CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 settembre 2021, n. 25537
Tributi – Disciplina delle società di comodo – Mancato superamento del test di operatività – Presunzione legale di inoperatività
Fatti di causa
Rilevato che: la Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso della parte contribuente (una società in nome collettivo e due soci di essa) avverso tre avvisi di accertamenti relativi all’anno d’imposta 2010 per IRPEF e IVA in quanto l’Ufficio aveva accertato in capo a suddetta società un maggior reddito ex art. 30 della legge n. 724 del 1994 qualificandola come una società non operativa;
la Commissione Tributaria Regionale respingeva l’appello dell’Agenzia delle Entrate, affermando che l’assoggettamento all’art. 30 della legge n. 724 del 1994 è determinato dal perseguimento di finalità elusive la cui sussistenza non può essere ritenuta semplicemente con riferimento al reddito prodotto; per altro verso, sulla base degli elementi forniti, deve riconoscersi effettiva l’impossibilità di realizzare un reddito nella fattispecie attese le circostanze che la connotano (cessazione “obbligata” dell’attività dal 2001, stato di abbandono dell’immobile e conseguente degrado dello stesso, messa in liquidazione della società nel 2003, che esclude l’applicabilità dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994).
Avverso la suddetta sentenza proponeva ricorso l’Agenzia delle entrate, affidato ad un unico motivo di impugnazione mentre la parte contribuente si costituiva con controricorso.
Ragioni della decisione
Considerato che con il motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., l’Agenzia delle entrate denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 30 della legge n. 724 del 1994 e 53 Cost., in quanto i soggetti che non si trovano in un periodo di normale svolgimento dell’attività non possono essere di per sé esclusi dal regime delle società non operative; inoltre gli impedimenti soggettivi non costituiscono esimenti e l’intento elusivo non è elemento costitutivo della fattispecie “società non operativa”.
Il motivo è fondato.
Secondo l’art. 30 (Società di comodo. Valutazione dei titoli), comma 4 bis, della legge n. 724 del 1994, nella versione applicabile ratione temporis (ossia come modificato dall’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244), in vigore dal primo gennaio 2008 al primo gennaio 2016 (ossia senza le modifiche effettuate dall’art. 7 del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 156): 4-bis. In presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4, la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell’articolo 37- bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600.
Secondo questa Corte infatti:
«Come più volte precisato da questa Corte, la disciplina delineata dalla L. n. 724 del 1994, art. 30 mira a disincentivare la costituzione di società “di comodo”, ovvero il ricorso all’utilizzo dello schema societario per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali (come quello, proprio delle società c.d. di mero godimento, dell’amministrazione dei patrimoni personali dei soci con risparmio fiscale) (ex multis, Cass. Sez. 5, 13/5/2015, n. 21358; Cass. Sez. 6-5, ord. 28/9/2017, n. 26728).
Il disfavore dell’ordinamento per tale incoerente impiego del modulo societario – ricavabile, oltre che dalla disciplina fiscale antielusiva, dal più generale divieto, desumibile dall’art. 2248 c.c., di regolare la comunione dei diritti reali con le norme in materia societaria – trova spiegazione nella distonia tra l’interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto di società è preordinato.
La finalità di deterrenza è perseguita attraverso la fissazione di standard minimi di ricavi e proventi, correlati al valore di determinati beni aziendali, il cui mancato raggiungimento costituisce indice sintomatico del carattere non operativo della società (v., ex multis, Cass. Sez. 5, 24/2/2020, n. 4850, non massimata).
La presunzione legale di inoperatività si fonda sulla massima di esperienza per la quale non vi è, di norma, effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi (Cass. Sez. 5, 10/3/2017, n. 6195, in motivazione) ed ha carattere relativo.
In particolare, secondo la L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1 una società si considera non operativa se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato, attraverso il c.d. test di operatività, applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società.
