CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 maggio 2017, n. 12712

Licenziamento – Per giusta causa – Anomalie – Verifica straordinaria – Gravissime negligenze del lavoratore – Prova

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Catanzaro con sentenza del 24 aprile – cinque giugno 2014, in riforma della pronuncia del locale giudice del lavoro, impugnata da P. A. il 31 maggio 2013, accogliendo l’interposto gravame e quindi la domanda del ricorrente, annullava il licenziamento a costui intimato il 5 dicembre 2011 da A. S.p.a., con ogni conseguente tutela reintegratoria ex art. 18 L. n. 300/70 (secondo il testo ratione temporis nella specie applicabile). La Corte riteneva la violazione dell’art. 7 della suddetta legge per inosservanza del requisito dell’immediatezza, in quanto non era stato provato che parte datoriale avesse avuto conoscenza soltanto nel mese di ottobre dell’anno 2011 delle irregolari liquidazioni, poi contestate in via disciplinare il 16 novembre 2011 al lavoratore, relativamente a sinistri accaduti dal marzo 2007 sino all’ottobre 2009. Anzi, secondo la Corte distrettuale, emergeva il contrario, avuto riguardo alla dichiarazione confessoria desunta dalle dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio dal legale rappresentate della società, laddove si era fatto riferimento all’emergenza di anomalie già nella verifica precedente (a quella straordinaria, da cui era poi derivata la contestazione disciplinare) compiuta nello stesso anno.

Dunque, in base pure alla citata giurisprudenza, la Corte territoriale riteneva in primo luogo violato il diritto di difesa del lavoratore, poiché sebbene fosse vero che l’attore si era difeso, tale difesa, per come risultante in atti, non comportava la mancanza del relativo pregiudizio. Infatti, il P. a fronte di ben 15 condotte, tutte assai risalenti nel tempo, si era limitato dal punto di vista formale a difendersi solo per cinque, assumendo che queste erano state autorizzate dal supervisore, mentre nel merito egli si era limitato al dedotto rispetto di prassi aziendali conformi.

Era palese il pregiudizio subito dal lavoratore, che nel contesto di migliaia di liquidazioni operate nel corso dell’intervallo di tempo considerato, si era trovato “improvvisamente a ricevere contestazioni per 15 di esse intervenute nell’arco di quattro anni”.

Inoltre, risultava evidente che la rilevata tardività, unitamente alla pluralità delle contestazioni di fatti accaduti nell’arco di due anni e contestati dopo altri due, deponeva per una grave violazione dei principi di correttezza e buona fede da parte datoriale; ciò che lasciava addirittura intravedere un intento di malafede, confermato dalla circostanza che la società non aveva neppure proceduto alla contestazione anche nel momento in cui erano emerse anomalie già nella precedente verifica compiuta nello stesso anno. Che poi il rilevato notevole ritardo fosse addebitabile alla complessa organizzazione aziendale non era affatto provato. Né comunque una tale prova avrebbe potuto legittimare una condotta così difforme dai dettato normativo, sia dal punto di vista oggettivo (quattro anni dalla prima violazione) sia dai punto di vista soggettivo (provata conoscenza delle violazioni in epoca in ogni caso anteriore alla contestazione.

Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione A. S.p.A. con atto del 3/4 dicembre 2014, affidato a quattro motivi, cui ha resistito P. A. mediante controricorso (12/15 gennaio 2015).

Risulta depositata memoria ex art. 378 c.p.c. dalla sola società ricorrente.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, è stato denunciato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’articolo 360 comma 1° numero 5 c.p.c., nella parte in cui la sentenza aveva considerato tardiva la contestazione degli addebiti, omettendo però di considerare che tale contestazione aveva avuto ad oggetto le liquidazioni operate dall’attore e non già le denunce di sinistro.

La sentenza impugnata aveva erroneamente preso in considerazione il momento di denuncia dei sinistri e non quello della loro liquidazione; aveva erroneamente esaminato il lasso di tempo trascorso tra i fatti e la contestazione, mentre il rispetto del principio di tempestività andava verificato con riferimento all’arco temporale trascorso tra la conoscenza dei fatti e la loro contestazione; aveva erroneamente desunto dalla dichiarazione del procuratore speciale che la ricorrente avesse già da tempo preso conoscenza delle negligenze del dipendente, mentre in realtà la società aveva dapprima, nel corso del 2011, acquisito elementi che l’avevano indotta a dubitare della correttezza della condotta del lavoratore, dopodiché sempre nel 2011, con riferimento al lasso di tempo già trascorso (anni 2009 e 2010), aveva passato in rassegna le pratiche liquidate dal P., trovandosi davanti ad una molteplicità di comportamenti estremamente gravi.

