CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 giugno 2020, n. 10731
Accertamento – Tributi – Cessioni immobiliari – Valori OMI – Maggiori ricavi occultati
Rilevato che
– con sentenza n. 22/08/2013, depositata in data 8 maggio 2013, la Commissione tributaria regionale della Emilia-Romagna aveva rigettato l’appello proposto da Immobiliare A.D. s.r.l., in persona del legale rappresentante prò tempore, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza n. 12/17/12 della Commissione tributaria provinciale di Bologna che aveva rigettato il ricorso proposto dalla suddetta società avverso l’avviso di accertamento n. THB03C405738/2010 con il quale l’Ufficio aveva contestato, ai sensi degli artt. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54, comma 3 del d.P.R. n. 633 del 1972, nei confronti di quest’ultima, esercente attività di mediazione immobiliare, maggiori ricavi non dichiarati, ai fini Ires, Irap e Iva, interessi e sanzioni, per l’anno 2006, in relazione a cessioni di diverse unità immobiliari facenti parte di un unico complesso a prezzi inferiori, tra l’altro, ai finanziamenti richiesti dagli acquirenti, al valore degli immobili emerso dalle perizie estimative prodromiche alla concessione dei mutui e al valore OMI;
– la CTR, nel confermare la sentenza di primo grado, in punto di diritto, per quanto di interesse, ha osservato che: 1) l’accertamento dei maggiori ricavi occultati in relazione alle cessioni di immobili effettuate dalla contribuente, con rideterminazione dei relativi corrispettivi rispetto a quelli indicati nei rispettivi rogiti, si fondava su una pluralità di indizi univoci, precisi e concordanti provenienti da fonti differenti, quali il valore dei mutui erogati superiore ai prezzi dichiarati, le perizie di stima operate dalle banche in sede di erogazione del finanziamento, i contratti preliminari inter-partes, la documentazione bancaria, le dichiarazioni rese da un numero significativo di acquirenti in sede di accertamento, la similarità di conformazione edile e di estensione metrica degli appartamenti facenti parte di un unico complesso immobiliare, elevati margini di scostamento tra i prezzi indicati nei rogiti e le valutazioni di mercato OMI, il prelievo in contanti effettuato da parte degli acquirenti in prossimità delle date dei rogiti; 2) le risultanze dell’accertamento non erano superate dai rilievi formulati dalla società contribuente in quanto tesi ad “interrompere opportunisticamente ogni nesso di univocità esistente in modo estremamente concludente tra i singoli elementi indiziari”, contravvenendo all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità quanto alla necessaria valutazione globale di essi (Cass. n. 19894 del 2005); 3) in particolare con riferimento agli immobili per i quali non risultavano dichiarazioni da parte degli acquirenti l’Ufficio aveva dato rilievo alle operazioni di finanziamento degli istituti di credito, alla similarità – peraltro non contestata dalla contribuente- degli immobili rispetto a quelli per i quali erano state acquisite anche le dichiarazioni e allo scostamento dei corrispettivi dichiarati dai valori OMI; 4) il quadro complessivo degli indizi veniva ulteriormente confortato dall’incoerenza dei ricavi denunziati dalla società rispetto allo studio di settore presentato e dalla bassa percentuale di ricarico (11,16%) applicata dalla società con una redditività pari al solo 8,06%;
– avverso la sentenza della CTR, la società contribuente propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate;
– la società ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis1 c.p.c. insistendo per l’accoglimento del ricorso;
– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, secondo comma, e dell’art. 380-bis. 1 cod. proc. civ., introdotti dall’art. 1 -bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.
