CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 dicembre 2016, n. 26930
MASSIMA
Non integra violazione del dovere di fedeltà, né tanto meno giusta causa di licenziamento la condotta della lavoratrice che, ritenendosi ingiustamente destinataria di numerose contestazioni disciplinari, invia una lettera di denunzia ai suoi superiori, nella quale esercita il legittimo esercizio di critica.
Contestazione disciplinare – Diritto di critica – Aggressione verbale nei confronti di un superiore – Licenziamento per giusta causa – Illegittimità – Reintegrazione nel posto di lavoro – Risarcimento del danno
Fatto
Con sentenza 24 settembre 2014, la Corte d’appello di Brescia rigettava l’appello proposto da F. F. & P. N.t.m. s.p.a. (già O. P. s.r.l.) avverso la sentenza di primo grado, che aveva accertato l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato dalla società il 2 aprile 2010 alla dipendente P. T., condannandola alla sua reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno, pari alle retribuzioni nel periodo non corrisposte, detratto l’aliunde perceptum, oltre accessori di legge e contributi previdenziali e assistenziali.
A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva la giusta causa del licenziamento, ravvisando nella lettera, alla base della contestazione disciplinare, della lavoratrice, addetta alle mansioni di assicurazione della qualità, l’esercizio di un legittimo diritto di critica e negando nel successivo episodio di aggressione verbale nei confronti di un superiore, pure oggetto di contestazione disciplinare, la natura di atto di insubordinazione Con atto notificato il 21 marzo 2014, la società ricorre per cassazione con quattro motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resiste la lavoratrice con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 51 e 52 CCNL Industria Chimica del 10 maggio 2006, per l’esclusione della legittimità del licenziamento sulla base del solo illecito disciplinare dell’atto di insubordinazione verso i superiori.
Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 30 I. 183/2010, 51 e 52 CCNL Industria Chimica del 10 maggio 2006, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per la negazione di atto di insubordinazione verso i superiori nell’aggressione verbale del sig. S..
Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2105, 2106, 2119 c.c., 52, primo comma CCNL Industria Chimica del 10 maggio 2006, anche in riferimento agli artt. 21 Cost. e 1 l. 300/1970, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per la ravvisata legittimità di espressione del diritto di critica nella lettera di denuncia 8 marzo 2010 della lavoratrice, nonostante il mancato rispetto dei limiti di continenza formale né sostanziale, sul quale ultimo neppure nulla detto.
Con il quarto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2105, 2106, 2119 c.c., 52, CCNL Industria Chimica del 10 maggio 2006, anche in riferimento agli artt. 594, 595, 599 e 612 c.p., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per la negazione di atto di insubordinazione verso i superiori nell’aggressione verbale della lavoratrice.
Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 51 e 52 CCNL Industria Chimica del 10 maggio 2006, per esclusione della legittimità del licenziamento sulla base del solo illecito disciplinare dell’atto di insubordinazione verso i superiori, è inammissibile.
Esso è, da una parte, privo di una specifica confutazione della qualificazione della fattispecie disciplinare operata dalla Corte territoriale, sostanzialmente riducibile alla davvero generica doglianza di non corretta limitazione della valutazione delle due condotte addebitate alla lavoratrice alla sola ipotesi dell’insubordinazione, trascurando la violazione delle norme di correttezza e buona fede e, più in generale, dei principi dell’etica comune (al primo capoverso di pg. 40 del ricorso). Sicché, così come formulato, esso viola la prescrizione di specificità dell’art. 366, primo comma, n. 4 c.p.c., che esige l’illustrazione del motivo con esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202).
Sotto altro profilo, esso si risolve nella contestazione (come detto, pure generica) di una qualificazione risultante da un accertamento in fatto del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità, in quanto adeguatamente giustificato (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), sulla base delle ragioni esposte (a pgg. da 4 a 7 della sentenza).
Il secondo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 30 I. 183/2010., 51 e 52 CCNL Industria Chimica del 10 maggio 2006, per la negazione di atto di insubordinazione verso i superiori nell’aggressione verbale del sig. S.) può essere congiuntamente esaminato, per ragioni di stretta connessione, con il quarto (violazione e falsa applicazione degli artt. 2105, 2106, 2119 c.c., 52, CCNL Industria Chimica del 10 maggio 2006, anche in riferimento agli artt. 594, 595, 599 e 612 c.p., per la negazione di atto di insubordinazione verso i superiori nell’aggressione verbale della lavoratrice).
Essi sono inammissibili, in quanto consistenti in censure intese ad una sostanziale rivisitazione del merito, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), laddove adeguatamente motivato. E ciò in riferimento all’attenta ed argomentata ricostruzione del contesto ambientale lavorativo ed emotivo personale di maturazione dell’esasperata
reazione verbale della lavoratrice, di cui più che plausibilmente è stata esclusa la rilevanza disciplinare contestata (per le ragioni esposte dal penultimo capoverso di pg. 10 al penultimo di pg. 11 della sentenza).
Appare, infine, inconferente la censura della ricorrente in ordine al richiamo dell’esimente della provocazione, per escluderne la ricorrenza in senso tecnico: non avendo all’evidenza la Corte territoriale, con l’espressione “la frase sfuggita era seguita ad un atteggiamento un pò provocatorio del Saia” (al primo capoverso di pg. 11 della sentenza), inteso riferirsi alla nozione penalistica, ma semplicemente illustrare, nella propria argomentata valutazione del merito dell’episodio, l’”esasperazione” della lavoratrice, priva di un “dolo di insubordinazione” (ibid.)
Il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2105, 2106, 2119 c.c., 52, primo comma CCNL Industria Chimica del 10 maggio 2006, anche in riferimento agli artt. 21 Cost. eli. 300/1970 per la ravvisata legittimità di espressione del diritto di critica nella lettera di denuncia 8 marzo 2010 della lavoratrice, nonostante il mancato rispetto dei limiti di continenza formale né sostanziale, è infondato.
Ed infatti, la Corte territoriale ha operato, sotto il profilo di diritto, una corretta sussunzione della fattispecie concreta nella categoria giuridica dell’insubordinazione, operandone una valutazione coerente con i principi di diritto in materia di legittimo esercizio del diritto di critica: nel rispetto dei limiti di continenza formale e sostanziale, nella ravvisata carenza di lesività della condotta della lavoratrice del decoro dell’impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro; pertanto inidonea a ledere definitivamente la fiducia alla base del rapporto di lavoro, cosi non integrando violazione del dovere di fedeltà posto dall’art. 2105 c.c., né tanto meno giusta causa di licenziamento (Cass. 18 settembre 2013, n. 21362; Cass. 8 luglio 2009, n. 16000; Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008).
Essa ha così fondato la propria decisione sulla sicura esclusione nella lettera di P. T. di una “volontà … di gettare discredito, ma di difendere un lavoratore che … riteneva essere ingiustamente bersagliato dalle contestazioni disciplinari” (così al penultimo capoverso di pg. 9 della sentenza). E ciò in esito ad un accertamento in fatto incensurabile in sede di legittimità se, come nel caso di specie, correttamente e congruamente motivato (Cass. 14 maggio 2012, n. 7471).
Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso e la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 100,00 per esborsi e € 4.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15 % e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.