CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 novembre 2021, n. 33283
Tributi – Imposta di registro – Subentro nell’autorizzazione di esercizio l’attività di recupero dei rifiuti non pericolosi sottoposti a procedura semplificata – Scrittura privata autenticata – Cessione di ramo d’azienda
Rilevato che
§ 1. La I.M.T.R.E.C. srl (IMTREC srl) – società operante nel recupero e nella commercializzazione di rifiuti e rottami metallici non pericolosi, prevalentemente in alluminio – propone un articolato motivo di ricorso per la cassazione della sentenza n. 1988/25/2018 del 26 aprile 2018, con la quale la commissione tributaria regionale della Lombardia, in riforma della prima decisione, ha ritenuto legittimo l’avviso di rettifica e liquidazione notificatole dall’agenzia delle entrate in recupero di maggiore imposta di registro e sanzioni; ciò in relazione alla scrittura privata autenticata 27 dicembre 2013, tassata dall’amministrazione finanziaria come cessione di ramo aziendale, con la quale essa ricorrente aveva ceduto alla R.E. srl, per il corrispettivo di euro 10.100,00, “l’attività di recupero dei rifiuti non pericolosi sottoposti a procedura semplificata, di cui all’autorizzazione della Provincia di Brescia in data 19 gennaio 2012 PG 7478/12”.
La commissione tributaria regionale, decidendo nei confronti di entrambe le società contraenti per effetto della riunione dei rispettivi ricorsi introduttivi come già disposta dalla Commissione Tributaria Provinciale, ha in particolare rilevato che:
– diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, secondo i quali l’atto in questione si risolveva in un mero incombente burocratico necessario per formalizzare la voltura dell’autorizzazione amministrativa tra le due società, tra queste era effettivamente intercorsa una cessione di ramo aziendale, così come correttamente dedotto dall’agenzia delle entrate;
– plurimi elementi deponevano in tal senso: – la denominazione dell’atto, inequivocabilmente qualificato come “cessione di ramo d’azienda”, con espressa menzione della ‘responsabilità ex lege della parte cessionaria per i debiti aziendali che risultano dai libri contabili obbligatori;
– l’evidenziazione in atto dei beni aziendali ceduti con attribuzione ad essi di uno specifico prezzo distinto rispetto a quello imputato all’autonoma voce definita “autorizzazione relativa all’impianto di gestione rifiuti”;
– il sostanziale subentro della cessionaria R.E. srl nel contratto di affitto dell’immobile di svolgimento dell’attività, dove la stessa avrebbe poi aperto una unità locale;
– l’espressa previsione di clausola limitativa di concorrenza e sviamento della clientela dell’azienda ceduta per la durata di 5 anni;
– secondo la normativa ambientale di cui al d.lgs 152 del 2006 (art. 29 nonies, co.4^) la semplice variazione del gestore dell’impianto non richiedeva affatto la stipulazione di una cessione di ramo aziendale per scrittura privata autenticata, essendo a tal fine necessaria e sufficiente una semplice autocertificazione finalizzata alla volturazione dell’autorizzazione integrata ambientale;
– nessuna contestazione era stata mossa dalle società contribuenti in ordine alla quantificazione dell’avviamento da parte dell’ufficio (Euro 273.610,00).
Nessuna attività difensiva è stata posta in essere, in questa sede, dalla Agenzia delle Entrate né dalla, pure intimata, R.E. srl.
§ 2.1 Con l’unico articolato motivo di ricorso la società lamenta – ex art.360, co.1^, nn. 3 e 5 cpc – omesso esame di fatti decisivi del giudizio, nonché violazione e falsa applicazione sia delle norme definitorie dell’azienda sia di quelle concernenti il subentro nell’autorizzazione di esercizio ed ambientale (art.216 d.lgs 152/16 e disciplina provinciale).
