CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 aprile 2019, n. 9228
Docenti transitati per mobilità intercompartimentale nei ruoli dell’Inps – Trattamento economico
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Firenze ha accolto l’appello dell’Inps avverso la sentenza del Tribunale di Livorno che, all’esito della disposta consulenza tecnica contabile, aveva condannato l’istituto al pagamento in favore di R.B. e degli altri litisconsorti indicati in epigrafe delle differenze «fra il trattamento economico accessorio calcolato in conformità alla tabella allegata all’Ordinanza Ministeriale n. 217/1998 e quanto percepito per il medesimo titolo in costanza di rapporto», con decorrenza dalla data di passaggio nei ruoli dell’ente;
2. la Corte territoriale ha premesso che gli originari ricorrenti, tutti docenti transitati per mobilità intercompartimentale nei ruoli dell’Inps dal 1 settembre 1998, avevano instaurato dinanzi allo stesso Tribunale un primo giudizio, definito con la sentenza n. 236/2002 con la quale, per quel che qui rileva, era stato dichiarato «che il rapporto di lavoro dei ricorrenti è regolato dal decreto ministeriale n. 135 del 19/3/1998 e dalla ordinanza ministeriale n. 217 del 6/5/1998» ed era stato accertato «il diritto dei ricorrenti al trattamento economico quantificato nella tabella allegata alla citata ordinanza ministeriale n. 217/98 con conseguente obbligo dell’Inps a corrispondere quanto maggiormente spettante a tale titolo con decorrenza dalla data di assunzione in servizio presso l’ente convenuto»;
3. facendo leva sull’avvenuto passaggio in giudicato di detto capo della decisione, i dipendenti avevano nuovamente adito il Tribunale, chiedendo la quantificazione delle competenze accessorie di cui alla richiamata tabella, domanda, questa, ritenuta fondata dal giudice di prime cure che aveva determinato le differenze retributive dopo avere aggiornato i valori indicati nella tabella, applicando agli stessi l’incremento percentuale del Fondo destinato all’erogazione del trattamento accessorio;
4. la Corte territoriale non ha condiviso le conclusioni del Tribunale ed ha evidenziato che il dispositivo della sentenza n. 230/2002 doveva essere letto nel suo complesso e coordinato con i passaggi della motivazione, nella quale si affermava con chiarezza che il rapporto di lavoro dei ricorrenti era disciplinato dall’O.M. n. 217/98, ordinanza che, all’art. 6.2, prevedeva l’inquadramento nella VII qualifica funzionale con conservazione dell’anzianità maturata e del trattamento economico in godimento all’atto del trasferimento «se più favorevole, oltre ai trattamenti accessori previsti per il personale dello stesso Inps»;
5. la tabella, coeva all’ordinanza ma non parte integrante della stessa, dalla quale non era richiamata, era stata elaborata dall’Inps con finalità orientative, si riferiva al solo anno 1997, non prevedeva alcun criterio di adeguamento dei valori ivi indicati, ed inoltre si limitava a quantificare massimi raggiungibili e non minimi garantiti, dovendo comunque ricorrere le condizioni individuali necessarie ai fini dell’attribuzione della voce accessoria, in quanto in materia di diritti economici dei lavoratori pubblici le fonti possono essere solo quelle previste dalla legge;
6. sulla base di dette considerazioni la Corte fiorentina, ribadito che il dispositivo doveva essere integrato con la motivazione, ha ritenuto che la pretesa dei ricorrenti non potesse essere fondata sull’asserito passaggio in giudicato del punto 2 della sentenza del Tribunale di Livorno, frutto di un evidente errore, enucleabile dallo stesso dispositivo;
7. per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso R.B. e gli altri litisconsorti indicati in epigrafe sulla base di due motivi, illustrati da due memorie ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ., ai quali l’Inps ha resistito con tempestivo controricorso.