Considerato che
– con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 10, comma 1, della legge n. 212 del 2000, 97, comma 2, Cost., per avere la CTR erroneamente ritenuto legittimo l’avviso di accertamento ancorché l’Agenzia, nel rideterminare il prezzo delle cessioni degli immobili in questione, avesse in spregio ai principi di trasparenza, leale collaborazione e di buon andamento dell’Amministrazione, fondato l’accertamento su elementi indiziari non concretanti presunzioni semplici ovvero utilizzati discrezionalmente secondo convenienza casistica, trascurando del tutto quelli ad essa sfavorevoli e pretermettendo dichiarazioni significative di altri acquirenti;
– il motivo è inammissibile;
– va osservato che in base all’art. 366, comma 1, n. 4 c.p.c., il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronuncia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione, restando estranea al giudizio di cassazione qualsiasi doglianza non riguardante il “decisum” della sentenza gravata (così ad es. sez. 5 n. 17125 del 2007 e sez. 1 n. 4036 del 2011). In altri termini, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si traducano in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi della citata disposizione (così Cass., sez. 5, n. 21296 del 2016; Sez. 6 – 5, n. 187 del 08/01/2014; Sez. 5, n. 17125 del 03/08/2007; sez. 3, n. 359 del 2005 e altre); nella specie, il motivo in questione non menziona alcun passaggio della sentenza impugnata, trattandosi di censura diretta nei confronti dell’Agenzia;
– con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54, comma 3 del d.P.R. n. 633 del 1972, per avere la CTR erroneamente ritenuto legittimo l’accertamento analitico-induttivo dell’Ufficio 1) senza verificare la valenza del quadro indiziario con riferimento alle singole vendite e non già genericamente alla condotta della contribuente; 2) senza valutare tutte le prove fornite a contrario dalla contribuente (pretermissione da parte dell’Ufficio di quattro dichiarazioni di altri acquirenti circa la veridicità del prezzo dichiarato nei rogiti; la superiorità, in alcuni casi, del prezzo di vendita dichiarato rispetto al c.d. valore OMI; la rideterminazione del prezzo di cessione degli immobili anche in mancanza di mutui superiori al prezzo di vendita; il richiamo al valore delle perizie degli istituti bancari solo nel caso di differenza in eccesso rispetto ai prezzi di cessione; la verifica dei movimenti dei conti correnti bancari degli acquirenti solo in tre ipotesi); 3) senza considerare, quanto al richiamato rilevante scostamento dallo studio di settore, che i maggiori ricavi accertati dall’Ufficio erano quasi dieci volte maggiori rispetto al differenziale da studio di settore e, quanto alla indicata bassa percentuale di ricarico applicata dalla società che quest’ultima, oltre ad avere dovuto sostenere delle spese di ripristino, aveva beneficiato di un margine di guadagno inferiore non essendo costruttrice degli immobili poi venduti; 4) illegittimamente valorizzando una presunzione in mancanza di un fatto noto per derivare da essa un’altra presunzione (praesuntum de praesumpto) presumendo che il valore al m.q. di un immobile fosse uguale a quello di un immobile similare, a sua volta presunto in base ai mutui contratti dagli acquirenti o alle dichiarazioni degli stessi); 5) attribuendo valenza di presunzioni gravi, precise e concordanti ai valori OMI anche se, a seguito della legge n. 88 del 2009, suddetto valore rivestiva valenza meramente indiziaria da valutare necessariamente unitamente ad altri elementi;
– il motivo si profila in parte inammissibile, in parte infondato;
– va premesso che l’accertamento fiscale da cui muove la presente controversia, è un accertamento di tipo analitico-induttivo, con cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorché di rilevante importo, è consentito, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata (ex multis, Cass., sez. 5, n. 33508 del 2018; n. 20060 del 2014);
– in particolare, ai sensi del quarto e del quinto comma dell’art. 52 del d.P.R. n. 131 del 1986, a decorrere dal 10 luglio 1986, il potere di rettifica dei valori dichiarati negli atti era impedito qualora gli stessi fossero risultati pari o superiori a quel minimum determinato dalla capitalizzazione delle rendite catastali – che si otteneva moltiplicando per specifici coefficienti fissi di legge il valore catastale – con l’unico limite dato dall’eventuale individuazione, da parte dell’Ufficio, di corrispettivi non dichiarati. Pur essendo inibito l’accertamento di valore, il criterio automatico di valutazione non implicava una diversa determinazione della base imponibile, che si identificava, ai sensi del combinato disposto degli artt. 43, comma 1, e 51 del TUR, con il «valore del bene o del diritto alla data dell’atto», assumendosi per tale «quello dichiarato dalle parti nell’atto e, in mancanza o se superiore, il corrispettivo pattuito». Per le cessioni di immobili soggette ad I.V.A., l’art. 15 del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41 aveva esteso (per i fabbricati classificati o classificabili nei gruppi A, B e C) il principio della non rettificabilità del corrispettivo dichiarato, ove determinato in base ai parametri automatici previsti per l’imposta di registro, salvo che da atto o documento il corrispettivo risultasse di maggiore ammontare;
