CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 febbraio 2019, n. 3655
Licenziamento – Svolgimento di attività lavorativa in costanza di assenza per malattia – Aggravamento della patologia – Ritardo nella ripresa del lavoro – Accertamento
Rilevato
Che la società S. s.p.a. proponeva reclamo, ai sensi dell’art. 1 co. 58 L. n. 92/12, avverso la sentenza con cui il Tribunale di Lanciano aveva accolto, con ordine di reintegra e diritto al risarcimento del danno ex art. 18 comma 4 L. n. 300/70, la domanda del dipendente N.R. diretta all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società il 21.10.15 ai sensi dell’art. 33, titolo III, lett. A) del c.c.n.I. di categoria, e segnatamente perché nella serata dell’ultimo giorno di malattia (dal 5 al 9 ottobre 2015) era stato visto, dalle ore 20 alle ore 22, presso il ristorante-pizzeria della moglie “La C.” mentre provvedeva alla preparazione di pizze ed alla relativa cottura in forno, oltre che alla consegna di pizze da asporto ed incasso dei relativi pagamenti.
Che con sentenza depositata il 7.7.17, la Corte d’appello di L’Aquila confermava la sentenza impugnata, considerando il fatto contestato privo del carattere dell’antigiuridicità, essendo circoscritto a due sole ore della sera dell’ultimo giorno di malattia; compatibile con la malattia denuncia (rinofaringite), ed essendo stato inoltre accertato che non aveva comportato alcun aggravamento della patologia né alcun ritardo nella ripresa del lavoro. Confermava pertanto la sentenza impugnata, anche sotto il profilo della tutela accordata in base al comma 4 dell’art. 18 novellato.
Che per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società S., affidato a cinque motivi, cui resiste il R. con controricorso.
Considerato
Che con il primo motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in ordine allo svolgimento di attività lavorativa in costanza di assenza per malattia, lamentando che la sentenza impugnata non aveva compiutamente valutato tutti gli elementi dedotti dalla società (lo svolgimento del predetto lavoro mentre il dipendente era in malattia; che il lavoro presso la datrice di lavoro prevedeva tre turni di cui uno tra le 14 alle 22; che non vi era alcuna prova che la moglie del R. fosse influenzata e che il dipendente non riprese l’attività lavorativa principale il giorno dopo, bensì il lunedì 12 ottobre).
Che il motivo è inammissibile essendo diretto ad una nuova valutazione delle circostanze di causa e ciò sia in contrasto col novellato n. 5 dell’art. 360, co. 1, c.p.c.sia col principio della cd. doppia conforme ex art. 348 ter c.p.c.
Che con secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 33, lett. A) del c.c.n.I. di categoria, nonché degli artt. 1175 e 1375 c.c. evidenziando che la sentenza impugnata si poneva in contrasto col consolidato orientamento di questa S.C. secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione (ipotesi neppure ipotizzata nella fattispecie in esame), anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia (Cass. n. 5809/13, Cass. n. 14046/05 ed altre).
Che tale motivo risulta infondato, avendo la sentenza impugnata accuratamente valutato il fatto in esame alla luce dei predetti principi, avendo accertato ed evidenziato, come sopra riportato, che il fatto contestato era circoscritto a due sole ore della sera dell’ultimo giorno di malattia; era compatibile con la malattia denuncia (rinofaringite), e non aveva comportato alcun aggravamento della patologia né alcun ritardo nella ripresa del lavoro (che sarebbe dovuta avvenire il 12, essendo l’11 domenica).
Che con terzo motivo la società denuncia ancora l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti circa la rilevanza del fatto sotto il profilo del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, per il venir meno del vincolo fiduciario tra le parti.
Che anche tale motivo presenta un evidente profilo di inammissibilità proponendo come vizio motivo una dedotta violazione di legge; per il resto risulta infondato, avendo la sentenza impugnata motivatamente ritenuto che il fatto contestato, per le modalità con cui si era svolto, non poteva determinare alcuna lesione della fiducia nei successivi corretti adempimenti del R., in base ai ridetti e compiuti accertamenti di fatto, rimessi alla valutazione del giudice di merito, Cass. 18247/09, Cass. n. 7426/18.
