CORTE di CASSAZIONE sentenza n. 26107 del 30 dicembre 2015
Svolgimento del processo
La Commissione tributaria della regione Toscana, con sentenza 24.11.2008 n. 91, rigettava l’appello dell’Ufficio di Pisa della Agenzia delle Entrate e confermava la decisione di prime cure che aveva annullato il provvedimento di diniego e riconosciuto il diritto del Fallimento EDICOS s.r.l. ad ottenere il rimborso del credito d’imposta relativo all’anno 2005, sul presupposto della avvenuta cessazione di attività. La CTR rilevava che la mancata chiusura della partita IVA non ostava alla erogazione del rimborso, atteso che, in difetto di esercizio provvisorio, la dichiarazione di fallimento comportava la cessazione dell’attività d’impresa e comunque la chiusura della partita IVA richiedeva la defmizione della procedura concorsuale.
La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata dalla Agenzia delle Entrate con ricorso per cassazione, notificato in data 12.1.2010 al curatore fallimentare, deducendo con due motivi vizi di violazione di norme di diritto sostanziale e processuale. Il Fallimento della società EDICOS non ha svolto difese.
Motivi della decisione
Con il primo ed il secondo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate deduce, in via alternativa, il vizio di violazione dell’art. 100 c.p.c., degli artt. 30 e 38 bis, comma 6, Dpr n. 633/72, in relazione all’art. 360co 1 n. 3 c.p.c. ovvero in relazione all’art. 360coln. 4 c.p.c., intendendo piuttosto far valere la sopravvenuta carenza di interesse del contribuente (e della stessa Amministrazione) alla definizione, nel merito, del giudizio avente ad oggetto la opposizione del Fallimento EDICOS s.r.l. al provvedimento di diniego del rimborso del credito IVA esposto nella dichiarazione annuale relativa al periodo d’imposta 2005, in quanto successivamente al deposito della sentenza impugnata l’Ufficio finanziario in esito alla attività di controllo della medesima dichiarazione fiscale aveva notificato al Fallimento della società, in data 25.11.2008, avviso di accertamento con il quale aveva rideterminato, con metodo induttivo puro ex art. 39co2 lett. d) Dpr n. 600/73 ed art. 55 Dpr n. 633/72, il reddito d’impresa -accertando una minore perdita di bilancio ed un maggiore valore della produzione rispetto a quelli dichiarati- liquidando per lo stesso anno 2005 una complessiva IVA pari ad € 91.930,37 che, compensata con l’importo del credito d’imposta indicato dalla società -pari ad € 39.581,00-, evidenziava un debito tributario di € 52.349,37.
Sostiene l’Agenzia fiscale ricorrente che la notifica del nuovo avviso di accertamento preclude il rimborso del credito d’imposta, disponendo l’art. 38 bis comma 6 del Dpr n. 633/72 che “Se successivamente al rimborso viene notificato avviso di rettifica o accertamento il contribuente, entro sessanta giorni, deve versare all’ufficio le somme che in base all’avviso stesso risultano indebitamente rimborsate, insieme con gli interessi del 5 per cento annuo dalla data del rimborso, a meno che non presti la garanzia prevista nel secondo comma fino a quando l’accertamento sia divenuto definitivo”. In conseguenza il contribuente, tenuto a pagare il maggior debito d’imposta, non avrebbe più interesse a coltivare il giudizio per conseguire il minore credito IVA, determinandosi una ipotesi di cessata materia del contendere, che, non incontra il limite della produzione di nuovi documenti in sede di legittimità ex art. 372 c.p.c., essendo tenuta la Corte a rilevare il sopravvenuto venir meno di interesse delle parti alla definizione del giudizio, tenuto conto altresì che l’avviso di accertamento è divenuto definitivo per mancata opposizione del Fallimento nel termine di decadenza.