– l’art. 35, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006 (cd. decreto Visco-Bersani), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006 (decreto in vigore dal 4 luglio 2006), ha inserito nell’art. 54, comma 3 del d.P.R. n. 633 del 1972 (ai fini dell’I.V.A.) una disposizione in base alla quale «per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili e relative pertinenze, la prova di cui al precedente periodo s’intende integrata anche se l’esistenza delle operazioni imponibili o l’inesattezza delle indicazioni di cui al secondo comma sono desunte sulla base del valore normale dei predetti beni, determinato ai sensi dell’articolo 14 del presente decreto». Lo stesso art. 35, con il comma 3, del citato decreto legge n. 223 del 2006 ha inoltre inserito nell’art. 39, primo comma, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 (ai fini delle imposte sui redditi) una disposizione analoga alla precedente ed in base alla quale «per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili, ovvero la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento sui medesimi beni, la prova […] si intende integrata anche se l’infedeltà dei ricavi viene desunta sulla base del valore normale dei predetti beni determinato ai sensi dell’art. 9, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi». Il comma 4 dello stesso art. 35 cit. ha, inoltre, espressamente abrogato l’art. 15 del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41. Il d.l. n. 223/2006 ha, quindi, introdotto presunzioni semplici legali relative che consentivano all’ente impositore di rettificare la dichiarazione del contribuente sulla base del solo scostamento tra il corrispettivo dichiarato per le cessioni di beni immobili ed il valore normale degli stessi, determinato (in forza dell’art. 1, comma 307, della legge n, 296 del 2006 – legge finanziaria 2007 – e del provvedimento direttoriale del 27 luglio 2007, emesso in attuazione di tale legge e con il quale erano indicati i criteri utili per la determinazione del valore normale dei fabbricati ai sensi dell’art. 14 del decreto nn. 633 del 1972 e dell’art. 9, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi) secondo i valori dell’Osservatorio del mercato immobiliare (O.M.I.) presso l’Agenzia del Territorio e i coefficienti di merito relativi alle caratteristiche dell’immobile, integrati da altre informazioni in possesso degli uffici tributari. Anche se inizialmente tali nuovi disposizioni sono state ritenute di natura «procedimentale» e, quindi, applicabili anche ad accertamenti relativi ad anni d’imposta precedenti al 4 luglio 2006 (data di entrata in vigore del decreto Visco- Bersani), l’art. 1, comma 265, della legge n. 244 del 2007, in vigore dal 10 gennaio 2008, ha stabilito che le presunzioni legali (basate sul valore normale) si applicano soltanto per gli atti formati a decorrere dal 4 luglio 2006, mentre per gli atti formati anteriormente, valgono «agli effetti tributari, come presunzioni semplici». Successivamente la Commissione europea, nell’ambito del procedimento di infrazione n. 2007/4575, ha rilevato l’incompatibilità – in relazione all’I.V.A., ma con valutazione ritenuta estensibile dal legislatore nazionale anche alle imposte dirette – delle disposizioni introdotte dall’art. 35 del decreto- legge n. 223 del 2006 con l’art. 73 della Direttiva comunitaria 2006/112/CE, secondo cui la base imponibile I.V.A. «comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni». In considerazione di tale parere, la legge n. 88 del 2009 (legge comunitaria del 2008) con l’art. 24, commi 4, lettera f), e 5, è nuovamente intervenuta sull’art. 39 citato, stabilendo alla lettera d) del primo comma dell’art. 39: «Per i redditi d’impresa delle persone fisiche l’ufficio procede alla rettifica:[…] d) se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’articolo 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’articolo 32. L’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti», nonché sul terzo comma dell’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedendo: «L’Ufficio può tuttavia procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto, e non in via presuntiva, da verbali, questionari e fatture di cui ai numeri 2), 3) e 4) del secondo comma dell’art. 51, dagli elenchi allegati alle dichiarazioni nonché da altri atti e documenti in suo possesso»;
-questa Corte ha, quindi, ripetutamente affermato che, in tema di accertamento dei redditi d’impresa, in seguito alla sostituzione dell’art. 39 cit. ad opera dell’art. 24, comma 5, della l. n. 88 del 2009 che, con effetto retroattivo – stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell’Unione europea – ha eliminato la presunzione relativa di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi introdotta dall’art. 35 cit., così ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta «anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti», l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla predetta cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni O.M.I., ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (Cass. n. 23379 del 2019; n. 9474 del 2017; Cass. n. 26487 del 2016; n. 24054 del 2014; Cass. n. 11439 del 2018; n. 2155 del 25/1/2019);