In particolare, la sentenza della Commissione Tributaria Regionale doveva ritenersi viziata per non aver considerato elementi decisivi di causa, escludenti con certezza la cessione di ramo aziendale, quali: – il mancato trasferimento della clientela alla cessionaria (operante nel settore del rame e non dell’alluminio); – il mancato subentro di quest’ultima nel contratto di locazione del fabbricato della cedente in Vobarno (BS), destinato ad altra società; – l’effettiva e necessitata funzionalità dell’atto a formalmente trasferire, per la residua durata triennale, l’autorizzazione all’esercizio dell’attività di recupero dei rifiuti metallici non pericolosi ex articolo 216 d.lgs 152/06 cit. (diversa da quella ambientale di cui all’articolo 29 sexies del medesimo d.lgs, alla quale l’attività non era mai stata assoggettata), trasferimento che la normativa provinciale subordinava appunto alla allegazione di un “atto notarile o altro titolo valido da cui risulti il trasferimento dell’attività alla ditta subentrante”.
L’omissione di queste circostanze ed il travisamento complessivo della fattispecie (anche con indebita sovrapposizione della licenza di esercizio con l’autorizzazione ambientale) comportavano, al contempo, vizio di motivazione e violazione di legge anche per quanto concerneva la natura giuridica dell’azienda e dell’avviamento (artt.2112 e 2555 cod.civ.), nella specie del tutto insussistente.
§ 2.2 Il motivo non può trovare accoglimento in nessuna delle sue articolazioni; esso risulta infatti inammissibile per quanto concerne l’affermato vizio motivazionale per omesso esame di fatti decisivi ex art.360, co.1^, n. 5 cod.proc.civ., ed infondato per quanto concerne l’affermato vizio di violazione normativa ex art.360, co.1^, n.3) cit..
Sotto il primo profilo, il vizio deve trovare inquadramento nella disciplina dell’art.360 cod.proc.civ. introdotta dal d.l. 83/12, convertito con modificazioni nella legge 134/12, in base alla quale la sentenza può essere impugnata, in sede di legittimità, non più per “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia” (previgente formulazione), bensì nei ben più ristretti limiti dell’ “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. In ordine a tale nuova formulazione – applicabile anche al ricorso per cassazione proposto avverso sentenze del giudice tributario – si è affermato (Cass. Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014, seguita da innumerevoli altre) che: “la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”.
Per quanto concerne, in particolare, la relazione tra “omesso esame” ed elemento istruttorio, si è stabilito, anche in tal caso in maniera ormai del tutto consolidata, che “l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. ord. n. 27415/18 ed altre). Con specifico riguardo a risultanze di natura documentale (come quelle qui invocate dalla ricorrente), si è poi affermato che: “Il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento. Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa” (Cass.nn. 16812/18; 19150/16 ed altre); e, inoltre, che: “il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. 11892/16, così Cass. 23153/18 ed altre).
Orbene, nel caso di specie risulta dalla sentenza (ma anche dallo stesso ricorso per cassazione) che il giudice regionale non ha affatto omesso di esaminare gli elementi fattuali idonei a consentire la qualificazione giuridica dell’atto intercorso tra le parti a mezzo della citata scrittura privata autenticata del 27 dicembre 2013; si tratta infatti di elementi che egli ha puntualmente enucleato e valutato nella loro efficacia interpretativa della volontà negoziale delle parti (supra § 1). Il che dimostra come ci si trovi in realtà di fronte ad una fattispecie del tutto estranea a quella (oggi l’unica rilevante) dell’omesso esame di fatti decisivi, vertendosi piuttosto di non condivisa valutazione ed incidenza decisoria di questi fatti.
La censura in esame risulta però inammissibile anche per una seconda e concorrente ragione.