Osserva il Collegio che la cessazione della materia del contendere si ha per effetto della sopravvenuta carenza d’interesse delle parti alla definizione del giudizio, postulando che siano accaduti nel corso del processo fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti e da rendere incontestato l’effettivo venir meno dell’interesse sottostante alla richiesta pronuncia di merito, senza che debba sussistere un espresso accordo delle parti anche sulla fondatezza (o infondatezza) delle rispettive posizioni originarie nel giudizio, perche’ altrimenti il rapporto controverso riceverebbe una regolamentazione nel merito favorevole ad una delle parti, con conseguente soccombenza dell’altra, e non vi sarebbero neppure i presupposti per procedere all’accertamento di una soccombenza “virtuale” ai fini della regolamentazione delle spese, che invece costituisce il naturale corollario di un tal genere di pronuncia, quando non siano le stesse parti a chiedere congiuntamene la compensazione delle spese (cfr. Corte cass. I sez. 7.5.2009 n. 10553; id. Sez. 6- 5, Ordinanza n. 5188 del 16/03/2015).
Il fatto determinativo della cessazione della materia del contendere non coincide, pertanto, con la condotta processuale con la quale si “riconosce il diritto” in contestazione (aderendo alla domanda) o si “rinuncia alla pretesa” fatta valere in giudizio (rinuncia all’azione), che determinano in ogni caso una pronuncia di merito sul rapporto dedotto in giudizio, nè con la condotta processuale diretta alla “rinuncia agli atti del giudizio” (art. 306, 390-391 c.p.c.; art. 44 Dlg,s n. 546/1992), che deve peraltro essere accettata dalle parti che hanno interesse a proseguire il giudizio (rinuncia che, come noto, se intervenuta in primo grado non pregiudica il diritto sostanziale conteso, bene potendo la parte rinunciante riproporre la medesima azione in altro giudizio), e neppure con altre condotte processuali omissive (inerzia delle parti nel proseguire o riassumere il giudizio od integrare il contraddittorio) cui viene ricondotto l’effetto estintivo del giudizio (art. 307 c.p.c.; art. 45 Dlgs n. 546/1992), atteso che, mentre la estinzione del processo -nel giudizio di impugnazione- determina la cristallizzazione della situazione giuridica sostanziale come defmita dalla sentenza di merito oggetto di impugnazione (art. 338 c.p.c.), la cessazione della materia del contendere implica invece il sopravvenire di un fatto nuovo, esterno al processo, diretto ad estinguere, modificare o sostituire l’originario rapporto controverso, e dunque a far venire meno l’oggetto stesso del giudizio -costituito dalle originarie contrapposte pretese/difese delle parti- e che, da un lato, priva dette parti dell’interesse ad ottenere una -ormai inutile- pronuncia determinativa della regola del rapporto giuridico sostanziale, e dall’altro rende del tutto privo di funzione pratica il regolamento di un non più attuale assetto di interessi stabilito dalla pronuncia di merito impugnata -che in caso di declaratoria di estinzione del giudizio o di inammissibilità sopravvenuta della impugnazione, passerebbe in giudicato- (cfr. Corte cass. I sez. 13.9.2007 n. 19160; id. I sez. 7.12.2004 n. 22972. Nel caso in cui la cessazione della materia del contendere sia rilevata dal Giudice della impugnazione questi dovrebbe, pertanto, annullare o cassare senza rinvio la sentenza impugnata, non potendo riconoscersi la idoneità al passaggio in giudicato di una regolamentazione del rapporto controverso non più attuale né voluta dalle parti: Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 19533 del 23/09/2011; id. Sez. 5, Ordinanza n. 13109 del 25/07/2012).