– nella sentenza impugnata, la CTR, facendo buon governo dei suddetti principi, e senza incorrente nell’assunto divieto di presunzioni di secondo grado (che come precisato da Cass. n. 20748 del 2019 non è configurabile nel sistema processuale, “in quanto lo stesso non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma e ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea – in quanto a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto”), ha correttamente condiviso l’operato dell’Ufficio che, nel ricostruire con metodo analitico-induttivo i maggiori ricavi della contribuente in relazione alle diverse vendite di immobili appartenenti al medesimo complesso, ha fondato l’indagine su di una pluralità di elementi indiziari – stimati dal giudice di appello precisi, gravi e concordanti – provenienti da fonti differenti quali, oltre allo scostamento tra il corrispettivo dichiarato negli atti di vendita dal valore OMI, il maggiore importo dei mutui erogati agli acquirenti, le perizie di stima degli istituti bancari in sede di concessione dei mutui, i contratti preliminari inter-partes, le dichiarazioni rese da parte di un numero significativo di acquirenti in sede di accertamento e con riferimento alle rimanenti unità immobiliari la similarità di conformazione edile e di estensione metrica – peraltro non contestata dalla contribuente – rispetto a quelle per le quali si era acquisita la dichiarazione degli acquirenti, con conseguente ingiustificata variazione del prezzo dichiarato di vendita nello stesso arco temporale; ciò in conformità all’insegnamento di questa Corte secondo cui «La valutazione della prova presuntiva esige che il giudice di merito esamini tutti gli indizi di cui disponga non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché equivoci, cosi da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l’esistenza del fatto da provare» (Cass. sez. 3, n. 5787 del 2014; v. Cass., sez. 6-5, n. 30276 del 2017);infatti, l’analisi da parte della CTR dei singoli elementi indiziari con riferimento ad alcune specifiche vendite è avvenuta esemplificativamente a conferma della sussistenza del comune quadro indiziario minimo al quale si è aggiunto qualche altro elemento quale, ad esempio, il riscontrato ingiustificato prelievo in contanti superiore al saldo fattura effettuato da parte degli acquirenti in prossimità delle date dei rogiti; la CTR ha ritenuto che il quadro complessivo così delineato fosse poi ulteriormente confortato dall’incoerenza dei ricavi denunziati dalla società rispetto allo studio di settore presentato e dalla bassa percentuale di ricarico (11.16%) applicata dalla società con una redditività pari al solo 8,06%; ciò significando che, ad avviso del giudice di appello, tali ulteriori elementi rafforzavano la valenza già esaustiva del quadro indiziario sopra delineato, con conseguente inammissibilità delle censure della ricorrente concernenti tali specifici aspetti in quanto non fondanti di per sé la decisione; quanto alla prova documentale contraria fornita dalla contribuente, il giudice di appello – con una valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità- ha ritenuto la univocità e coerenza dell’operato dell’Ufficio non superata dai rilievi formulati dalla società contribuente in quanto tesi ad “interrompere opportunisticamente ogni nesso di univocità esistente in modo estremamente concludente tra i singoli elementi indiziari”;
– né, in tale sede è ammissibile introdurre una nuova valutazione dei fatti oggetto del giudizio di merito, come sembra voler proporre, surrettiziamente, la ricorrente, nella parte in cui assume la non corretta valutazione da parte della CTR, da un lato, degli elementi indiziari posti dall’Amministrazione a fondamento dell’accertamento e, dall’altro, delle prove fornite a contrario dalla contribuente; e invero, il giudizio di merito non può essere ulteriormente revisionato in questa sede, tenuto conto del principio di diritto secondo cui: «Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.» (così, Cass., sez. 5, n. 32624 del 2019; sez. 6- 5, n. 9097 del 2017;cfr. altresì, sez. 6 -3, n. 8758 del 2017);
– con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la violazione degli artt. 112 c.p.c.e 3, 24, Cost. 1) per avere la CTR verificato solo tredici delle ventiquattro vendite accertate omettendo di pronunciarsi sulle residue; 2) per non avere la CTR pronunciato in ordine alla censura proposta in sede di gravame di omessa pronuncia della CTP quanto alla eccepita violazione e/o falsa applicazione degli artt. 42, comma 2, del d.P.R. n. 600/73, 56, ultimo capoverso del d.P.R. n. 633 del 1972 e 7, comma 1, della legge n. 212 del 2000, per non essere stati allegati all’atto impositivo né i contratti di mutuo né le valutazioni OMI, con conseguente non conoscibilità degli stessi da parte della contribuente;
– il motivo articolato in due sub-censure è inammissibile per le ragioni di seguito indicate;
– la prima sub censura che non coglie il decisum avendo la CTR- come chiarito con riguardo ai motivi primo e secondo – fatto riferimento ad alcune singole vendite in modo esemplificativo, senza che ciò incidesse sulla individuazione di un esaustivo quadro indiziario comune a tutte le cessioni sul quale poggiava l’accertamento dell’Ufficio;
– la seconda sub censura sul difetto di motivazione dell’avviso si espone all’inammissibilità per carenza di decisività in quanto, a fronte della riproduzione nell’avviso di accertamento degli importi mutuati in relazione alle singole operazioni di compravendita ( pag. 3 e segg. del ricorso), il ricorrente non ha precisato quali ulteriori parti dei contratti di mutuo non allegati avrebbero dovuto considerarsi altrettanto essenziali; ugualmente, per quanto concerne la assunta mancata allegazione all’avviso delle valutazioni OMI, il ricorrente, a fronte della ammessa allegazione all’atto impositivo di una “tabella sintetica di tali valori nel corso dell’anno 2006”, non ha precisato in che termini le valutazioni OMI non allegate avrebbero dovuto considerarsi altrettanto decisive;
– in conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato;
– le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo;
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 10.000,00 per compensi oltre spese prenotate a debito;
Dà inoltre atto, ai sensi dell’art.13 comma 1 quater D.P.R. n.115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.