Va infatti considerato che la lite poneva una fondamentale questione di interpretazione dell’atto (fiscalmente rilevante ex articolo 20 d.P.R. 131/86) attraverso la ricostruzione della volontà negoziale delle parti; vale a dire, una tipica quaestio facti, la cui ricostruzione è affidata al giudice di merito, risultando in quanto tale insindacabile – se assistita da congrua motivazione – in sede di legittimità.
In materia di interpretazione del contratto, in altri termini, il vaglio della corte di legittimità è limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica, e della coerenza e logicità della motivazione addotta dal giudice di merito, senza poter estendersi al risultato interpretativo prescelto, in sé considerato, in quanto appunto rientrante nell’ambito dei tipici giudizi di fatto riservati alla valutazione discrezionale del giudice di merito. Dal principio che quella demandata alla corte di legittimità costituisce una verifica limitata ad escludere la sussistenza di un “vizio di attività” del giudice di merito consegue – per un verso – che la parte che voglia denunciare un errore di diritto od un vizio di ragionamento nella interpretazione negoziale ha l’onere di indicare gli specifici canoni legali ex artt.1362 segg. cod.civ. che assuma violati nel caso concreto (Cass. n. 17168 del 09/10/2012; Cass. n. 22230 del 20 marzo 2014 ed altre), e – per altro verso – che è inammissibile ogni censura alla ricostruzione della volontà negoziale delle parti operata dal giudice di merito che si risolva, non già nella enucleazione di un vizio di applicazione normativa o di ragionamento, ma semplicemente in una diversa e sostitutiva delibazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati, e già ritenuti sintomatici di una determinata volontà negoziale (Cass. n. 2465 del 10/02/2015 ed altre).
Ciò posto in linea generale, va ribadito come nel caso di specie il giudice di merito abbia optato per una ricostruzione causale dell’atto tassato discendente dalla valutazione di plurimi elementi (letterali, ma non solo) obiettivamente significativi di cessione di ramo aziendale, quali la denominazione attribuita dalle parti all’atto in termini di cessione di ramo aziendale; il richiamo alla responsabilità del cessionario per i debiti aziendali; la previsione della clausola limitativa della concorrenza e dello sviamento di clientela; l’enucleazione, quale oggetto di trasferimento e valutazione economica, di specifici cespiti aziendali diversi ed ulteriori rispetto alla licenza amministrativa.
Il che ha costituito la base logica e giuridica, nel ragionamento della commissione tributaria regionale, per disattendere la tesi della società (anche se già accolta in primo grado) secondo cui si sarebbe in sostanza trattato di una cessione di ramo aziendale meramente apparente se non simulatoria, perché praticamente imposta dalla normativa provinciale sulla volturazione della licenza di esercizio; ciò a fronte di una diversa oggettività normativa, secondo cui in tanto questa volturazione doveva ritenersi ammessa dalla disciplina in materia in quanto appunto associata ad una cessione, reale ed effettiva, di un ramo aziendale.
In tale contesto la diversa lettura di determinati presupposti fattuali, così come qui offerta dalla società ricorrente, non può trovare ingresso in questa sede, non senza osservarsi come la stessa indebita sovrapposizione tra licenza di esercizio ed autorizzazione ambientale (AIA) non appaia affatto “decisiva” nel senso di una soluzione necessariamente opposta rispetto a quella, basata sull’insieme convergente di altri fattori ed elementi, argomentatamente prescelta dalla commissione tributaria regionale.
Da questo presupposto di fondo – della insindacabilità della qualificazione contrattuale così stabilita dal giudice di merito – discende l’infondatezza altresì della censura di violazione normativa, dal momento che gli elementi identificativi segnalati dalla Commissione Tributaria Regionale non contraddicono la definizione legale di azienda né la disciplina del trasferimento aziendale, ma anzi traggono da esse la radice del convincimento.
Ne segue il rigetto del ricorso; nulla si dispone sulle spese, attesa la mancata partecipazione al giudizio delle parti intimate.
P.Q.M.
– rigetta il ricorso;
– v.to l’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;
– dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.