CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 marzo 2017, n. 7801
Lavoro – Contratto a tempo indeterminato – Collaboratore professionale – Mancato superamento della prova – Recesso – Impugnativa – Termine di decadenza
Fatti di causa
Con sentenza in data 30 dicembre 2015, la Corte d’Appello di Ancona, confermando la decisione del Tribunale della stessa sede n. 322/2014, ha rigettato il ricorso di L.Z., assunta con contratto a tempo indeterminato dal 17/8/2009 in qualità di collaboratore professionale sanitario/tecnico della Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria – e Ospedali Riuniti di Ancona.
La Corte d’Appello ha ritenuto legittimo il recesso dell’Azienda ospedaliera per mancato superamento della prova, considerando inutilmente spirato il termine di decadenza per l’impugnativa, di cui all’art. 32, comma 2, della I. n. 183/2010 (cd. Collegato lavoro), che ha novellato l’art. 6, della I. n. 604/1966.
La Corte ha, pertanto, ritenuto applicabile il nuovo termine d’impugnazione del licenziamento al recesso dal patto di prova, presupponendo altresì verificata la condizione stessa del recesso, consistente nel l’accerta mento del completo ed effettivo svolgimento dell’esperimento da parte della dipendente.
Avverso tale decisione ricorre in Cassazione L.Z., affidando le sue ragioni a tre censure.
Resiste con controricorso l’Azienda Ospedaliera Universitaria – e Ospedali Riuniti di Ancona.
La ricorrente presenta memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
1. Nel primo motivo parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della l. 604/1966 e della I. 183/2010.
Ritiene che il giudice di merito, riconducendo erroneamente la fattispecie al nuovo termine di decadenza introdotto per i licenziamenti dal “Collegato lavoro”, abbia violato la norma specifica sul recesso dal patto di prova (art. 10 I. n. 604/1966), che esclude l’istituto dall’applicazione delle decadenze previste sia dalla I. n. 604/1966 sia dalla I. n. 183/2010.
2. Nel secondo motivo la censura si appunta sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della I. n. 183/2010, specificamente laddove la sentenza gravata ha esteso la novella del 2010 al recesso dal rapporto di lavoro in prova.
3. Nel terzo motivo si contesta l’estensione dell’applicabilità dei nuovi termini ai licenziamenti intimati e impugnati prima del 24/11/2010 in virtù del principio generale dell’irretroattività delle leggi (art. 11 delle preleggi), e anche per l’espressa previsione, nello stesso “Collegato lavoro”, di una disciplina transitoria in tema di retroattività dell’applicazione del nuovo termine di decadenza riferita ai soli contratti a tempo determinato.
I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente essendo connesse le ragioni a essi sottese.
Essi sono fondati.
La legge n. 604/1966, riferendosi espressamente ai lavoratori assunti in prova, sancisce all’art. 10 che le norme della I. n. 604/1966 non sono applicabili se non nel momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro. La norma, evidentemente, si preoccupa di garantire il diritto primario del lavoratore al consolidamento del rapporto, statuendo che ogni valutazione sull’adeguatezza della prestazione possa essere espressa solo dopo un tempo minimo, la cui determinazione è lasciata all’autonomia contrattuale.
La previsione normativa (art. 2096 cod. civ.) secondo cui, durante il periodo di prova, ciascuna delle parti può recedere liberamente dal contratto, ed è dispensata dall’onere di addurne una giustificazione, spiega che a detto atto di recesso unilaterale l’ordinamento attribuisce una diversa ratio rispetto al licenziamento, consistente nel far sì che i contraenti verifichino la reciproca convenienza a rendere stabile il rapporto, una ratio aderente alla causa propria del patto di prova. Sicché, il tema dell’applicabilità della disciplina del licenziamento avrebbe potuto porsi, eventualmente, solo qualora la dipendente avesse avuto l’opportunità di svolgere un periodo minimo effettivo di prova.