La indicata differenza concettuale tra effetto estintivo del giudizio e cessazione della materia del contendere chiaramente riassunta nel principio di diritto secondo cui “la cessazione della materia del contendere costituisce, nel rito contenzioso civile, una fattispecie di estinzione del processo, creata dalla prassi giurisprudenziale e contenuta in una sentenza dichiarativa della impossibilità di procedere alla definizione del giudizio per il venir meno dell’interesse delle parti alla naturale conclusione del giudizio stesso, tutte le volte in cui non risulti possibile una declaratoria di rinuncia agli atti o di rinuncia alla pretesa sostanziale. Ne consegue l’assoluta inidoneità di detta pronuncia ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, potendo essa acquisire tale efficacia di giudicato sul solo aspetto del venir meno dell’interesse alla prosecuzione del processo” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 1048 del 28/09/2000; id. Sez. L, Sentenza n. 9332 del 10/07/2001; id. Sez. L, Sentenza n. 7450 del 21105/2002; id. Sez. L, Sentenza n. 3122 del 03/03/2003; id. Sez. 1, Sentenza n. 4714 del 03/03/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 12887 del 04/06/2009; id. Sez. L, Sentenza n. 7185 del 25/03/2010), è stata espressamente considerata anche dalle norme processuali tributarie laddove sono state distintamente previste, da un lato, le ipotesi di estinzione del processo per “rinuncia al ricorso” (art. 44 Dlgs. n. 546/1992) e per “inattività delle parti” (art. 45 Dlgs n. 546/1992) e, dall’altro, -se pure con infelice ed impropria espressione terminologica- la “estinzione” nei casi di “definizione delle pendenze tributarie previsti dalla legge e in ogni altro caso di cessazione della materia del contendere” (art. 46co1 Dlgs n. 546/1992), ove l’accostamento delle ipotesi di cessazione della materia del contendere con quelle di definizione ex lege del rapporto tributario è sintomatica della incidenza che il fatto sopravvenuto viene comunque a spiegare sul piano sostanziale (e non quindi sul piano meramente processuale) dell’assetto degli interessi delle parti, o perchè diversamente regolato dal fatto/atto sopravvenuto o perchè è venuto meno lo stesso oggetto del contendere, come è dato nello schema di giudizio impugnatorio qualora l’atto impugnato sia eliminato (annullato, revocato, in via di autotutela) nelle more del processo (cfr. Corte cass. I sez. 29.1.1997 n. 917; id. V sez. 15.9.1009 n. 19821 che evidenzia chiaramente la relazione di pregiudizialità, con conseguente sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., tra il giudizio avente ad oggetto il perfezionamento del condono -fatto sopravvenuto- ed il giudizio avente ad oggetto la impugnazione dell’atto impositivo, venendo a determinare l’accertamento della definizione agevolata del rapporto la cessazione della materia del contendere in ordine alla causa pregiudicata; id. V sez. 29.12.2010 n. 26273 -“in tema di contenzioso tributario, la declaratoria, con sentenza definitiva, di estinzione del giudizio concernente cartelle di pagamento per cessazione della materia del contendere, a seguito di condono, ai sensi della legge 30 dicembre 1991, n. 413, determina il venir meno della originaria pretesa sostanziale, avanzata nei confronti del contribuente con ingiunzioni fiscali con la conseguenza che, anche nel giudizio relativo a quest’ultima (ndr avente ad oggetto la impugnazione dell’atto impositivo presupposto), va dichiarata la cessazione della materia del contendere”-; Corte cass. V sez. 23.9.2011 n. 19533).
Tanto premesso, come è stato rilevato da questa Corte, pur se la circostanza emerga solo nel giudizio di legittimità, la Corte di cassazione deve anche d’ufficio dichiarare la cessazione della materia del contendere, a tal fine, è necessario che di tale situazione sia fornita la prova e i relativi documenti, attenendo all’ammissibilità del ricorso, possono essere depositati per la prima volta nel giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 372 c.p.c. in sede di legittimità (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 5286 del 07/05/1993; id. Sez. U, Sentenza n. 14385 del 21/06/2007; id. Sez. U, Sentenza n. 18047 del 04/08/2010; id. Sez. 5, Ordinanza n. 13109 del 25/07/2012. Con evidenti analogie Corte cass. SU 23.9.2014 n. 19980 ha ritenuto compatibile con l’art. 372 c.p.c. -salvo notifica alle controparti costituite dell’elenco contenente i nuovi documenti prodotti in sede di legittimità- la allegazione e dimostrazione avanti la Corte dei fatti o comportamenti, esterni al processo, diretti ad integrare la fattispecie estintiva del giudizio ex art. 391 c.p.c., in quanto assimilata “ad una ragione di rito che impedisce la trattazione del ricorso” e “si risolve in una sorta di inammissibilità sopravvenuta di tale trattazione”).
