CORTE DEI CONTI – Ordinanza 22 ottobre 2019
Trattamenti pensionistici diretti a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi, delle forme sostitutive, esclusive ed esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria e della Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, i cui importi complessivamente considerati superano 100.000 euro lordi su base annua – Intervento di decurtazione percentuale, per la durata di cinque anni, dell’ammontare lordo annuo – Legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), art. 1, comma 261 [e seguenti].
Considerato in fatto
Parte attrice, ex magistrato della Corte dei conti cessato dal servizio in data 7 maggio 2012, titolare di pensione I.N.P.S. – Gestione ex Inpdap, ricorre contro l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale – I.N.P.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, avverso il trattamento pensionistico attribuito a partire dal mese di gennaio 2019, nella parte in cui è assoggettato al contributo di solidarietà previsto dall’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018 per il riconoscimento del diritto a percepire il trattamento pensionistico privo delle decurtazioni introdotte dall’art. 1, comma 261 della legge n. 145/2018 e per la condanna dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, alla restituzione di quanto trattenuto per tale titolo, con rivalutazione monetaria ed interessi dal di di ciascuna trattenuta e rateo di pensione sino al soddisfo e delle spese di giudizio; quanto sopra, previa occorrendo rimessione degli atti alla Corte costituzionale per l’esame della questione di costituzionalità: a) dei commi 261, 263 e 265 dell’art. 1 della legge n. 145/2018 per contrasto con gli articoli 3, 36, 38, 53 e 97 della Cost., nella parte in cui, nel quinquennio 2019-2023, i trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori a quattordici volte il trattamento minimo I.N.P.S., sono assoggettati ad un contributo di solidarietà nelle percentuali ivi stabilite.
A sostegno della dedotta questione di illegittimità costituzionale della normativa de qua ha sostenuto:
«la legge non precisa le specifiche finalità cui saranno impiegate le somme prelevate, limitandosi a prevedere al comma 265 che presso l’I.N.P.S. e gli altri enti previdenziali interessati sono istituiti appositi Fondi denominati «Fondo risparmio sui trattamenti di importo elevato» in cui confluiscono le somme prelevate per effetto dei commi da 261 a 263. Le somme ivi confluite restano accantonate»;
l’applicazione di tali norme, attraverso l’illegittima decurtazione del trattamento pensionistico in godimento del sottoscritto, produce un ingiustificato incameramento della quota parte di retribuzione versata, e quindi la lesione di diritti quesiti, determinando un danno tanto più rilevante in relazione alla durata del servizio effettivo prestato dal 1960 al 2012, alla carriera disciplinata dalla legge, nonché al trattamento economico apicale conseguito, con la qualifica di presidente aggiunto; al sottoscritto, quindi, per la seconda volta ed a distanza di pochi anni dal primo avvenuto negli anni 2014-16 (e per un periodo maggiore – cinque anni – che in aggiunta ai tre anni fanno otto e per di più con aliquote sensibilmente maggiorate) è stato ridotto il trattamento pensionistico già maturato e in godimento (allorquando ha maturato l’età di ottantatre anni superiore alle previsioni di vita media in cui maggiori sono le necessità di assistenza e tutela sanitaria cuì far fronte con spese straordinarie)». Ad avviso del ricorrente, le disposizioni impugnate si appalesano in contrasto con il principio di tutela del legittimo affidamento e della tutela previdenziale del lavoratore fissato dall’Ordinamento dell’Unione europea e dagli articoli 6 e 13 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e art. 1 del Primo Prot. Agg. Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; violative dei limiti ragionevolezza, non ripetitività, affidamento proporzionalità e tutela previdenziale posti dagli art. 3 e 38 Cost., per cui si impone uno scrutinio di stretta costituzionalità, come affermato dal giudice delle legge nella sentenza n. 173/2016; violative del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. in quanto la decurtazione è operata in maniera discriminatoria a prescindere dall’età, dalla qualifica e sui soli percettori di reddito da pensione, e tra questi sui trattamenti diretti non calcolati interamente con il metodo contributivo; violative del principio di equità e progressività in quanto la norma de qua non tiene conto delle diverse anzianità di servizio e qualifiche conseguite e dell’ammontare delle ritenute versate facendo riferimento al solo ammontare pensionistico prescindendo dall’anzianità del servizio prestato e pertanto in contrasto con lo stesso principio contributivo che connota l’evoluzione normativa pensionistica; difatti, rileva il ricorrente, che il legislatore ha esentato dalla decurtazione pensionati con il regime calcolato «interamente» con il metodo contributivo, ma non ha tenuto conto di coloro che come l’interessato la pensione è stata calcolata dal 1960 al 1992 con il metodo retributivo e per un ampio periodo (dal 1992 al 2012) con il metodo contributivo (dal 1992 al 2012), che nella specie (venti anni) può risultare superiore a quello di lavoratori per i quali è stata applicato interamente il metodo contributivo;
