CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 dicembre 2016, n. 24671
Rapporto di lavoro – Svolgimento di attività lavorativa in stato di malattia – Violazione degli obblighi di correttezza – Lesione del vincolo fiduciario
Svolgimento del processo
Con ricorso del 18.3.2013 F.A., dipendente della T. s.p.a. con mansioni di conducente, proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale del lavoro di Roma n. 17938/12 che aveva rigettato la sua domanda diretta ad accertare l’inefficacia, nullità o annullabilità e comunque la sproporzione della “destituzione” disposta nei suoi confronti in data 20.4.2009 con ripristino del rapporto e corresponsione del risarcimento del danno. Si costituiva l’A. chiedendo il rigetto dell’appello. La Corte di appello con sentenza del 28.10.2013 rigettava l’appello. La Corte territoriale osservava che non risultava violato l’art. 434 c.p.c. così come novellato in quanto sostanzialmente emergevano chiaramente dall’atto di appello le parti e le ragioni decisorie della sentenza impugnata contestate con l’atto di appello. Nel merito osservava che l’A. aveva contestato al dipendente che, nonostante lo stato di malattia, era stato trovato alle ore 21 presso il paese ove risiedeva in una pizzeria con un grembiale nero svolgendo attività inerente l’ordinazione dei pasti, il servizio, la stesura e la riscossione del conto; l’appellante era stato invitato a fornire le sue giustificazioni, poi non pervenute. Ai sensi dell’art. 5 comma quinto Regolamento All. A al RD n. 148/1931, in relazione ai numeri 3-8 dell’art. 45 era stata disposta la destituzione. La Corte di appello riteneva che, a parte la violazione degli obblighi di correttezza riscontrabile nella vicenda non previste nelle ipotesi di destituzione applicate, emergeva la commissione di un’azione disonorevole ed immorale posto che il dipendente aveva svolto attività lavorativa in stato di malattia. La Corte aggiungeva che i fatti erano stati ammessi dal dipendente in sede di interrogatorio libero (riportandone alcuni stralci) e che lo stato di malattia è incompatibile in linea di principio con lo svolgimento di attività lavorativa. La comunicazione della GDF che aveva sorpreso l’appellante non era incompleta posto che risultava lo svolgimento di attività lavorativa ed erano chiaramente indicati i luoghi della stessa. La compatibilità tra malattia ed attività svolta doveva essere dimostrata dall’appellante e la sanzione non appariva sproporzionata visto il carattere moralmente e socialmente disdicevole dello svolgimento di attività, pur in stato di malattia, come tale idonea ad incrinare il rapporto fiduciario tra le parti.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso il F. con 5 motivi corredati da memoria ex art. 378 c.p.c.; resiste controparte con controricorso corredato da memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo si allega la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 45 del regolamento allegato al r.d. n. 148/31 e all’art. 15 disp. att. del c.p.c.: l’art. 45 del citato regolamento era stato tacitamente abrogato vista l’applicabilità dell’art. 7 L. n. 300/70 dopo la privatizzazione del rapporto.
Il motivo, a prescindere dal rilievo per cui nel motivo non si ricostruisce come sia stata sottoposta in appello la doglianza in parola (la sentenza impugnata non ne parla sicché sembrerebbe una “questione nuova”), appare infondato alla stregua dell’orientamento di questa Corte secondo il quale” il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri – ivi inclusa la procedura di irrogazione delle sanzioni disciplinari – è regolato da una normativa speciale costituente un “corpus” compiuto ed organico, non derogato dalle leggi generali successive relative al lavoro privato, onde il ricorso alla normativa generale è possibile soltanto ove si riscontrino in essa lacune tali che non siano superabili neanche attraverso l’interpretazione estensiva o analogica di altre disposizioni appartenenti allo stesso “corpus” o relative a materie analoghe o secondo i principi generali dell’ordinamento” (Cass. n. 5551/2013) per cui la normativa contestata non è stata abrogata. Se si fosse voluto, anche implicitamente, sostenere invece che tale normativa debba essere oggi applicata in modo compatibile con l’art. 7 L. n. 300/70 emerge dalla sentenza impugnata che il fatto è stato previamente contestato al dipendente che è stato chiamato a difendersi (cosa che non ha ritenuto di fare in sede disciplinare, ma solo in giudizio) e che la proporzionalità della sanzione è stata esaminata dai Giudici di appello.