Va, dunque, preliminarmente verificata la congruenza della motivazione dei giudici d’Appello sul punto riguardante la validità del recesso anticipato da parte dell’Azienda sanitaria in rapporto al godimento del diritto sostanziale della dipendente al completo svolgimento della prova.
In proposito, il c.c.n.I. del comparto della dirigenza medica (1/9/1995), all’art. 15, prevede un “periodo di prova minimo” di tre mesi, soltanto trascorso il quale le parti avrebbero potuto esercitare legittimamente il potere unilaterale di recesso. I giudici dell’Appello, hanno ritenuto, dunque, verificata la piena validità ed efficacia del recesso, sul presupposto che fosse utilmente trascorso il periodo minimo di tre mesi dalla costituzione del rapporto in prova.
Dalle risultanze del merito riportate nella decisione gravata, emerge in contrario come i tre mesi di lavoro non fossero effettivamente trascorsi, in quanto, a soli dodici giorni dallo scadere del trimestre minimo contrattuale in prova, la ricorrente era stata adibita dall’Azienda a mansioni amministrative, non pertinenti al proprio profilo contrattuale, con una motivazione non priva di opacità, consistente nel fatto che, avendo dichiarato il suo stato di gravidanza, se ne dovesse provvedere lo spostamento in una zona non a rischio.
La sentenza gravata merita, dunque, censura, in quanto, focalizzando la motivazione sulla decadenza dall’impugnazione stabilita dall’art. 32 del “Collegato lavoro” al recesso dal periodo di prova da parte della ricorrente, trascura di pronunciarsi sulla circostanza dirimente per la quale ella non era stata posta in grado di esperire la prova per il periodo minimo, come sarebbe stato nel suo diritto, con ciò risultandone vanificata la funzione stessa dell’istituto, consistente nella possibilità di dimostrare le capacità e di dimostrare all’azienda la convenienza alla costituzione del rapporto di lavoro.
Tale errore nella motivazione produce un radicale spostamento del piano dell’indagine.
L’applicabilità del nuovo termine di decadenza all’impugnativa del recesso dal periodo di prova, avrebbe potuto costituire oggetto d’indagine a condizione che quest’ultima si fosse basata sul corretto presupposto che, non essendo stata completata la prova per il periodo minimo fissato dal contratto collettivo, il regime disciplinare non poteva essere quello del licenziamento, nella misura in cui alcun rapporto di lavoro si era ancora costituito tra le parti.
Quanto detto ci riporta alle conclusioni di questa Corte, pienamente condivise da questo Collegio, a cui si rinvia, in base alle quali “…Una volta accertata l’illegittimità del recesso – quando risulti che l’esperimento non è stato consentito per l’inadeguatezza della durata della prova o per il superamento della prova per l’inesistenza del motivo illecito, consegue che anche dove sussistano i requisiti numerici – non si applicano, quanto alle conseguenze, la I. n. 604/1966 o l’art. 18 della I. n. 300/1970 come modificate, ma si ha unicamente la prosecuzione della prova, per il periodo di tempo mancante al termine prefissato, oppure il risarcimento del danno, non comportando la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova che il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito” (Cass 23231/2010); adde Cass. 469/2015 e 1180/2017.
Sotto un diverso profilo la sentenza gravata va altresì censurata laddove respinge l’argomentazione della ricorrente che ritiene che la normativa sui licenziamenti individuali di cui alla legge n. 604/1966 novellata nel 2010, sarebbe applicabile soltanto nel caso in cui l’assunzione diventi definitiva e comunque quando siano decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro, con implicito richiamo all’art. 10 della I. n. 604.
Prima dell’entrata in vigore della I. n. 183/2010, la I. n. 604/1966 non si applicava a tutti i casi di licenziamento, così che la finalità del legislatore, con la I. n. 183/2010 appare quella di voler allargare in modo omnicomprensivo l’ambito di applicazione del nuovo regime decadenziale, per un’esigenza di uniformità e di certezza del diritto, attraverso un’espressa previsione. In tal senso, all’elenco delle fattispecie sottoposte alla nuova disciplina dei termini d’impugnativa del licenziamento va dato valore tassativo, e se tra queste il legislatore non ha fatto menzione del recesso intervenuto durante il periodo di prova, ciò deriva dalla diversa ratio che connota tale istituto rispetto al licenziamento.