Con il secondo motivo la ricorrente società si è doluta della violazione e falsa applicazione, ex articolo 360 comma 1° numero 3 c.p.c., dell’articolo 7 L. n. 300/1970, laddove la sentenza di appello non aveva valutato in senso “relativo” il principio della tempestività della contestazione. In sintesi, l’impugnata pronuncia andava riformata perché, in violazione del citato articolo 7, aveva applicato il principio di tempestività, omettendo di prendere in esame gli elementi derivanti dalle caratteristiche dell’infrazione, dalle dimensioni dell’azienda e dal ruolo rivestito dal P., che imponevano un’interpretazione in senso relativo e che rendevano compatibile un intervallo di tempo, dalla conoscenza alla contestazione, necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti.

Con il terzo motivo è stata denunciata la violazione e falsa applicazione dell’articolo 7 citato, per aver l’impugnata pronuncia ritenuto violato il diritto di difesa del lavoratore e per avere affermato che l’azienda aveva agito in malafede.

Tra l’altro, la sentenza impugnata aveva omesso completamente di considerare la circostanza già dedotta dalla società e confermata dallo stesso ricorrente, che nella giornata del 16 novembre 2011 parte datoriale aveva consentito al dipendente di consultare tutti i documenti relativi ai sinistri contestati, dalle 14:50 alle 17:30, mentre il lavoratore si era trattenuto per soli venti minuti. Anche il giudice di primo grado aveva evidenziato l’insussistenza di alcuna violazione del diritto di difesa, essendo stato il ricorrente messo in condizione di visionare i fascicoli degli atti relativi ai sinistri in contestazione. Infatti, quest’ultimo aveva dichiarato di aver potuto visionare, nella stessa data del 16 novembre 2011, tutta la documentazione relativa alla contestazione disciplinare; né aveva in qualche modo fatto richiesta di meglio approfondirne l’esame mediante differimento dell’audizione disciplinare. Inoltre, a differenza di quanto opinato dal giudice di secondo grado, la difesa del P. era stata assolutamente specifica come da sua lettera di giustificazioni inviate il 23 novembre 2011, laddove aveva preso posizione su tutti gli addebiti mossigli, avendo avuto la possibilità concreta di consultare tutto il materiale relativo alle pratiche oggetto della contestazione. In nessun passaggio della lettera di giustificazioni l’incolpato aveva lamentato di non essere in grado di difendersi a causa del tempo trascorso.

La sentenza d’appello era, dunque, errata, in quanto nel caso di specie il lavoratore non aveva dato la prova che il lasso di tempo trascorso avesse pregiudicato il proprio diritto di difesa: l’azienda aveva fatto tutto il necessario per consentire all’interessato di difendersi, mettendogli a disposizione l’intera documentazione relativa alle pratiche oggetto di contestazione. Il dipendente aveva consultato la documentazione per un lasso di tempo ridotto, senza mai chiedere di consultare ulteriormente tale documentazione e senza neppure chiederne copia, né aveva mai sollevato dubbi di tempestività nella sua lettera di giustificazioni.

Del tutto ingiustificata appariva, altresì, la opinata violazione dei principi di correttezza e buona fede. Come emergeva dalle dichiarazioni del procuratore della società (in sede di libero interrogatorio), l’azienda venne a conoscenza di alcune anomalie nel corso dell’anno 2011 ed eseguì la verifica straordinaria, che metteva tutte insieme le gravissime negligenze poste in essere dal P. negli anni 2009 e 2010. Nel momento in cui si svolse la suddetta verifica i comportamenti inadempienti contestati erano stati tutti già realizzati, sicché erano inconferenti ed errate le osservazioni, secondo cui l’azienda avrebbe atteso che il dipendente accumulasse mancanze al fine di licenziarlo.

Nel richiamare varie pronunce di legittimità (Cass. 1 aprile 2000 n. 3948, 26 ottobre 2004 n. 20729 e 18 settembre 2009 n. 20270) la società ricorrente ha evidenziato il principio, secondo cui l’immediatezza e la tempestività, che condizionano la validità del licenziamento per giusta causa, vanno intesi in senso relativo e possono, nei casi concreti, essere compatibili con un intervallo temporale reso necessario all’accertamento dei fatti da contestare ed alla valutazione degli stessi, soprattutto quando il comportamento del lavoratore consti di una serie di dati fattuali che, convergendo a comporre un’unica condotta, esigono una valutazione globale del datore di lavoro, ed in questa ipotesi l’intimazione del licenziamento può seguire l’ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale da quelli precedenti.

