CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 giugno 2021, n. 16479
Tributi – Controllo automatizzato della dichiarazione ex art. 36-bis, DPR n. 600 del 1973 – Minor versamento IRAP per errata applicazione di un’aliquota inferiore – Legittimità del controllo automatizzato
Rilevato che
La B.P.V. s.p.a. (quale incorporante della C. s.p.a.) ha chiesto la cassazione della sentenza n. 175/17/13, depositata l’8.11.2013 dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, che, confermando la pronuncia di primo grado, aveva rigettato il ricorso dell’istituto di credito avverso la cartella di pagamento, emessa ai sensi dell’art. 36 bis del d.P.R. 29 settembre 1973 per i minori importi versati a titolo di Irap per l’anno d’imposta 2006.
La ricorrente ha premesso che l’Ufficio, a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione dei redditi presentata per l’anno 2006 dalla C. s.p.a., aveva rilevato un minor versamento a titolo di IRAP, per la quale la contribuente aveva applicato l’aliquota del 4,25% in luogo di quella del 4,40%, come fissata dalla regione Toscana con L.R. 20 dicembre 2002, n. 43.
Alla notifica della cartella di pagamento era seguito il contenzioso promosso dalla società, che aveva lamentato l’illegittimità della procedura di accertamento automatizzato e l’inefficacia della maggiorazione disposta dalla Regione, nonché l’assenza dei presupposti per la comminazione della sanzione, mentre l’Agenzia aveva insistito sulla legittimità ed efficacia della aliquota del 4,40%.
La Commissione tributaria provinciale di Firenze, con sentenza n. 25/10/2012, e la Commissione tributaria regionale della Toscana, con la sentenza ora impugnata, avevano rigettato le ragioni della contribuente in riferimento all’imposta, accogliendo invece la domanda di esclusione della sanzione, in applicazione della esimente prevista dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.
La ricorrente ha censurato la sentenza con due motivi, chiedendo la cassazione della sentenza per quanto in essa soccombente.
L’Agenzia ha resistito con controricorso, chiedendo il rigetto delle avverse ragioni, ed ha a sua volta spiegato ricorso incidentale con due motivi.
Nell’adunanza camerale del 24 marzo 2021 la causa è stata trattata e decisa.
Considerato che
con il primo motivo la ricorrente si duole della falsa applicazione dell’art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per aver ritenuto corretto avanzare la pretesa fiscale con liquidazione dell’imposta mediante controllo automatizzato e non con avviso di accertamento;
con il secondo denuncia la violazione dell’art. 3, comma 1, lett. a), della I. 27 dicembre 2002, n. 289, dell’art. 1, comma 165, della l. 23 dicembre 2005, n. 266, dell’art. 2, L.R. della Toscana n. 43 del 2002, dell’art. 45, comma 2, del d.l.gs. 15 dicembre 1997, n. 446, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per aver ritenuto correttamente applicata l’aliquota del 4,40%, come preteso dall’Amministrazione finanziaria.
Il primo motivo non trova accoglimento.
La società ha contestato la legittimità della procedura attivata dalla Amministrazione, denunciando che per l’incertezza interpretativa sulla disciplina mancavano i presupposti per ricorrere al controllo automatico previsto dall’art. 36 bis del d.P.R. n. 600 del 1973. La pretesa fiscale non poteva ricondursi nello specifico ad un mero errore materiale, ma a divergenti interpretazioni della disciplina, che avevano portato la contribuente alla ragionata esclusione dell’aliquota del 4.40%, con applicazione invece di quella minima del 4,25%. Questa Corte, proprio in tema di incremento dell’aliquota Irap, ha affermato che l’Amministrazione finanziaria può ricorrere alla procedura di cui all’art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 anche per rettificare l’imposta indicata in dichiarazione in base all’applicazione di una diversa aliquota rispetto a quella individuata dal contribuente, atteso che da un lato tale attività si traduce nella correzione di un mero errore di calcolo e dall’altro non assume rilievo l’inconsapevolezza dell’errore del dichiarante (Cass., 31/01/2017, n. 2412).
Trattasi infatti della modifica di un dato numerico, riconducibile a diversa aliquota, che trova fonte in una – regola normativa, ancorché poi sulla applicabilità e sulla tenuta di quella disciplina possano formularsi contestazioni dalle implicazioni giuridiche anche complesse, come per quella oggetto del caso di specie.
Con il secondo motivo la società critica le argomentazioni giuridiche con cui la Commissione regionale ha ritenuto fondata la pretesa fiscale dell’applicazione dell’aliquota del 4,40%, fissata dalla Regione Toscana con la legge n. 3 del 2002, in luogo dell’aliquota del 4,25%, applicata dalla contribuente.
