Commissione Tributaria Regionale per la Toscana, sezione n. 2, sentenza n. 1817 depositata il 16 dicembre 2019
Le somme percepite a titolo di risarcimento, a seguito di una sentenza del giudice del lavoro, per reiterazione di contratti a termine non sono sostitutive della retribuzione ma hanno natura meramente ristoratrice
La contribuente M. G. R. presentava istanza di rimborso per la restituzione della trattenuta fiscale operata dal sostituto d’imposta (nella fattispecie MIUR) sulle somme riconosciute come dovute alla contribuente stessa a seguito di sentenza n. 800/2011 del Trib. Viterbo Giudice del Lavoro, deducendo trattarsi di somme a titolo risarcitorio (per reiterazione di contratti a termine ritenuta illegittima) e quindi non soggette a tassazione.
Avverso il silenzio-rifiuto la contribuente proponeva ricorso, con istanza di mediazione ex art. 17-bis D.Lgs. n.546/1992, ribadendo trattarsi di somme di natura meramente ristoratrice e quindi non assoggettabili a trattenuta IRPEF, come riconosciuto anche da CTR Roma con sentenza n. 4472/0l/2016 in fattispecie del tutto analoga.
L’Ufficio si costituiva controdeducendo che non sono assoggettate a tassazione le somme nel caso in cui “il risarcimento erogato voglia indennizzare il soggetto delle perdite effettivamente subite (il c.d. danno emergente) ed abbia quindi la precipua funzione di reintegrazione patrimoniale”; nella fattispecie invece riteneva che “il risarcimento ricevuto dalla contribuente non abbia natura di danno emergente quanto piuttosto di lucro cessante” e pertanto correttamente assoggettato a tassazione separata, richiamando l’art. 17 co. l TUIR.
Il MIUR non si costituiva.
Con sentenza n. 269/1/2016 la CTP Grosseto accoglieva il ricorso, con spese compensate. La sentenza, richiamava in fatto il contenzioso giuslavoristico in questione, parte di un contenzioso “seriale”, avente ad oggetto contratti a termine stipulati in successione tra il MIUR e la M.. Il Giudice del Lavoro aveva così statuito: “dichiara l‘illegittimità dei contratti a termine stipulati in successione tra la ricorrente M. G. R. ed il Ministero della Pubblica Istruzione dopo il 24.10.2001 e per l’effetto condanna il Ministero resistente in persona del Ministro p.t. al risarcimento dei danni in favore della medesima in misura pari a 3,5 mensilità dell‘ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla scadenza dell‘ultimo contratto”.
La sentenza della CTP, pur convenendo che non tutte le somme corrisposte a titolo “risarcitorio” devono ritenersi esenti da IRPEF ma soltanto quelle costituenti ristoro del “danno emergente”, mentre quelle costituenti “lucro cessante” potevano costituire reddito imponibile, secondo l’accertamento in concreto demandato caso per caso al Giudice di merito. La sentenza dunque, ripercorrendo le argomentazioni svolte dal Giudice del Lavoro, motivava che ne emergeva “la natura meramente indennitaria delle somme riconosciute in sentenza; più precisamente, quel che il g. l. ha inteso indennizzare è il danno da illegittima (o abusiva, secondo la terminologia europea) utilizzazione dello strumento dei contratti a termine, in violazione di norme imperative” ( … ) “quello che è senz’altro da escludere è che il giudice del lavoro abbia voluto attribuire all’indennità accordata la funzione di reintegrazione a fronte di una mancata percezione di redditi da lavoro; lo dimostrano, tra l ‘altro, anche l’aver ancorato il ristoro ad un parametro minima/e, ben diverso – qualitativamente e quantitativamente – da quello proposto dalla lavoratrice”, per modo che l’adattamento al caso concreto dei criteri sui licenziamenti illegittimi di cui alla L. n. 604/1966 era stato dettato da un metodo “sostanzialmente equitativo”.
Avverso detta sentenza ha proposto appello l’Ufficio, censurando la sentenza di primo grado e argomentando che l’art.6 co.2 TUIR rende evidente, “con riferimento alle indennità, la necessità di distinguere tra somme percepite a fronte della perdita di redditi (c.d. lucro cessante) e somme percepite per reintegrare il soggetto danneggiato (c.d. danno emergente)”, sicché “le somme percepite a titolo di lucro cessante costituiscono redditi tassati a pieno titolo, in quanto sostitutive dei redditi di cui al primo comma dell’art.6 del TUIR”. Richiamava in tal senso anche la Risol. AE 24.5.2002 n.155/E. Deduceva quindi che “la semplice dicitura risarcimento non esclude infatti, di per sé, che le somme siano sottoposte a tassazione, in quanto, si ribadisce, l’intassabilità è prevista solo per quei risarcimenti che non costituiscono reddito, ossia quelli erogati a fronte di danni emergenti”.