Considerato che
1. il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., denuncia violazione degli artt. 165, 167, 416, 434, 347, 348, 182 cod. proc. civ., dalla quale sarebbe derivata la nullità della sentenza o del procedimento;
1.1. i ricorrenti deducono che negli scritti difensivi di primo e secondo grado i difensori dell’INPS si erano limitati a richiamare la procura alle liti, asseritamente conferita con atto notarile, senza mai depositarla o esibirla;
1.2. richiamano giurisprudenza di questa Corte per sostenere che il mancato deposito della procura al momento dell’iscrizione a ruolo rende l’appello improcedibile, non potendo il vizio essere sanato dall’indicazione della procura stessa, inserita nel corpo dell’atto;
2. la seconda censura addebita alla sentenza impugnata la violazione dell’art. 329 cod. proc. civ. perché la Corte territoriale avrebbe violato il giudicato formatosi sul punto 2 della sentenza del Tribunale di Livorno n. 320/2002, che aveva riconosciuto il diritto dei ricorrenti al trattamento economico quantificato nella tabella allegata all’ordinanza ministeriale n. 217/1998;
2.1. poiché l’Istituto aveva prestato acquiescenza a detto capo della decisione, non poteva essere messo in discussione il parametro alla luce del quale andavano quantificate le differenze retributive, posto che, come evidenziato dal giudice di primo grado, ogni contrario argomento sulla rilevanza e sull’interpretazione della tabella doveva essere fatto valere nel giudizio in cui si era formata la statuizione divenuta irrevocabile;
3. il primo motivo di ricorso è inammissibile perché formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui agli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ.;
3.1. la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo, rispetto al quale la Corte è giudice del «fatto processuale», l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012);
3.2. la parte, quindi, non è dispensata dall’onere imposto dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ. di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perché la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (Cass. n. 15367/2014; Cass. n. 21226/2010);
3.3. occorre, inoltre, che il ricorrente assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 n. 4 cod. proc. civ., indicando la sede nella quale l’atto processuale è reperibile, perché l’art. 366 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 5 del d.lgs. n. 40 del 2006, richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento o dell’atto la cui rilevanza è invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso (fra le più recenti, sulla non sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. 28.9.2016 n. 19048);
3.4. detti oneri non sono stati assolti nella fattispecie in quanto la parte ricorrente ha omesso la trascrizione degli atti rilevanti (intestazione dell’atto, elenco delle produzioni), non ne ha prodotto copia in questa sede né ha fornito indicazioni in merito alla loro allocazione nel fascicolo processuale;
3.5. a soli fini di completezza osserva il Collegio che l’invocata improcedibilità dell’appello va esclusa alla luce del principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui « in caso di omesso deposito della procura generale alle liti, che sia stata semplicemente enunciata e richiamata negli atti della parte, il giudice non può dichiarare l’invalidità della costituzione di questa senza aver prima provveduto – in adempimento del dovere impostogli dall’art. 182, comma 1, c.p.c. – a formulare l’invito a produrre il documento mancante; tale invito, in caso non sia stato rivolto dal giudice istruttore, deve essere fatto dal collegio, od anche dal giudice dell’appello, poiché la produzione di quel documento, effettuata nel corso del giudizio di merito, sana ex tunc la irregolarità della costituzione» (Cass. n. 3181/2016; Cass. n. 19169/2014);
4. parimenti inammissibile è il secondo motivo perché anche la censura di violazione del giudicato esterno risulta formulata senza il necessario rispetto degli oneri sopra indicati;
4.1. i ricorrenti, infatti, riportano nel ricorso il solo dispositivo della sentenza del Tribunale di Livorno n. 230/2002 ed omettono di confrontarsi con il decisum della decisione impugnata che, invece, per escludere la formazione del giudicato esterno sulla efficacia vincolante della tabella valorizza la motivazione della sentenza stessa, motivazione alla quale non si fa cenno nella censura;
4.2. al riguardo occorre ribadire che, «poiché la sentenza prodotta in un giudizio per dimostrare l’esistenza di un giudicato esterno rilevante ai fini della decisione assume rispetto ad esso – in ragione della sua oggettiva intrinseca natura di documento – la natura di una produzione documentale, il requisito di ammissibilità del ricorso per cassazione indicato dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ. concerne in tutte le sue implicazioni anche una sentenza prodotta nel giudizio di merito, riguardo alla quale il motivo di ricorso per cassazione argomenti la censura della sentenza di merito quanto all’esistenza, alla negazione o all’interpretazione del suo valore di giudicato esterno.» (Cass. n. 21560/2011);
4.3. è altresì consolidato l’orientamento secondo cui il potere della Corte di Cassazione di interpretare il giudicato esterno direttamente e con cognizione piena può essere esercitato solo qualora il ricorso riporti il contenuto della decisione, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo, atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del comando giudiziale (Cass. n. 5508/2018; Cass. n. 10537/2010; Cass. n. 6184/2009);
5. alla pronuncia di inammissibilità consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;
5.1. poiché il ricorso è stato notificato il 14 gennaio 2013 non sussistono ratione temporis le condizioni di cui all’art. 13 c. 1 quater d.P.R. n. 115 del 2002, applicabile ai soli procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013 (Cass. n. 22726/2018).
P.Q.M.
Dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 6.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.
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