CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 49489 depositata il 27 ottobre 2017
RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO
La CORTE APPELLO di TRIESTE, con sentenza in data 26/04/2016, parzialmente riformando la sentenza pronunciata dal TRIBUNALE di UDINE del 27/06/2013, nei confronti di BB, confermava la condanna in relazione al reato di appropriazione indebita di cui all’ art. 646 CP. Riteneva la Corte che il BB quale amministratore della società A. s.r.l. aveva permesso a BL effettivo dominus della società di effettuare prelevamenti dai conti sociali artificiosamente giustificati contabilmente.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo i seguenti motivi:
– violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità dell’imputato posto che la Corte di appello non aveva tenuto conto che pur essendo i prelevamenti effettuati dal BL e dalla di lui moglie, questi era il dominus delle società controllanti le quali avevano effettuati i versamenti a titolo di finanziamento;
violazione di legge per non essere stato configurato il fatto ai sensi dell’art. 2634 cod.civ. e dichiarata la non procedibilità per assenza di querela;
difetto di motivazione del giudice di appello in ordine alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Il ricorso è inammissibile perché manifestamente non fondato.
Quanto al primo motivo, vale il principio giurisprudenziale secondo cui integra il delitto di appropriazione indebita aggravato dall’abuso delle relazioni di ufficio la condotta dell’amministratore, socio unico di una società a responsabilità limitata, che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato (Sez. 2, n. 50087 del 14/11/2013, Rv. 257646); e nel caso di specie il ricorrente risponde della condotta omissiva dolosa posta in essere quando non impediva la distrazione delle somme sociali da parte del BL il quale non era titolare personalmente di alcun diritto di credito nei confronti della società.
Ed a nulla rileva che BL fosse soggetto che di fatto controllava la costellazione di società all’interno delle quali si verificavano i fatti, poiché l’assenza di formale titolarità di crediti dello stesso nei riguardi di A. s.r.l. non lo legittimava al ritiro di somme di denaro a titolo personale.
Il giudice di primo grado con le osservazioni specificamente svolte a pagina 13 della sentenza di primo grado e la Corte di appello triestina poi con le argomentazioni altrettanto specifiche esposte alla pagina 24 della motivazione hanno già spiegato come sia pacifico che società controllante e società controllata siano entità giuridicamente autonome sia sul piano organizzativo che patrimoniale sicchè del tutto ingiustificabili appaiono i prelievi effettuati dal BL e consentiti dall’amministratore poiché privo di diritti di credito nei confronti della predetta s.r.l..
Difatti va ricordato come l’autonomia patrimoniale della compagine sociale nella quale il ricorrente rivestiva la carica di amministratore impediva la distrazione di somme a vantaggio di soggetti privi di diritti di credito direttamente esercitabili nei confronti della stessa società non potendo la società a responsabilità limitata essere utilizzata quale “cassa” anche da parte di soggetti che solo indirettamente esercitano poteri di controllo di fatto sulla stessa, altrimenti consentendosi una indebita sottrazione di patrimonio sociale.
Pertanto risponde, ex art. 40 capoverso cod.pen., del delitto di appropriazione indebita anche l’amministratore della società a responsabilità limitata che non abbia impedito la distrazione di somme del patrimonio sociale a favore di terzi che non siano titolari di diritti di credito ovvero che non abbiano effettuato alcuna prestazione a vantaggio della società.
Quanto al secondo motivo, la Corte di appello ha spiegato con motivazione logica ed esauriente per quale ragione escludere la sussistenza dell’illecito di cui all’art. 2634 cod.civ. e rispetto a tali osservazioni il ricorso si limita a reiterare una prospettazione già esclusa posto che l’amministratore non ha agito in conflitto di interessi bensì totalmente omesso ogni controllo sul patrimonio sociale permettendone anche in parte la distrazione.
Anche il terzo motivo è manifestamente non fondato; il giudice di appello nell’accogliere il gravame incidentale proposto dal Procuratore Generale di Trieste ha sì elevato la pena a mesi 10 di reclusione ed euro 600,00 di multa ma ha altresì confermato nel resto l’impugnata decisione di primo grado.
E poiché con la pronuncia di primo grado del Tribunale di Udine del 27 giugno 2013 era stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena la statuizione di conferma adottata dal giudice di appello deve ritenersi riferita anche a tale statuizione accessoria; conseguentemente anche la pena inflitta in accoglimento dell’appello del P.M. dal giudice di secondo grado, non sussistendo ostacolo in relazione all’entità della stessa, deve ritenersi condizionalmente sospesa ed erra il ricorrente a dedurre difetto di motivazione sul punto.
Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che ritiene equa, di euro millecinquecento a favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro millecinquecento in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 25/10/2017
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