Che con quarto motivo la società denuncia la violazione dell’art. 18 L. n. 300/70 in ordine alla riconosciuta tutela reintegratoria ‘piena’, in base al quarto comma dell’art. citato, avendo erroneamente ritenuto l’insussistenza, risultante invece per tabulas, del fatto contestato, con la conseguenza che la sentenza impugnata avrebbe potuto al più applicare il comma 5 del novellato art. 18, con risoluzione del rapporto di lavoro ed indennità risarcitoria.
Che il motivo, così come esposto in ricorso è infondato, non avendo colto (e censurato) la ratio decidendi della sentenza impugnata basata sul consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 20540/15, Cass. n. 18418/16, Cass. n. 11322/18) secondo cui l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 l. n. 300/70, come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria di cui al comma 4 dell’art. 18, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. Questa Corte ha più in particolare chiarito che non è plausibile che il Legislatore, parlando di ‘insussistenza del fatto contestatò, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, restando estranea alla fattispecie la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, rispetto alla sanzione espulsiva (Cass. 6 novembre 2014 n. 23669, che peraltro si riferiva ad un caso di insussistenza materiale del fatto contestato). In altre parole l’irrilevanza giuridica del fatto (pur accertato) equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione ai sensi dell’art. 18, quarto comma, cit.
Circa la non illiceità, ipso facto, dello svolgimento di attività lavorativa del dipendente durante l’assenza per malattia cfr. Cass. n. 1173/18, Cass. n. 586/16, Cass. n. 10706/08.
La sentenza oggi impugnata si è conformata al suddetto insegnamento, rimarcando che l’assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all’ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell’insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della tutela cd. reale.
L’accertamento della sostanziale non illiceità dei fatti addebitati è risultato, come visto, corretto, non avendo peraltro formato oggetto di fondate e/o ammissibili censure ad opera della società ricorrente.
Che con quinto motivo la società si duole della mancata detrazione, dal disposto risarcimento del danno, dell’aliunde perceptum e percipiendum dolendosi della mancata adozione dell’ordine di esibizione richiesto dalla società nei confronti del R. e della mancanza delle ritenute finalità esplorative dell’istanza, sicché non poteva imputarsi alla S. il mancato assolvimento del suo onere probatorio.
Che anche tale censura non è meritevole di accoglimento essendo notoriamente a carico della datrice di lavoro dimostrare, al fine di veder ridurre il risarcimento del danno ex art. 1227 c.c., la percezione di altri redditi od utilità economiche conseguite dal lavoratore a seguito del licenziamento, così come la prova della sua colpevole inerzia al fine di ridurre il danno (duty to minimize), giusta il consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 11122/16, Cass. n. 9616/15, Cass. n. 12997/04, Cass. n. 10043/04, Cass. n. 5908/04). La sentenza impugnata, evidenziando l’onere della prova gravante sul datore di lavoro e la necessità che la documentazione richiesta non sia acquisibile aliunde, si è peraltro attenuta al principio sul punto recentemente rimarcato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 2499/17) secondo cui in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che invochi l’aliunde perceptum” da detrarre dal risarcimento dovuto al lavoratore deve allegare circostanze di fatto specifiche e, ai fini dell’assolvimento del relativo onere della prova su di lui incombente, è tenuto a fornire indicazioni puntuali, rivelandosi inammissibili richieste probatorie generiche o con finalità meramente esplorative (dirette cioè, in contrasto con quanto stabilito dall’art. 210 c.p.c., a verificare solo l’eventuale esistenza di documenti di supporto alla tesi attorea, laddove la citata norma del codice di rito richiede la prova del possesso dei documenti da parte del destinatario dell’ordine di esibizione, cfr.,ex plurimis, Cass. ord. n. 23120/10).
Che il ricorso deve in definitiva rigettarsi, con spese di lite che seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi, € 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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