Con il quarto ed ultimo motivo di ricorso, è stata altresì lamentata la violazione e falsa applicazione, ex articolo 360 numero 3 c.p.c., degli articoli 229 e 117 dello stesso codice, avendo la Corte erroneamente attribuito valore confessorio alle dichiarazioni rese dal legale rappresentante in sede di libero interrogatorio. La valutazione della dichiarazione del procuratore speciale era del tutto errata e la stessa prospettata valenza confessoria era smentita dall’articolo 229 del codice di rito, secondo cui la confessione spontanea può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, salvo il caso dell’articolo 117, quest’ultimo relativo all’interrogatorio non formale che ha la funzione soltanto di chiarire le allegazioni contenute negli atti e non potrebbe mai avere l’ipotizzato valore confessorio.

Le anzidette censure, sufficientemente enunciate ex art. 366 c.p.c. e documentate ai sensi dell’art. 369 dello stesso codice, appaiono fondate nei seguenti limiti.

In primo luogo, sono giustificate le doglianze di cui al quarto motivo, relativamente alle dichiarazioni rese dal proprio rappresentante in sede di libero interrogatorio, alle quali non può attribuirsi un’indiscriminata valenza confessoria.

Ed invero, l’art. 229 c.p.c. stabilisce il principio secondo cui la confessione spontanea può essere contenuta in qualsiasi atto processuale firmato dalla parte personalmente, salvo il caso dell’art. 117, che riguarda appunto l’interrogatorio non formale delle parti {il giudice, in qualunque stato e grado del processo, ha facoltà di ordinare la comparizione personale delle parti in contraddittorio tra loro per interrogarle liberamente sui fatti della causa. Le parti possono farsi assistere dai difensori).

A sua volta, poi, l’art. 420 c.p.c. si limita, per quanto qui più direttamente interessa, a stabilire che nell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti e tenta la conciliazione della lite e che soltanto la mancata comparizione personale delle parti, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio.

Dunque, le dichiarazioni rese in sede d’interrogatorio libero o non formale, che è istituto finalizzato alla chiarificazione delle allegazioni delle parti e dotato di funzione probatoria a carattere meramente sussidiario, non possono avere valore di confessione giudiziale ai sensi dell’art. 229 cod. proc. civ., ma possono soltanto fornire al giudice elementi sussidiari di convincimento utilizzabili ai fini del riscontro e della valutazione delle prove già acquisite (cfr. sul punto Cass. lav. n. 17239 del 22/07/2010. In senso conforme v. anche Cass. lav. n. 12500 del 26/08/2003 e n. 1519 del 27/02/1990.

Analogamente, Cass. lav. n. 374 del 16/01/1981 ha ritenuto che l’interrogatorio libero delle parti previsto dall’art. 420 c.p.c. per il rito del lavoro, analogamente a quello previsto per il rito ordinario, dall’art. 117 dello stesso codice, non essendo preordinato a provocare la confessione della parte, non costituisce un mezzo di prova e le dichiarazioni rese in detto interrogatorio costituiscono solo argomenti di prova, cioè elementi sussidiari di convincimento. Pertanto, l’omissione di una esplicita valutazione delle risultanze dell’interrogatorio libero da parte del giudice di merito non costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo della controversia, perché le circostanze non possono considerarsi provate e perché non si verifica detto vizio per la mancata valutazione di un elemento puramente indiziario che tenda a prospettare, in via presuntiva e senza importare di per sé un giudizio di certezza, l’astratta possibilità di una diversa soluzione. Conforme Cass. 145/1979).

Ciò premesso, può soltanto ammettersi (v. Cass. II civ. n. 27407 del 29/12/2014) che le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio non formale, pur se prive di alcun valore confessorio, in quanto detto mezzo è diretto semplicemente a chiarire i termini della controversia, tuttavia possono costituire il fondamento del convincimento del giudice di merito, al quale è riservata la valutazione, non censurabile in sede di legittimità, se congruamente e ragionevolmente motivata, della loro concludenza e attendibilità (conformi Cass. n. 6510 del 2/4/2004, n. 7002 del 2000, n. 15849 del 2001).

Nei sensi predetti, pertanto, appare errata la sentenza impugnata laddove si parla di dichiarazione confessoria.