Deduce altresì che:
il legislatore non ha operato un discrimine nelle posizioni di coloro che hanno conseguito la pensione attraverso una lunga e complessa carriera disciplinata dalla legge e quelli che hanno conseguito pensioni anche elevate in base a trattamenti elargiti da enti pubblici, sulla base di inquadramenti favorevoli e di semplici provvedimenti amministrativi in corrispondenza di rapporti di breve durata;
la norma viola anche il principio del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione in quanto incide sulle aspettative di dirigenti e funzionari più elevati della pubblica amministrazione, con scelte discriminatorie e punitive, e dell’art. 53 Cost. in quanto altera il criterio dell’obbligo di «concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva», sulla base del principio della progressività da applicarsi alla generalità dei contribuenti;
il legislatore non ha salvaguardato coloro ai quali l’ente pensionistico ha prelevato i contributi anche dopo i quaranta anni di servizio, periodo ritenuto non utile ai fini del calcolo della percentuale di pensione;
legislatore non indica le finalità perequative perseguite con le nuove norme ma si è limitato a prevedere un mero «accantonamento» delle somme prelevate forzosamente, perseguendo una scelta politica di penalizzare i pensionati anziché ricorrere ad un serio contrasto dell’evasione fiscale;
non ha ravvisato condizioni di necessità e urgenza in un contesto di aumento delle spese correnti, quali il reddito di cittadinanza e le modifiche alla legge Fornero.
A sostegno delle sue ragioni il ricorrente richiama le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 173/2016 secondo la quale la disposizione di cui al comma 486, art. 1, legge n. 147/2013 superava (al limite) lo scrutinio di costituzionalità in quanto si poneva «come misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta». Invece la norma censurata supera detti limiti in quanto reitera il prelievo a distanza di poco tempo, ne allunga la durata e ne aggrava le percentuali.
Rileva altresì che il giudice delle leggi ha osservato che il contributo sulle pensioni deve costituire una misura eccezionale e non può tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema previdenziale, né le aliquote possono essere eccessive ma debbono rispettare un principio di prevedibilità, ragionevolezza della misura e di proporzionalità.
Alla luce delle osservazioni e considerazioni sopra esposte il ricorrente ha ritenuto quindi illegittima anche la Circolare n. 62 del 7 maggio 2019 con la quale l’I.N.P.S. ha impartito le istruzioni per l’applicazione della legge n. 145 del 2018.
Con memoria di costituzione e risposta, l’I.N.P.S., premettendo che le questioni sollevate dal ricorrente sono omologhe a quelle già affrontate dal Giudice delle leggi con riferimento a provvedimenti limitativi della spesa pensionistica (richiama la sentenza 250/2017 in materia di perequazione automatica), ha confermato la legittimità del proprio operato in ordine all’applicazione della disciplina de qua; con riferimento alla dedotta questione di illegittimità di controparte ha eccepito l’inammissibilità e l’infondatezza delle questioni sollevate.
Relativamente all’art. 3 Cost. ha sottolineato la mancanza di un tertium comparationis; in ordine all’art. 38 Cost. ha richiamato la consolidata giurisprudenza costituzionale nella direzione della discrezionalità spettante al Legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali, tenuto conto delle risorse attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona (Corte cost. n. 30/2004); le ragioni del contenimento della spesa pubblica e di quella previdenziale, nella specie, rendono infondate le ragioni ex adverso sostenute volte a censurare disposizioni che ad avviso della difesa dell’Istituto non concretizzano un vulnus ma precludono agli interessati di ottenere un sistema previdenziale più vantaggioso; in via principale, ha concluso per il rigetto del ricorso perché infondato. Alla udienza del 9 ottobre 2019 la difesa dell’Istituto insisteva per il rigetto del ricorso, previa declaratoria di inammissibilità della dedotta questione di illegittimità costituzionale della normativa applicata al ricorrente.