L’art. 2096 cod. civ. attribuisce un valore “neutro” al recesso dei due contraenti in prova, anche se, considerate le specifiche caratteristiche del mercato del lavoro e la posizione meno garantita del lavoratore, deve ritenersi che detto recesso abbia una valenza assai diversa quando è egli stesso a subirne le conseguenze. Proprio tale asimmetria delle posizioni contrattuali, unitamente al diritto del lavoratore a esperire completamente la prova, costituisce implicita conferma che l’impugnativa del recesso dal patto resti ancorata al termine d’impugnativa quinquennale perché non ricorrono per questo istituto le medesime esigenze che hanno portato all’introduzione del più breve termine decadenziale per l’impugnativa dei licenziamenti da parte della I. n. 183/2010.
L’art. 32 della I. n. 183/2010, ha inteso sottoporre alla disciplina dei licenziamenti alcune figure di allontanamento dal lavoro che non rientrano nella fattispecie tipica, individuandole in modo nominativo, proprio per evidenziare la delicatezza della scelta di estendere la nuova disciplina a fattispecie prima non contemplate dalla I. n. 604/1966. Al comma 3 dell’art. 32, lett. a) b) e c) vengono richiamati i recessi che presuppongono la risoluzione di questioni relative a problemi di qualificazione del rapporto, il recesso del committente dai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto; il trasferimento ai sensi dell’art. 2013 cod. civ.
Non può revocarsi in dubbio, pertanto, data l’indicazione tassativa delle ipotesi omnicomprensivamente ricondotte alla nuova disciplina dell’impugnativa del recesso, che l’istituto del patto di prova ne resti escluso. Neppure esso può essere ricompreso nell’art. 32 laddove esso, nel circoscrivere il campo di applicazione della nuova norma, la estende “…anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”, perché tale norma di chiusura deve intendersi riferita unicamente alle ipotesi di recesso unilaterale del datore da un rapporto di lavoro che sia già in essere o perfezionato (da ultimo si veda Cass. 26163/2016; Cass 74/2017).
Quanto al terzo motivo di ricorso esso è egualmente fondato.
La decisione gravata postula un’espansione dell’applicabilità del nuovo termine di decadenza anche ai diritti maturati prima della sua introduzione (Cass. n. 26163/2016). La motivazione poggia sul presupposto che, non incidendo la retroattività sulla natura del diritto, ma spostandone unicamente il dies a quo del godimento al nuovo termine coincidente con l’entrata in vigore della I. n. 183/2010, una siffatta soluzione impedirebbe che l’applicazione rigida del principio d’irretroattività possa venire a determinare una disparità di trattamento fra titolari della medesima categoria di diritti.
La motivazione non si rivela corretta perché, anche volendo prescindere dal fatto che la stessa I. n. 183/2010, prevede un regime transitorio, per i contratti a tempo determinato già stipulati alla data di entrata in vigore della nuova legge (art. 32, comma 4 lett. a) essa non resiste all’obiezione di fondo secondo cui nel caso in esame, non essendosi compiuto nella sua interezza il periodo di prova, il termine di decadenza per l’impugnazione del recesso dell’Azienda sanitaria dal periodo di prova non può ritenersi neanche iniziato a decorrere. Quello del protrarsi di una presunta inerzia da parte della ricorrente, la quale ha proposto l’azione in giudizio dopo tre anni dalla violazione del diritto di esperire la prova, altro non è se non il legittimo esercizio del diritto di far valere in giudizio tale suo diritto, non potendo applicarsi il nuovo termine decadenziale ai recessi dai rapporti di prova, prima che la lavoratrice abbia potuto effettivamente portare a compimento l’esperimento.
Sulla base delle suesposte considerazioni il ricorso va, pertanto, accolto.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Campobasso, anche per le spese.
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