CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 10003 del 16 maggio 2016
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO – LICENZIAMENTO – ILLEGITTIMO – LAVORATORE RITARDATARIO CRONICO – MANCATO RISPETTO DELL’ORARIO DI LAVORO – ASSENSO DATORIALE AL RECUPERO DEI RITARDI
Svolgimento del processo
Con sentenza del 19/4 – 7/5/2012, la Corte d’appello di Firenze – sezione lavoro ha rigettato l’impugnazione proposta dalla società (…) s.p.a. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale della stessa sede che le aveva annullato il licenziamento intimato a (…), ordinandole di reintegrarla nel posto di lavoro e condannandola al risarcimento del danno in favore della lavoratrice.
La Corte di merito ha spiegato che la ragione dell’illegittimità del licenziamento, intimato per cumulo di ritardi dovuto a mancato rispetto dell’orario di lavoro, risiedeva sia nella circostanza della mancata smentita della allegazione della lavoratrice circa l’assenso datoriale al recupero dei ritardi, sia nella mancata affissione del codice disciplinare, sia nella decadenza della società dalla produzione del contratto collettivo di riferimento.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società (…) s.p.a. con tre motivi.
Resiste con controricorso la (…).
Le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116, 414 e 416 c.p.c., 2697 cod. civ, e 5 della legge n. 604/1966, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., dolendosi del rilievo dato dal giudice d’appello alla allegazione della (…), non smentita, di aver sempre recuperato i ritardi dell’orario di lavoro, in quanto in tal modo il giudicante avrebbe degradato a “condotta pretesamente accettata in azienda” ciò che di fatto aveva costituito una sottrazione della dipendente alle elementari regole di condotta nello svolgimento del rapporto di lavoro. Inoltre, la ricorrente lamenta la violazione del principio di riparto degli oneri probatori in quanto a fronte di fatti non contestati e persino ammessi, quali i ritardi oggetto d’addebito disciplinare, la parte datoriale non avrebbe avuto necessità di fornire la prova della legittimità del licenziamento adottato per tale specifico motivo, così come alcun rilievo poteva avere la sua contumacia in primo grado.
Il motivo è infondato.
Invero, nel ragionamento seguito dalla Corte d’appello di Firenze non è dato ravvisare il lamentato mancato rispetto del riparto degli oneri probatori, atteso che il collegio giudicante, nel confermare la sentenza di primo grado, ha posto l’accento sul fatto che non risultava essere stata smentita l’allegazione della lavoratrice. Infatti, la stessa Corte ha precisato che quest’ultima, pur riconoscendo i propri ritardi, non solo li aveva ammantati di varie giustificazioni di carattere personale e familiare, ma aveva aggiunto di averli sempre recuperati, esponendo che ciò faceva alla stregua di tanti altri colleghi ed articolando prove sul punto. Da ciò la Corte di merito ha tratto la logica conclusione che il recupero dei ritardi corrispondeva ad una condotta pretesamente accettata in azienda.
Orbene, tale essendo l’allegazione difensiva contrapposta dalla lavoratrice al licenziamento per contestarne la legittimità, non poteva non ricadere sulla datrice di lavoro I onere di dimostrare la proporzionalità del rimedio espulsivo adottato rispetto all’entità dell’addebito mosso, per cui è infondato il rilievo della società secondo cui l’ammissione dei ritardi da parte della dipendente la esonerava dalla prova di giustificare il licenziamento. Invero, tale tesi difensiva trae essenzialmente spunto dalla allegazione concernente l’ammissione dei ritardi, ma trascura l’allegazione con cui la (…) ha fatto valere resistenza non smentita di una condotta aziendale di accettazione del recupero dei ritardi, vale a dire una eccezione di merito che neutralizzava la presunta proporzionalità della sanzione disciplinare.