Ritenuto in diritto
1. Come emerge dagli atti introduttivi del giudizio, il ricorrente chiede dichiararsi il diritto alla corresponsione dell’intero trattamento di pensione, senza le decurtazioni introdotte dal comma 261, art. 1, legge 30 dicembre 2018, n. 145 e dai provvedimenti presupposti (Circolare I.N.P.S. n. 62 del 2019,) con condanna dell’Amministrazione alla restituzione di quanto trattenuto, con conseguente rivalutazione monetaria e interessi, dalla data di ciascuna trattenuta al soddisfa e spese di giudizio. Parte attrice lamenta in sostanza di subire ingiustamente la decurtazione del proprio trattamento di pensione (passata da euro 10.594,34 a 6.137,77) dal 3 giugno 2019 per effetto delle decurtazioni imposte dal comma 261, art. 1, legge 145 del 2018 a partire dal 1º gennaio 2019 e per la durata di cinque anni.
Detta normativa fa seguito a quella precedente introdotta dai commi 483 e segg. della legge n. 147/2013 che ha previsto analogo meccanismo di decurtazioni dei trattamenti pensionistici di importo superiore a euro 90.000,00 per il triennio 2014-16, ed al quale è stato sottoposto l’odierno ricorrente, collocato a riposo dal 2012.
Ad avviso del ricorrente, la normativa introdotta dalla legge di stabilità 2019 si appalesa illegittima per violazione degli articoli 3, 36 e 38, 53 e 97 della Cost., nonché 6 e 13 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e art. 1 del Primo Prot. Agg. Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Su tale richiesta questo giudice non può pronunciarsi se non con riferimento alle norme intervenute dopo il collocamento a riposo del ricorrente e pertanto la eccezione di illegittimità costituzionale prospettata concernente dette norme, risulta rilevante ai sensi dell’art. 23 secondo comma della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1.
Sembra inoltre a questa Corte non manifestamente infondata ai sensi del predetto art. 23 , nei limiti della deliberazione di sua competenza, l’eccezione di violazione degli articoli 3, 36, 38, 53 della Costituzione per effetto dell’entrata in vigore dei commi 261 – 268 dell’art. l, legge n. 145/2018 (stabilità 2019).
Difatti, le norme denunciate (commi da 261 a 268) prevedono decurtazioni dei trattamenti pensionistici di importo complessivamente superiore a 100.000 euro lordi su base annua, calcolate in base a cinque aliquote percentuali (15% -25% -30% -35% -40%) in relazione ad altrettanti scaglioni di reddito (a partire da 100.000 e oltre a 500.000). Sono escluse le pensioni liquidate interamente con il sistema contributivo. Presso l’I.N.P.S. e gli altri enti previdenziali interessati sono istituiti appositi fondi denominati «Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato » in cui confluiscono i risparmi derivati dai commi da 261 a 263. Le somme ivi confluite restano accantonate (comma 265). Nel Fondo di cui al comma 265 affluiscono le risorse rivenienti dalla riduzione di cui ai commi da 261 a 263, accertate sulla base del procedimento di cui all’art. 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (comma 266).
Ciò posto, in relazione alle contestazioni del ricorrente, giova richiamare i principi affermati e ribaditi dalla Corte costituzionale, con riferimento agli interventi sui trattamenti pensionistici ai fini di rimodulazione e contenimento della spesa previdenziale imponendo, come nel caso in esame, decurtazioni di carattere temporaneo ovvero bloccando temporaneamente il meccanismo perequativo (Cost. n. 116/2013; n. 70/2015; n. 250/17).
Così come anche dalla sentenza n. 250/2017, emessa dalla Consulta in occasione del giudizio sulla costituzionalità dei criteri introdotti dal decreto-legge n. 65/2015, conv. in legge n. 109/2015, per la perequazione delle pensioni, si evincono diversi principi, rilevanti anche per il caso in esame, fra cui: la necessità di valutare l’entità dell’onere imposto ai pensionati tenendo conto del trattamento complessivo in loro godimento, con il limite della salvaguardia di un reddito che consenta di non comprimerne le esigenze; la natura non tributaria delle misure, di mero risparmio di spesa, riguardanti il blocco temporaneo della perequazione; la centralità del principio di ragionevolezza, che deve essere sotteso alle scelte legislative, nel bilanciamento fra il rispetto degli articoli 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Cost. e la necessità di contenimento della spesa in materia pensionistica, nei mutevoli contesti economici.
