CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 gennaio 2018, n. 2284
Licenziamento collettivo – lnfungibilità della posizione della lavoratrice licenziata
Fatti di causa
1. Con la sentenza n. 8161/2015 la Corte di appello di Roma ha rigettato il reclamo avverso la pronuncia del Tribunale di Civitavecchia dell’8.6.2015 con la quale era stata confermata l’ordinanza, emessa all’esito della fase sommaria, di declaratoria dell’illegittimità del licenziamento intimato il 31.10.2013 dalla B.A. spa a C.P., a seguito di procedura di licenziamento collettivo ex lege n. 223/1991, e di risoluzione del rapporto di lavoro tra le parti con condanna della datrice di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 18 mensilità della retribuzione globale di fatto percepita.
2. A fondamento della decisione la Corte distrettuale, dopo avere richiamato alcune pronunce di legittimità, ha rilevato che le deduzioni della B.A. spa erano insufficienti a far ritenere assolto l’onere di allegazione, prima, e di prova, poi, circa la infungibilità della posizione lavorativa della P. in quanto quest’ultima aveva dedotto di avere svolto anche altre mansioni in diversi uffici e la società nulla aveva specificato ad esplicitazione della tipizzazione e dei contenuti delle posizioni lavorative escluse dalla comparazione indicate soltanto attraverso le loro denominazioni; inoltre, ha sottolineato che erano mancate le ulteriori allegazioni idonee alla caratterizzazione e alla definizione dei concreti contenuti delle posizioni lavorative per le quali la diversità della categoria lavorativa non si evidenziava, ai fini della non fungibilità, rispetto a quelle rivestite nel corso del rapporto dalla P. medesima.
3. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la B. A. spa affidato a tre motivi.
4. Ha resistito con controricorso C. P..
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, la violazione di norme di diritto: l’errata interpretazione degli artt. 4, comma 9° , e 5 comma 1°, legge n. 223/1991 nonché l’errata interpretazione dei precedenti giurisprudenziali specifici resi dalla Suprema Corte, per avere la sentenza impugnata erroneamente interpretato la giurisprudenza di legittimità sulla possibile delimitazione della platea dei lavoratori interessati dalla procedura di licenziamento sulla scorta del principio della sola infungibilità quando, invece, una corretta ermeneutica avrebbe dovuto condurre a considerare tale delimitazione possibile ogni volta che ricorrevano elementi di dichiarata obiettiva esigenza aziendale in fase di ristrutturazione.
2. Con il secondo motivo la società si duole, ai sensi dell’art. 360 n. 4 cpc, della nullità della sentenza per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia: omessa pronuncia e mancata ammissione dei mezzi di prova che con certezza avrebbero dimostrato l’infungibilità della posizione della lavoratrice licenziata.
3. Con il terzo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 n. 4 cpc, la nullità della sentenza per contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia: l’errata affermazione circa le allegazioni della B. A. spa sulla specificità delle mansioni infungibili svolte dai dipendenti rimasti in servizio rispetto alla posizione lavorativa della P..
4. Il primo motivo è infondato.
5. La Corte territoriale, nel richiamare i precedenti giurisprudenziali di legittimità indicati in sentenza (Cass. n. 9711/2011 e Cass n. 203/2015), ha interpretato correttamente gli artt. 4, comma 9°, e 5 comma 1°, legge n. 223/1991 e, in particolare, si è attenuta al principio precisato anche dalla pronuncia di questa Corte (Cass. 16.9.2016 n. 18190) secondo cui, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, ove la ristrutturazione della azienda interessi una specifica unità produttiva o un settore, la comparazione dei lavoratori per l’individuazione di coloro da avviare a mobilità può essere limitata al personale addetto a quella unità o a quel settore, salvo l’idoneità dei dipendenti del reparto, per il pregresso impiego in altri reparti dell’azienda, ad occupare le posizioni lavorative dei colleghi a questi ultimi addetti, spettando ai lavoratori l’onere della deduzione e della prova della fungibilità nelle diverse mansioni.
6. Nel caso in esame i giudici del merito hanno dato atto che la P., con argomentazione non oggetto di contestazione, aveva dedotto di avere, dall’inizio del rapporto lavorativo inter partes, svolto anche altre mansioni in diversi uffici della azienda e che la società nulla aveva specificato sul punto al momento della scelta dei dipendenti da licenziare.
7. Corretto, pertanto, è stato il riferimento al concetto di fungibilità e professionalità, adottato dalla Corte di merito, dei lavoratori coinvolti nella procedura di licenziamento collettivo perché non si può limitare la scelta ai soli addetti ad un reparto se questi sono idonei, per acquisita esperienza e per pregresso e frequente svolgimento della propria attività in altri reparti, a svolgere altre attività, ma si deve ampliare la scelta coinvolgendo appunto lavoratori di altri reparti (cfr. Cass. n. 9888/2006 e Cass. n. 26679/2011): e ciò la B. A. spa non ha fatto.
8. Il secondo motivo è, invece, inammissibile sia perché il vizio di omessa pronuncia non può riguardare il mancato esame di una istanza istruttoria (Cass. Sez. Un. 18.12.2001 n. 15982) ma solo domande ed eccezioni, sia perché la Corte territoriale si è espressa sulla problematica della infungibilità della posizione lavorativa della P. rilevando, da parte della società, che nulla era stato allegato ad esplicitazione della tipizzazione e dei contenuti delle posizioni lavorative escluse dalla comparazione e indicate soltanto attraverso la loro denominazione; sicché la mancata ammissione delle prove è stata conseguenziale al rilevato difetto di allegazione.
9. Il terzo motivo è, infine, anche esso inammissibile perché la censura, nonostante l’indicazione nella rubrica, si sostanzia in un eccepito vizio di motivazione che, ai sensi dell’art. 348 ter u.c. cpc, vertendosi in una fattispecie di cd. “doppia conforme” (avendo riguardo alla data di deposito dell’appello – cfr. Cass. 9.12.2015 n. 24909) non può essere più proposto in sede di legittimità.
10. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
11. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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