Va chiarito che la giurisprudenza di legittimità è ripetutamente intervenuta in analoghe controversie, affermando prima il principio secondo cui in tema di IRAP non è dovuta alcuna maggiorazione, rispetto a quanto prescritto dalla legge statale, eventualmente stabilita dalle Regioni per li periodo d’imposta successivo al 2002, poiché l’art. 3, comma 1, lett. a), della l. n. 289 del 2002, e l’art. 2, comma 21, della l. 24 dicembre 2003, n. 350, hanno disposto, per detto periodo, la sospensione delle maggiorazioni delle aliquote in vigore per l’anno 2002. Né si è ritenuto che tale sospensione potesse dirsi esclusa per effetto del comma 22 dell’art. 2 cit., che consente l’applicazione della tassa sulla base delle disposizioni adottate dalla legislazione regionale, poiché l’indicata previsione si riferisce alle sole disposizioni regionali non conformi a quelle statali, tra le quali non rientra quella che dispone la variazione dell’aliquota, essendo questo potere espressamente riconosciuto alle Regioni dall’art. 16 del d.Lgs. n. 446 del 1997 è così che si è esclusa l’applicabilità delle maggiori aliquote determinate in alcune regioni (cfr. Cass., 13/04/2012, n. 5867).
Successivamente tuttavia si è anche chiarito che l’art. 16, comma 3, del d.Igs. n. 446 del 1997 dà facoltà alle Regioni di incrementare la relativa aliquota fino ad un massimo di un punto percentuale e deve essere interpretato coerentemente con l’intento del legislatore di perseguire obiettivi di autonomia e decentramento fiscale; nella stessa ottica va inteso anche il disposto dell’art. 3, comma 1, lett. a), della l. n. 289 del 2002 (e la successiva regolamentazione normativa disciplinante le annualità successive, ed in particolare per l’anno 2006 l’art. 1, comma 165, l. 23 dicembre 2005 n. 266), che, nel sospendere l’efficacia degli aumenti dell’aliquota IRAP “deliberati” dalla Regione successivamente al 29 settembre 2002, in ragione della mancanza di una legge quadro sul federalismo fiscale, ha inteso comunque limitare l’effetto sospensivo a quelle maggiorazioni che determinassero, o nella misura in cui determinassero, il superamento delle aliquote effettivamente in vigore nel 2002, cioè non “confermative” di esse, al fine di non pregiudicare dei tutto l’obiettivo finale suindicato. In applicazione di quest’ultimo principio, a seguito della sospensione dell’efficacia dell’aumento dell’aliquota IRAP per 2002, per banche ed assicurazioni, di un punto percentuale, la stessa Corte ha ritenuto doversi applicare l’aliquota del 4,75% già prevista a livello nazionale per il 2002 dall’art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 446 del 1997, anziché l’aliquota ordinaria del 4,25% (ex multis cfr. Cass., 14/11/2012, n. 19838; 18/09/2013, n. 21327; 15/12/2014, n. 26263; 23/02/2015, n. 3574; 23/01/2020, n. 1476, quest’ultima proprio con riferimento all’anno d’imposta 2006, per l’Irap fissata dalla regione Toscana nella misura dei 4,40%). In particolare, ritenendosi consolidato l’orientamento secondo il quale, posto che per l’anno 2002 l’aliquota era stata fissata a livello nazionale al 4,75%, era legittima l’applicazione di una aliquota entro quel limite, a maggior ragione doveva ritenersi corretta la pretesa fiscale riferita all’aliquota del 4,40%, inferiore addirittura a quel a del 2002, che dunque restava esente da prescrizioni sospensive.
La sentenza impugnata ha correttamente applicato i principi di diritto enunciati, così che deve dichiararsi infondato il secondo motivo e in conclusione l’intero ricorso principale.
Esaminando ora li ricorso incidentale spiegato dall’Ufficio, con il primo motivo questo lamenta la violazione dell’art. 2, comma 22, della I. 350 del 2003, e dell’art. 1, comma 175, della I. 30 dicembre 2004, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc civ., per avere escluso la sanatoria introdotta con le norme sopra indicate; con il secondo motivo si duole della violazione dell’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, dell’art. 8 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dell’art. 10, comma 3, della L 27 luglio 2000, n. 212, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere ritenuto sussistenti i presupposti per (a disapplicazione delle sanzioni.
Il primo motivo è inammissibile per la sopravvenuta carenza di interesse, atteso rigetto del ricorso principale della contribuente.