Per quanto qui di interesse occorre poi richiamare la sentenza n. 173/2016 della Corte costituzionale che ha, dichiarato l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 486, della legge n. 147/2013 (legge di stabilità per il 2014), disciplinante il «contributo di solidarietà» sulle pensioni statali oltre i 91.216,51 euro, che erano state sollevate.
Nello specifico, nei consideranda 11.1. la sentenza n. 173/2016 ha affermato – «In linea di principio, il contributo di solidarietà sulle pensioni può ritenersi misura consentita al legislatore ove la stessa non ecceda i limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (articoli 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio «stretto» di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà.
In tale prospettiva, è indispensabile che la legge assicuri il rispetto di alcune condizioni, atte a configurare l’intervento ablativo come sicuramente ragionevole, non imprevedibile e sostenibile. Il contributo, dunque, deve operare all’interno dell’ordinamento previdenziale, come misura di solidarietà «forte», mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un’ottica di mutualità intergenerazionale, siccome imposta da una situazione di grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori – endogeni ed esogeni (il più delle volte tra loro intrecciati: crisi economica internazionale, impatto sulla economia nazionale, disoccupazione, mancata alimentazione della previdenza, riforme strutturali del sistema pensionistico) – che devono essere oggetto di attenta ponderazione da parte del legislatore, in modo da conferire all’intervento quella incontestabile ragionevolezza, a fronte della quale soltanto può consentirsi di derogare (in termini accettabili) al principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato (sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002, ex plurimis). L’effettività delle condizioni di crisi del sistema previdenziale consente, appunto, di salvaguardare anche il principio dell’affidamento, nella misura in cui il prelievo non risulti sganciato dalla realtà economico-sociale, di cui i pensionati stessi sono partecipi e consapevoli.
Anche in un contesto siffatto, un contributo sulle pensioni costituisce, però, una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo dì alimentazione del sistema di previdenza.
Il prelievo, per essere solidale e ragionevole, e non infrangere la garanzia costituzionale dell’art. 38 Cost. (agganciata anche all’art. 36 Cost., ma non in modo indefettibile e strettamente proporzionale: sentenza n. 116 del 2010), non può, altresì, che incidere sulle «pensioni più elevate»; parametro, questo, da misurare in rapporto al «nucleo essenziale» di protezione previdenziale assicurata dalla Costituzione, ossia la «pensione minima». Inoltre, l’incidenza sulle pensioni (ancorché) «più elevate» deve essere contenuta in limiti di sostenibilità e non superare livelli apprezzabili: per cui, le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalità, che è esso stesso criterio, in sé, di ragionevolezza della misura. In definitiva, il contributo di solidarietà, per superare lo scrutinio «stretto» di costituzionalità, e palesarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale «articoli 2 e 38 Cost.), deve: operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; incidere sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere comunque utilizzato come misura una tantum….».
La Corte ha ammesso quindi la costituzionalità del richiamato contributo, escludendone la natura tributaria e ritenendolo legittimo nel configurarsi come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (oltre che intergenerazionale) (articoli 2 e 38 Cost.) a condizione che: si tratti di un contributo di solidarietà interno al sistema previdenziale, giustificato in via del tutto eccezionale dalla crisi contingente e grave del sistema stesso, incidente sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); si presenti come prelievo sostenibile; rispetti il principio di proporzionalità; sia comunque utilizzato come misura una tantum.
Tali condizioni si appalesano non rispettate nella legge di stabilità per l’anno 2019, con riferimento alla norma in oggetto sotto plurimi profili:
il prelievo è applicato in percentuali elevate (15%, 25%, 30%, 35%, 40%) rispetto alle percentuali inferiori del precedente contributo di solidarietà (6%,1295,18%);
il contributo è reiterato a breve distanza temporale del contributo già introdotto fino al 2016 (durata triennale) di più ampia durata (cinque anni); si appalesa una chiara disparità di trattamento fra i vari tipi di pensioni (ad esempio non è pagato da alcune categorie di professionisti (es. Notai), ma è pagato dai dirigenti di azienda a carico dell’INPS);
è destinato ad un Fondo all’interno dell’INPS di cui non è chiara la finalità, e sembra avere più natura tributaria che interna al «circuito endoprevidenziale»;
si presenta in violazione dell’art. 1 del Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea sui Diritti dell’Uomo.