Con il secondo motivo si allega la nullità della sentenza ex artt. 56 e 161 c.p.c. ex art. 360, comma primo n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 45 punto 6 del regolamento del r.d. n. 48/31 ed agli artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c. L’addebito era rimasto sfornito di prova perché il Rapporto della GDF non indicava le mansioni svolte dal ricorrente.
Il motivo, che in realtà sembrerebbe porre un problema di adeguatezza della motivazione, appare palesemente infondato posto che la sentenza impugnata ha ricordato che il lavoratore (che aveva anche un contratto di associazione in partecipazione per operare nella pizzeria ove fu sorpreso benché in stato di malattia) aveva in sede di interrogatorio libero ammesso i fatti, come risulta dalla trascrizione delle sue dichiarazioni in sentenza; inoltre per la GDF, anche se non se ne descrivono le mansioni, il ricorrente lavorava nella pizzeria.
Con il terzo motivo si allega l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione agli artt. 5, 45 n. 6 del Regolamento allegato al r.d. n. 148/31 ed ai principi generali del nostro ordinamento costituzionale. Non si trattava di un fatto disonorevole ed immorale tale da rendere il dipendente indegno della pubblica stima.
Il motivo appare inammissibile in quanto il “fatto” di cui si discute e cioè la gravità della condotta del dipendente trovato a lavorare in una pizzeria mentre era in stato di malattia e tale da integrare l’ipotesi di destituzione di cui al n. 6 dell’art. 45 del Regolamento prima citato è già stato valutato nei suoi contorni dai Giudici di merito e pertanto tale valutazione, dopo la nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. applicabile ratione temporis, non può essere sindacata come vizio di motivazione posto che l’accertamento operato dai Giudici di appello supera certamente la soglia del “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un. 8053/2014).
Con il quarto motivo si allega la violazione dell’art. 2697 c.c.: la prova in ordine dell’incidenza dell’attività lavorativa sul recupero psico-fisico del dipendente spettava al datore di lavoro.
Il motivo appare infondato in quanto il principio affermato dalla sentenza impugnata risulta anche recentemente confermato da questa Corte che ha stabilito che” il lavoratore, al quale sia contestato in sede disciplinare di avere svolto un altro lavoro durante un’assenza per malattia, ha l’onere di dimostrare la compatibilità dell’attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche, restando, peraltro, le relative valutazioni riservate al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto” (Cass. n. 586/2016).
Nel motivo peraltro non si allega in alcun modo elementi per ritenere tale compatibilità non emergendo dal motivo neppure quale fosse la malattia sofferta dal ricorrente.
Con il quinto motivo si allega la violazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. per omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione agli artt. 45 all. r.d. n. 148/31, 1175, 1375, 2104, 2105, 2119 e 2697 c.c.La condotta del ricorrente non era stata valutata.
Il motivo appare inammissibile per quanto già detto a proposito del terzo motivo: il “fatto” di cui si discute e cioè la gravità della condotta del dipendente trovato a lavorare in una pizzeria mentre era in stato di malattia e tale da integrare l’ipotesi di destituzione di cui al n. 6 dell’art. 45 del Regolamento prima citato è già stato valutato nei suoi contorni dai Giudici di merito e pertanto tale valutazione, dopo la nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. applicabile ratione temporis, non può essere sindacata come vizio di motivazione posto che l’accertamento operato dai Giudici di appello supera certamente la soglia del minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un. 8053/2014).
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come al dispositivo, seguono la soccombenza.
La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 100,00 per esborsi, nonché in euro 3.500,00 per compensi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge.
La Corte ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis, dello stesso articolo 13.