Sosteneva che la sentenza del Giudice del Lavoro, rifacendosi espressamente all’art. 8 L. n.604/1964 e ad un certo numero di mensilità di retribuzione non percepita, denotava l’intento di “riconoscere il risarcimento del danno da mancato guadagno, derivante dalla mancata stipula di un contratto a tempo indeterminato e dalla conseguente perdita del lavoro e della retribuzione”, con la conseguente necessità di assoggettamento a tassazione.
Chiedeva pertanto la riforma della sentenza impugnata.
La contribuente controdeduceva argomentando a sostegno della sentenza di primo grado, di cui chiedeva la conferma, ed affermando che “l’odierna appellata si è vista accreditare somme di denaro che non sono riconducibili, neppure parzialmente, alla retribuzione”, bensì rappresentano un “risarcimento del danno cagionato dalla sua illegittima condotta – consistita (secondo il titolo giudiziale, che nella presente sede deve soltanto esser delibato) nella illegittima reiterazione di contratti a termine, in violazione della vigente normativa”, anche comunitaria, espressamente evocata dal Giudice del Lavoro, con abuso dello strumento contrattuale del contratto a termine.
All’esito di udienza camerale, non costituito il MIUR, la Commissione osserva che in linea di diritto appare corretta, ai fini della tassabilità o meno, la distinzione concettuale fra danno emergente e lucro cessante, ripetuta dalle stesse parti in causa.
Tale distinzione peraltro, deve essere rapportata al caso concreto, in relazione alla connotazione datane dal Giudice del Lavoro nella sentenza n. 800/2011 (in atti).
In detta sentenza il Giudice ha disatteso la domanda principale di conversione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato, nonché la domanda subordinata di risarcimento del danno “quantificabile nella misura di venti mensilità della retribuzione globale di fatto”. Nella citata sentenza il Giudice del lavoro, atteso il divieto legale di conversione del rapporto, ha osservato che nella fattispecie il danno (sebbene non quantificato) costituisce oggetto di una presunzione legale, derivando automaticamente dalla violazione di norme imperative, nonché dal divieto legale di convertire il rapporto e quindi dalla connessa risoluzione legale del contratto e dalla perdita dell’attività lavorativa.
In sostanza la sentenza, sulla scorta della normativa e della giurisprudenza europea espressamente citata, ha ritenuto che nel caso di abuso derivante dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro pubblico, il divieto di conversione in rapporto a tempo indeterminato possa ritenersi legittimo a condizione che siano previste altre misure dissuasive ed anche sanzionatorie. Il Giudice del lavoro, pur ravvisando l’estraneità al nostro ordinamento del c.d. danno-sanzione, ha tuttavia ritenuto che “il danno (sebbene non quantificato) deve ritenersi oggetto di una presunzione dunque, un risarcimento “di natura indennitaria, fondata sulla presunzione legale del danno conseguente alla impossibilità di prosecuzione del rapporto (dovuta al divieto di conversione del rapporto); ad esso va inoltre riconosciuto carattere automatico, essendo previsto in ogni caso, per il solo fatto della violazione, da parte delle pubbliche amministrazioni, di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori”.
Su questa base allora, e fra le varie ipotesi a cui fare riferimento per la quantificazione, il Giudice del Lavoro ha ritenuto “più aderente al caso in questione quella prevista in tema di licenziamenti individuali”, cioè quale parametro per “determinare il risarcimento spettante”.
Una assimilazione dunque, che appare dettata al fine di assumere un parametro equitativo di liquidazione.
Appare condivisibile l’argomento svolto da CTR Roma n. 4472/01/2016 (in atti), in fattispecie del tutto analoga alla presente, per cui il risarcimento disposto dal Giudice del Lavoro “non è sostitutivo della retribuzione, da cui in ipotesi discenderebbe l’assoggettamento a tassazione, avendo piuttosto natura meramente ristoratrice, occasiona/mente parametrato (il risarcimento) con il ricorso, ai fini della determinazione appunto del suo ammontare, a determinate mensilità di retribuzione, ben potendo in ipotesi essere il danno da risarcire diversamente calcolato”.
L’appello dell’Ufficio deve pertanto essere respinto.
La particolarità della questione, suscettibile di orientamenti non univoci, giustifica la compensazione delle spese processuali del presente grado di giudizio.
La Commissione respinge l’appello dell’Ufficio.
Spese del grado compensate.
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