CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 aprile 2021, n. 9912
Transito nei ruoli dell’INPS a seguito di domanda di mobilità – Riconoscimento del diritto a conservare l’assegno ad personam in godimento all’atto del trasferimento – Procedure volontarie di mobilità nel pubblico impiego privatizzato – Riassorbibilità degli assegni “ad personam” – Deroga solo in presenza di disposizioni speciali di legge
Rilevato che
1. la Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 2152 pubblicata il 25.9.2018, ha respinto l’appello di M.M., ex dipendente dell’Istituto nazionale per il commercio estero (I.) poi I. – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, transitata nei ruoli dell’INPS a seguito di domanda di mobilità, ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, volta ad ottenere il riconoscimento del diritto a conservare l’assegno ad personam in godimento all’atto del trasferimento e la condanna dell’I. e dell’INPS in solido al relativo pagamento;
2. avverso tale sentenza M.M. ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, illustrato da successiva memoria; l’I. e l’INPS hanno resistito con controricorso;
3. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ..
Considerato che
4. con l’unico motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione dell’art. 47 D.P.R. n. 266 del 1987, dell’art. 2099 cod. civ. e dell’art. 36 Cost.;
5. la ricorrente censura la sentenza per essersi basata sulla denominazione formale dell’assegno ad personam adottata dalla delibera del Consiglio di Amministrazione dell’I., senza analizzare il contenuto economico di tale assegno, che, in virtù delle diverse classificazioni subite dall’I. (con L. n. 106/89 e L. n. 68/97) dovrebbe considerarsi assimilabile ad una retribuzione individuale di anzianità (R.I.A.);
6. il motivo è infondato;
7. risulta accertato in fatto che l’attuale ricorrente è stata dipendente dell’I., poi I. – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, e che dal 19.3.2001 è transitata alle dipendenze dell’INPS a seguito di mobilità volontaria, ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001;
8. la fattispecie oggetto di causa è regolata, ratione temporis, dall’art. 30, d.lgs. n. 165 del 2001 che nell’originaria formulazione stabiliva (comma 1): “le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti appartenenti alla stessa qualifica in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di trasferimento. Il trasferimento è disposto previo consenso dell’amministrazione di appartenenza”; (comma 2) “I contratti collettivi nazionali possono definire le procedure e i criteri generali per l’attuazione di quanto previsto dal comma 1”;
9. questa Corte, anche prima delle modifiche apportate all’art. 30 cit. dalla legge n. 246 del 2005, aveva riferito l’istituto della mobilità volontaria alla fattispecie della “cessione del contratto” di cui all’art. 1406 cod. civ. (v. Cass. n. 19039 del 2017 e precedenti ivi richiamati), ed affermato il principio secondo cui al lavoratore trasferito spetta il trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi nel comparto dell’Amministrazione cessionaria, non giustificandosi diversità di trattamento (salvi gli assegni “ad personam” attribuiti al fine di rispettare il divieto di “reformatio in peius” del trattamento economico acquisito) tra dipendenti, dello stesso ente, a seconda della provenienza (Cass. 169/2017, 22782/2016, 20557/2016, 18850/2016, 101219/2014, 24949/2014, 2181/2013, 5959/2012; Ord. 21803/2014);
10. infatti, nell’ipotesi di passaggio di lavoratori ad una diversa pubblica amministrazione, l’eventuale diversificazione del rispettivo trattamento economico richiede una specifica base normativa, in difetto della quale l’Amministrazione, ai sensi del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 45, comma 2, deve garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e, comunque, trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi (Cass. n. 21803 del 2014; n. 5097 del 2011);
11. le pronunce richiamate hanno ribadito che il principio generale in tema di procedure volontarie di mobilità nel pubblico impiego privatizzato, della riassorbibilità degli assegni “ad personam”, attribuiti al fine di rispettare il divieto di “reformatio in peius” del trattamento economico acquisito, trova deroga solo in presenza di disposizioni speciali, di legge, di regolamento o di atti amministrativi, che espressamente, e specificamente, definiscano un determinato trattamento retributivo come non riassorbibile o, comunque, ne prevedano la continuità indipendentemente dalle dinamiche retributive del nuovo comparto; hanno aggiunto che a tali disposizioni speciali, attributive di trattamenti “di privilegio”, in quanto non riconducibili alle fonti negoziali collettive applicabili presso l’amministrazione di destinazione, si ricollega l’ipotesi contemplata dall’art. 2, comma terzo, del D.Lgs. n. 80 del 1998 (ora D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3), nella parte in cui stabilisce la cessazione di efficacia delle disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti a far data dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale, e il riassorbimento dei trattamenti economici più favorevoli in godimento, con le modalità e nelle misure previste dei contratti collettivi;
12. da tali premesse discende che l’assunto di parte ricorrente, secondo cui, l’attribuzione dell’assegno ad personam non riassorbibile è conseguenza di specifici accordi recepiti con delibera del Consiglio di amministrazione dell’I. (lettera del 22.3.2005), non solo è inammissibile, mancando la trascrizione e produzione del documento citato, ma è inidoneo a realizzare i requisiti necessari ai fini della deroga, in mancanza di accordi tra le amministrazioni di provenienza e di destinazione;
13. con particolare riferimento alla questione della natura dell’assegno ad personam, equiparabile, secondo la ricorrente, alla retribuzione individuale di anzianità e come tale definitivamente acquisito dalla lavoratrice come elemento della retribuzione, questa Corte ha chiarito come il fatto che “nel trattamento retributivo fondamentale sia inserita la retribuzione individuale di anzianità, non vale affatto ad escludere il riassorbimento della parte di stipendio denominata RIA nei successivi aumenti contrattuali previsti dalla contrattazione collettiva del comparto proprio dell’Ente di destinazione; la conservazione dell’anzianità di servizio, infatti, non significa niente di più che riconoscimento della continuità giuridica del rapporto e dell’anzianità fin dall’assunzione presso l’amministrazione di provenienza mentre la continuità giuridica del rapporto implica il mantenimento dell’anzianità, ma con il rilievo che assume nella nuova organizzazione (Cass. 2617/2010; Ord. 9430/2010);
14. il Collegio ritiene di dare continuità ai principi affermati nelle sentenze sopra richiamate perché ne condivide le ragioni esposte, da intendersi qui richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c., non risultando prospettati nel ricorso argomenti che possano indurre a disattenderli;
15. per le considerazioni svolte il ricorso deve essere respinto;
16. le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
17. si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida, nei confronti di ciascuna parte controricorrente, in euro 2.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge;
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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