Esaminando invece il secondo motivo, con esso l’Agenzia critica la decisione per aver riconosciuto l’esimente della non punibilità, prevista dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, e cioè la sussistenza di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e ambito applicativo della disciplina applicabile. L’Amministrazione finanziaria afferma che la questione controversa verteva sul semplice quesito se la disciplina applicabile l’art. 3, comma 1, lett. a, della l. n. 289 del 2002- esplicasse o meno effetti sospensivi sulle maggiorazioni dell’aliquota d’imposta deliberate dalla Regione Toscana con la l. n. 43 del 2002. Sostiene che l’oggetto -del contendere non determinava incertezze interpretative.
In tema di sanzioni amministrative tributarie si è affermato che l’incertezza normativa oggettiva – che deve essere distinta dalla ignoranza incolpevole dei diritto, come si evince dall’art. 6 del d.lgs. n. 472 del 1997 – è caratterizzata dalla impossibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile e può essere desunta da alcuni “indici”, quali, ad esempio: 1) la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) l’assenza di una prassi amministrativa o la contraddittorietà delle circolari; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; il contrasto tra opinioni dottrinali; l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente (Cass., 17/05/2017, n. 12301; 13/06/2018, n. 15452). E si è anche chiarito che sussiste incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria ai sensi dell’art. 10 della l. n. 212 del 2000 e dell’art. 8 del d.lgs. n. 546 del 1992, quando è ravvisabile una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita, non già ad un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata e neppure all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento a cui è attribuito il poteredovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (Cass., 1/02/2019, n. 3108). E d’altronde il potere delle commissioni tributarie di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni in caso di obiettive condizioni di incertezza su portata e ambito di applicazione delle norme cui la violazione si riferisce può esercitarsi quando la disciplina normativa si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento concettualmente può risultare difficoltoso per equivocità di contenuto, derivante da elementi positivi di confusione (Cass., 29/09/2003, n. 14476; 24/07/2013, n. 18031).
Ebbene, non può disconoscersi che la presente controversia si inserisce in un rilevante contenzioso, che se ormai da tempo risulta superato dai principi enunciati da consolidata giurisprudenza di legittimità, negli anni in cui sono maturate le condotte contestate dall’Amministrazione finanziaria ha trovato causa in una disciplina niente affatto chiara, in ragione di una produzione normativa – statuale e regionale – susseguitasi in un contesto nel quale il potere di autonomia impositiva degli enti regionali e locali era ancora in fase di sviluppo, con contorni tenuti ancora prudenzialmente circoscritti. Proprio in questa vicenda non può ignorarsi che la disciplina sopraggiunta con l’art. 3, comma 1, lett. a della I. 289 del 2002, e poi con l’art. 2, comma 21, della l. n. 350 del 2003, che sospendeva il potere regionale di incremento dell’Irap di un punto di aliquota, era stata oggetto di vaglio dinanzi alla Corte Costituzionale nel 2004 (da parte della Regione Veneto), e considerata giustificabile sull’assunto che si era in attesa «di un complessivo ridisegno dell’autonomia tributaria delle Regioni, nel quadro dell’attuazione del nuovo art. 119 Cost., nonché di una manovra che investe la struttura di un tributo indubitabilmente statale, quale è l’IRPEF, destinato, nella prospettiva de/legislatore statale, a modificazioni profonde, nonché di un tributo, come PIRAP, che resta un tributo istituito e tuttora disciplinato dalla legge dello Stato» (Corte Cost., sent. 14/12/2004, n. 381). Il collegamento tra questa disciplina, la sanatoria prevista dal comma 22 della medesima l. n. 350 del 2003, le successive leggi finanziarie che sino al 2006 hanno prorogato gli effetti delle prime regolamentazioni normative, evidenziano un susseguirsi di interventi legislativi, il cui percorso interpretativo non è sempre stato agevole. In questo contesto infatti si inseriscono le plurali pronunce della stessa Corte, con motivazioni articolate ed una evoluzione interpretativa che solo a partire dal 2012 ha delineato i contorni della disciplina senza più tentennamenti. Ci si trova dunque dinanzi ad indici rivelatori della complessità della questione, oggetto di lungo e acceso dibattito e di impegnative interpretazioni.
Alla luce di queste difficoltà, la pur sintetica e poco perspicua motivazione della pronuncia ora impugnata, che ha riconosciuto “l’obiettiva condizione di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma regionale” toscana, che aveva fissato l’aliquota d’imposta al 4,40%, incontrando contrastanti esiti nella giurisprudenza che al tempo era stata investita della sua legittimità, non si è discostata dai principi di diritto utilizzati ai fini del riconoscimento dell’esimente prevista dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997.
Il secondo motivo del ricorso incidentale va pertanto rigettato.
L’esito della causa, con la reciproca soccombenza, giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso della ricorrente principale; rigetta quello della ricorrente incidentale.
Compensa le spese del giudizio di legittimità.