non tiene conto delle ricadute sulle pensioni miste (come quella del ricorrente) laddove il sistema contributivo copre un lungo periodo di servizio complessivo reso dal dipendente (20 anni nel caso);
vi è una completa assenza di individuazione delle finalità perseguite dal legislatore come si evince dal tenore dei citati commi che dispongono: «I risparmi derivanti dalle riduzioni in esame confluiscono in appositi fondi presso l’INPS e gli altri enti previdenziali interessati (denominati Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato), dove rimangono accantonati (comma 265). Le determinazioni relative alle somme da destinare ai fondi suddetti sono operate mediante la procedura della Conferenza di servizi (comma 266), sulla base del principio che, in caso di pluralità di trattamenti di cui sia titolare il soggetto, la riduzione viene ripartita tra i medesimi in proporzione all’importo di ciascuno di essi (comma 263).
Nella relazione della Camera dei deputati, al progetto di legge di stabilità 2019, con riferimento allo strumento della conferenza di servizi disciplinato dall’art. 14 e segg. e seguenti della legge n. 241/1990 si suggerisce all’esecutivo di chiarire in modo più puntuale le modalità di funzionamento dello strumento della conferenza di servizi in relazione alla fattispecie in esame. Mancano infatti indicazioni certe in ordine alle destinazioni finali degli «accantonamenti» dei prelievi effettuati sulle pensioni (nonché i soggetti attori delle conferenze), e ciò costituisce palese elusione di quei criteri e fini (e limiti) individuati dalla Corte costituzionale cui debbono sottostare gli interventi (frequenti e anche drastici) effettuati sui trattamenti di pensione che da misura «una tantum» rischiano di divenire strumenti di «sistema» in luogo di opzioni percorsi o scelte alternative di politica economica (spending review, lotta all’evasione…).
Orbene per effetto di tali decurtazioni (di importo e di durata maggiori rispetto a quanto già previsto dal precedente contributo di solidarietà ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale), si è venuta a verificare una irrazionale discriminazione tra soggetti il cui trattamento pensionistico è stato calcolato interamente con il sistema retributivo o misto rispetto a quelli soggetti al solo sistema contributivo, esclusi dal contributo di solidarietà, senza tener conto delle diverse anzianità di servizio e qualifiche conseguite e dell’ammontare delle ritenute versate, facendo riferimento sic et sempliciter all’ammontare del trattamento pensionistico annuo lordo, prescindendo dall’anzianità di servizio effettivo prestato. Inoltre non sono ravvisabili condizioni di necessità e urgenza che diversamente dagli anni precedenti possano giustificare l’adozione di tale misura per la durata di ben cinque anni, tenuto conto che la misura de qua riguarda soggetti di età avanzata (come nel caso) cui viene sottratto parte rilevante del reddito maturato dopo una lunga carriera frustrando così le loro legittime aspettative di un tenore di vita dignitoso in cui avevano riposto affidamento durante la loro attività lavorativa. Sembra pertanto a questo giudice che le disposizioni normative sopra citate, avendo reiterato a distanza di pochi anni, misure peggiorative dei trattamenti pensionistici ordinari, con applicazioni di percentuali superiori a quelli precedenti e su ampi scaglioni di reddito, di maggiore durata, abbiano violato i principi di uguaglianza, di cui all’art. 3 Costituzione e (forse ancor più) quelli di proporzionalità e adeguatezza alle esigenze vitali di cui agli articoli 36 e 38.
Tutto quanto sopra premesso, e ritenuto, in applicazione dell’art. 23 della legge costituzionale n. 87/1953, riservata ogni altra decisione all’esito del giudizio innanzi alla Corte costituzionale, il G.U. solleva l’incidente di costituzionalità dell’art. 1, commi 261 e segg. della legge n. 145/2018 con riferimento agli articoli 2, 3, 36, 38, 53 e 97 della Costituzione per le ragioni che precedono, con rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
Visti gli articoli 134 e 37 Costituzione, art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948 n. 1; legge 11 marzo 1953, n. 87;
P.Q.M.
Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione, proposta dal ricorrente, di legittimità costituzionale del comma 261, dell’art. 1, legge n. 145/2018, con riferimento agli articoli 3, 36, 38 e 53 e 97 della Costituzione;
Sospende il presente giudizio e dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale con le prove delle notificazioni e delle comunicazioni prescritte dall’art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87.
Dispone, altresì, che a cura della segreteria la copia della presente ordinanza sia notificata alle Parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
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