Nella specie l’Agenzia fiscale ha depositato in allegato al ricorso per cassazione l’avviso di accertamento n. R5Z030300981/2008 notificato al curatore Fallimento EDICOS s.r.l. in data 26.11.2009 (successivamente alla pubblicazione della sentenza di appello) recante la pretesa della maggiore IVA dovuta dalla società per l’anno 2005, liquidata previa compensazione della imposta con il credito vantato dal Fallimento ed esposto nella dichiarazione relativa allo stesso anno. La parte ricorrente ha tuttavia fondato i motivi di ricorso, non sul riconoscimento del credito di rimborso controverso, ma sulla asserita “compensazione” del medesimo con il controcredito vantato con l’avviso di accertamento, formato successivamente in pendenza del ricorso per cassazione, notificato al curatore, e che la stessa Agenzia delle Entrate attesta essere divenuto definitivo per mancata impugnazione avanti il Giudice tributario.
Osserva il Collegio che il fatto esterno al processo -alla verifica del quale è subordinata la pronuncia di cessata materia del contendere- non si configura nel caso di specie come “fatto satisfattivo” del diritto oggetto di controversia, né produce effetti giuridici che possano ritenersi conformi alla concorrente volontà delle parti, non essendo dato desumere dalla mancata resistenza nel giudizio di legittimità del Fallimento un comportamento concludente -non contestazione- in ordine al fatto estintivo del credito di rimborso dedotto con il ricorso per cassazione della Agenzia fiscale : ed infatti, nel processo tributario, come in quello civile, la cessazione della materia del contendere presuppone, da un lato, che nel corso del giudizio siano sopravvenuti fatti tali da eliminare le ragioni di contrasto e l’interesse alla richiesta pronuncia di merito e, dall’altro, che le parti formulino conclusioni conformi. Ne consegue che l’allegazione di un fatto sopravvenuto, assunto da una sola parte come idoneo a determinare la cessazione della materia del contendere, comporta la necessità della valutazione del giudice, a cui spetterà l’eventuale dichiarazione dell’avvenuto soddisfacimento del diritto azionato ovvero la pronuncia sul merito dell’azione (cfr. Corte cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5188 del 16/03/2015; id. Sez. L, Sentenza n. 2063 del 30/01/2014).
L’allegazione della Agenzia fiscale secondo cui l’avviso di accertamento notificato al curatore sarebbe divenuto definitivo per mancata opposizione nel termine di decadenza, non fa venire meno la esigenza che il controcredito opposto in compensazione sia oggetto di accertamento giudiziale nel merito. Se infatti non è in discussione che gli atti impositivi costituiscano una “species” della categoria dei provvedimenti amministrativi, e come tali siano idonei ad incidere direttamente nella sfera giuridica (patrimoniale) dei contribuenti-destinatari, ove non annullati in sede giurisdizionale o rimossi in via di autotutela dalla stessa autorità emanante, tuttavia la verifica della intervenuta definitività dell’atto impositivo richiede un accertamento in fatto che rimane precluso alla Corte, in quanto fondato sulla valutazione dei fatti costituitivi del controcredito dotato -certo, liquido ed esigibile- dei requisiti ex art. 1243 co 1 c.c. idonei a determinare l’effetto estintivo ex art. 1241 c.c., requisiti correlati, nel caso di specie, al decorso del termine di decadenza (per la impugnazione dell’atto impositivo) che costituisce un ulteriore accertamento in fatto estraneo al provvedimento tributario, prodotto in giudizio ai sensi dell’art. 372 c.p.c., e che non può essere surrogato con la unilaterale precostituzione stragiudiziale della relativa prova, mediante attestazione proveniente dalla stessa autorità da cui è formato il provvedimento, in considerazione del principio consolidato secondo cui a nessuno è consentito precostituirsi unilateralmente i mezzi destinati a fornire la prova a sé favorevole del fatto controverso (cfr. Corte eass. III sez. 18.9.1980 n. 5296; id. III sez. 27.9.1999 n. 10695; id. I sez. 7.2.2000 n. 1320; id. III sez. 23.8.2011 n. 17524), e le affermazioni a sé favorevoli provenienti dalla parte in causa, al pari degli atti difensivi (ricorso, memoria di costituzione, ecc.) contenenti delle mere allegazioni a sé favorevoli, possono operare sul piano probatorio solo in presenza di una specifica non contestazione dell’altra parte, ipotesi che nella specie non ricorre.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato, non occorrendo provvedere sulle spese di lite non avendo svolto difese la parte intimata.
P.Q.M.
La Corte : – rigetta il ricorso.
Così deciso nella camera di consiglio 10.12.2015