Parimenti, appaiono giustificate le prime tre doglianze di parte ricorrente, che per la loro connessione possono essere esaminate congiuntamente, in ordine al controverso ritardo nella contestazione disciplinare, laddove l’impugnata sentenza non risulta allo stato aver debitamente considerato il principio di diritto (cfr. in part. Cass. lav. n. 21546 del 15/10/2007), secondo cui in materia di licenziamento per giusta causa il lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini della valutazione dell’immediatezza del provvedimento espulsivo, deve decorrere dall’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non dall’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi; in particolare, il datore di lavoro deve fornire la prova del momento in cui ha avuto la piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore e non anche delle circostanze per cui non abbia potuto effettuare la contestazione a ridosso dei fatti (cfr. altresì Cass. lav. n. 24584 del 26/11/2007, secondo cui il giudizio sulla immediatezza della contestazione, da valutare sempre in rapporto alla complessità dell’organizzazione aziendale ed al tempo necessario per gli accertamenti del caso, non può prescindere dal momento in cui il datore di lavoro sia venuto a conoscenza della riprovevole condotta del dipendente).

Orbene, premesso che l’accertamento specifico in punto di in fatto compete unicamente al giudice di merito, di modo che non è possibile provvedervi in questa sede di legittimità, la sentenza d’appello qui impugnata appare comunque errata nella concreta falsa applicazione dell’art. 7 L. n. 300/1970, laddove tra l’altro il tempo da computarsi per stabilire la tempestività o meno della contestazione deve essere considerato in relazione al momento di conoscenza dell’accadimento disciplinarmente rilevante da parte datoriale, e non già con riferimento al momento storico del fatto rispetto al suo verificarsi, tenuto conto inoltre di tutte le circostanze del caso concreto, sicché anche l’obbligo di contestazione immediata non può ritenersi sussistente per il solo fatto che la notizia della condotta disciplinarmente rilevante giunga a conoscenza di parte datoriale, occorrendo altresì uno spatium deliberandi in proposito al fine di delibarne un minimo di fondatezza con il compimento anche delle pur necessarie indagini volte alla sua verifica (v. sul punto tra le altre Cass. lav. n. 1248 del 25/01/2016, secondo cui nel licenziamento per motivi disciplinari, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito, che si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, deve essere inteso in senso relativo, dovendosi tenere conto della specifica natura dell’illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini, maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale).

Per contro, la sentenza de qua pare aver considerato meccanicamente ed oggettivamente l’intervallo temporale tra il momento delle liquidazioni contestate al P. e quello della contestazione, senza inoltre considerare quali concrete circostanze abbiano effettivamente pregiudicato i diritti di difesa dell’incolpato, ciò desumendo in effetti dalla sola distanza di tempo tra i fatti e l’addebito.

Al riguardo, questa Corte con sentenza n. 22791 del 5/06 – 7/10/2013, non massimata, in motivazione ha ribadito che: “… il requisito in esame è compatibile con un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti contestati, specie quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti convergenti in una unica condotta ed implichi, pertanto, una valutazione globale ed unitaria; in tal caso l’intimazione del licenziamento può seguire l’ultimo di questi fatti, anche ad una certa distanza temporale dai fatti precedenti (Cass. n. 7983/2008, Cass. n. 282/2008, Cass. n. 22066/2007, Cass. n. 18711/2007, Cass. n. 3948/2000). Rileva, inoltre, l’avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata, e non l’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi (Cass. n. 23739/2008, Cass. n. 21546/2007). È stato altresì precisato (Cass. n. 5308/2000) che il requisito dell’immediatezza della contestazione è posto a tutela del lavoratore ed inteso a consentirgli un’adeguata difesa, onde il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che il prudente indugio dei datore di lavoro, ossia la ponderata e responsabile valutazione dei fatti, può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che sarebbe palesemente colpito da incolpazioni avventate o comunque non sorrette da una sufficiente certezza da parte del datore di lavoro (Cass. n. 1101/2007, Cass. n. 241/2006)…”.

Ancor più recentemente, poi, è stato condivisibilmente affermato (v. la sentenza n. 10069 del 17/05/2016) il principio di diritto, secondo cui il datore di lavoro ha il potere, ma non l’obbligo, di controllare in modo continuo i propri dipendenti, contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento, atteso che un simile obbligo, non previsto dalla legge, né desumibile dai principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato, sicché la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse controllato assiduamente l’operato del dipendente, ma con riguardo all’epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza.

Pertanto, nei sensi sopra indicati l’impugnata pronuncia deve essere cassata, anche in relazione alle spese di questo giudizio, con rinvio ad altra Corte di merito per nuovo esame dei fatti di causa e conseguenti accertamenti, attenendosi però ex art. 384 c.p.c. agli anzidetti richiamati principi.

Stante l’accoglimento dell’impugnazione, non sussistono i presupposti di legge per il versamento dell’ulteriore contributo unificato.

P.Q.M.

Accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso. Cassa l’impugnata sentenza. Rinvia alla Corte di Appello di Reggio Calabria anche per le spese di questo giudizio di legittimità.