2. Col secondo motivo, proposto per omessa pronuncia circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., la ricorrente sostiene che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare le censure dirette ad evidenziare il fatto che la (…) non aveva impugnato i provvedimenti disciplinari di tipo conservativo richiamati ai fini della recidiva nella lettera di contestazione del 18.1.2008 culminata col licenziamento. Quindi, la ricorrente aggiunge che la Corte d’appello, omettendo di esaminare le predette censure, ha finito per considerare erroneamente il comportamento della (…) quale “condotta pretesamente accettata in azienda”, nonostante che la nota d’addebito, contenente il richiamo a sette provvedimenti disciplinari nell’arco di un anno e mezzo, dimostrasse, al contrario, l’inclinazione della lavoratrice alla violazione dell’orario di lavoro.
Rileva la Corte che anche tale motivo è infondato.
Anzitutto, deve ritenersi che il giudice d’appello ha implicitamente rigettato le predette censure nel momento in cui ha accertato nel suo complesso l’illegittimità del licenziamento basato sulla contestazione nella quale era contemplata anche la recidiva riconducibile ai sette precedenti disciplinari richiamati dalla datrice di lavoro. Inoltre, tale presunta omissione neppure appare decisiva se si considera che la Corte d’appello ha dato prevalenza alla constatazione della mancanza di smentita dell’allegazione della lavoratrice riflettente la condotta della datrice di lavoro che aveva finito per accettare il recupero dei ritardi accumulati nell’orario di lavoro.
D’altronde, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base. (v. in tal senso Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006).
3. Col terzo motivo è denunziata la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, della legge n. 300/1970, degli artt. 1 e 3 della legge n. 604/1966 e degli artt. 2104 e 2105 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
In particolare la ricorrente, nel censurare la parte delle decisione che ha ravvisato la violazione della norma dello Statuto dei lavoratori contenente le regole in tema di pubblicità delle infrazioni disciplinari, contesta che l’addebito mosso alla lavoratrice fosse riconducibile alla violazione di una disciplina interaziendale da portare a conoscenza dei dipendenti per il tramite del l’affissione del codice disciplinare, rappresentando lo stesso la violazione del generale obbligo di diligenza e fedeltà del lavoratore nell’esecuzione della prestazione lavorativa, cosi come previsto dalle norme di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. Quindi, secondo la ricorrente, la preventiva affissione del codice disciplinare non era necessaria nella fattispecie, essendo questa contraddistinta dalla contestazione di una serie di inadempimenti agli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro, inadempimenti consistiti nel reiterato ritardo nell’orario di lavoro.
La ricorrente contesta, altresì, la rilevata decadenza dall’onere di produrre il contratto collettivo di riferimento, assumendo che la norma di cui all’art. 54 del CCNL 11.7.2007 richiamava la necessità dell’osservanza degli obblighi di diligenza e fedeltà già previsti dagli artt. 2104 e 2105 cod. civ.
Anche quest’ultimo motivo è infondato.
Anzitutto, la deduzione per la quale i ritardi reiterati rappresentavano la violazione di un minimo etico che non necessitava di essere altrimenti pubblicizzato non coglie l’essenza della “ratio decidendi” sottesa all’impugnata motivazione. Infatti, la Corte territoriale ha basato il proprio convincimento in ordine alla necessità di una previa regolamentazione disciplinare dei ritardi sulla valutazione della condotta datoriale che, per effetto della non smentita allegazione difensiva della lavoratrice, si era fino ad allora contraddistinta per l’accettazione dei recuperi degli orari di lavoro.
Quanto alla doglianza relativa alla considerazione che la mancata produzione del contratto collettivo era superabile per effetto del richiamo nel testo contrattuale alle norme di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ. si osserva quanto segue: – La ricorrente basa la difesa sull’assunto che il contenuto della contestazione riguardava essenzialmente la violazione delle norme di carattere generale sugli obblighi di dirigenza e di fedeltà, ma non supera il rilievo dirimente della decadenza della società postale dall’onere di fornire la prova delle specifiche previsioni collettive di riferimento di cui intendeva avvalersi, tanto più che queste servivano ad integrare, come ben evidenziato dalla Corte di merito, la lettura della motivazione del licenziamento, stante il richiamo promiscuo alle norme di cui agli artt. 2104 e 2105 del codice civile. Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo con attribuzione ai difensori dell’intimata dichiaratisi antistatari.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 3500,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, con attribuzione agli avv.ti (…) e (…)
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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