.
Consegue pertanto il rigetto dell’appello dell’Agenzia delle Entrate e la conferma della sentenza di primo grado.
Le spese seguono la soccombenza e vanno addossate, nella misura di cui al dispositivo, all’Ufficio appellante.
P.Q.M.
Respinge l’appello dell’Agenzia delle Entrate e conferma la sentenza di primo grado.
Condanna l’Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese di lite in favore della K. s.p.a., spese liquidate in Euro 2.500,00 oltre accessori di legge.