Tale presunzione può, tuttavia, essere vinta mediante la dimostrazione, il cui onere grava sul contribuente, di situazioni oggettive – ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore – che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al precedente comma che abbia reso impossibile il conseguimento del volume minimo di ricavi o di reddito determinato secondo i predetti parametri» (Cass. n. 4946 del 2021; Cass. n. 27976 del 2020; Cass., n. 23990 del 2020);
in tema di società “di comodo”, l’impossibilità per l’impresa di conseguire il reddito minimo secondo il meccanismo di determinazione di cui all’art. 30, comma 4-bis, della legge n. 724 del 1994, per situazioni oggettive di carattere straordinario, deve essere intesa non in termini assoluti, bensì elastici, identificandosi con uno specifico fatto, non dipendente dalla scelta consapevole dell’imprenditore, che impedisca lo svolgimento dell’attività produttiva con risultati reddituali conformi agli standards minimi legali ovvero ne ritardi l’avvio oltre il primo periodo di imposta (Cass. n. 24314 del 2020);
in tema di Iva, nel caso in cui sussistano le condizioni soggettive e oggettive di applicabilità della disciplina relativa alle società di comodo di cui alla l. n. 724 del 1994 in ragione del mancato superamento del c.d. test di operatività, il contribuente è tenuto a fornire la prova contraria, dimostrando, ai sensi dell’art. 30, comma 4-bis, della l. n. 724 citata, la presenza di quelle oggettive condizioni che hanno impedito il conseguimento dell’ammontare minimo di ricavi, dell’incremento di rimanenze, di proventi e di reddito o non hanno consentito di effettuare operazioni rilevanti ai fini Iva, così da consentire la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive (nella specie, la Cassazione, nel confermare la sentenza impugnata, ha ritenuto che, in linea con i principi espressi dalla Corte di Giustizia, non fosse sufficiente dimostrare che l’inoperatività era dipesa dalla mancata conclusione dell’immobile da utilizzare per lo svolgimento dell’attività, dovendosi altresì provare che il ritardo era stato determinato da ragioni estranee al contribuente e non riconducibili a sua volontà: Cass. n. 34642 del 2019);
in tema di società di comodo, l’art. 30 della l. n. 724 del 1994, al comma 1, prevede una presunzione legale relativa, in base alla quale una società si considera “non operativa” se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli “asset” patrimoniali intestati alla società (cd. “test di operatività dei ricavi”), senza che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci, ma poi, al successivo comma 4-bis, consente la presentazione dell’istanza di interpello (chiedendo la disapplicazione delle “disposizioni antielusive”), in presenza di situazioni oggettive (ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore), che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al precedente comma 1, così rispondendo all’esigenza di dare piena attuazione al principio di capacità contributiva, di cui la disciplina antielusiva è espressione, lasciando nel contempo spazio al diritto di difesa del contribuente, sufficientemente garantito dagli strumenti del contraddittorio e dalla necessità di una motivazione puntuale della condotta elusiva nell’avviso di accertamento (Cass. n. 9852 del 2018).
Più in generale, esiste un deciso disfavore dell’intero ordinamento giuridico nei confronti delle società di comodo, testimoniato non solo dall’art. 2248 cod. civ. (che non consente che la comunione costituita al solo scopo di godimento possa essere regolata dalle norme societarie) ma anche dalla giurisprudenza di questa Corte relativa a sezioni diverse dalla tributaria (Cass. sez. lav. n. 24197 del 2020; Cass. sez. 2, n. 10188 del 2019, Cass. sez. 1, n. 23952 del 2018; Cass. sez. 2, n. 3028 del 2009) in ragione del favor per le attività produttive rispetto a quelle che si limitano a percepire un reddito dallo sfruttamento dei diritti reali (Cass. SU n. 5087 del 2014 in tema di usucapibilità dell’azienda; Cass. sez. 5-6 n. 2376 del 2021 in tema di pale eoliche). Tale disfavore impone che, ogni qual volta non vi sia stato il superamento del c.d. test di operatività da parte della società, la prova contraria da parte del contribuente debba essere offerta con particolare rigore.
Ritenuto pertanto che la Commissione Tributaria Regionale non si è attenuta ai suddetti principi laddove – affermando che l’assoggettamento all’art. 30 della legge n. 724 del 1994 è in generale determinato dal perseguimento di finalità elusive la cui sussistenza non può essere ritenuta semplicemente con riferimento al reddito prodotto; per altro verso, sulla base degli elementi forniti, deve riconoscersi effettiva l’impossibilità di realizzare un reddito nella fattispecie attese le circostanze che la connotano (cessazione “obbligata” dell’attività dal 2001, stato di abbandono dell’immobile e conseguente degrado dello stesso, messa in liquidazione della società nel 2003, che esclude l’applicabilità dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994) – non ha distribuito in maniera corretta gli oneri probatori fra l’Ufficio e la parte contribuente perché, di fronte al mancato superamento del test di operatività da parte della società contribuente, nel pretendere correttamente la sussistenza di una situazione oggettiva, che abbia reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito richiesto dalla legge, non ha però, in maniera insanabilmente contraddittoria, dato conto in maniera esaustiva e completa della sussistenza di questa situazione di oggettività, non analizzando la situazione patrimoniale e produttiva della società nel suo complesso e trascurando quindi in particolare l’effettiva presenza di apparati produttivi che avrebbero potuto permettere di superare il test operatività, cosicché non può dirsi che quella della sentenza impugnata rappresenti una indagine di fatto riservata all’apprezzamento del giudice del merito non sindacabile in sede di legittimità, in quanto tale indagine risulta palesemente non immune da vizi logici (Cass. n. 29419 del 2019; Cass. n. 4870 del 2020; Cass. n. 10353 del 2020). In particolare infatti la sentenza impugnata non spiega perché, sebbene l’accertamento si riferisca all’anno d’imposta 2010, la società, non cancellata dal registro delle imprese, avrebbe comunque continuato ad operare, nonostante abbia subito una non meglio specificata cessazione “obbligata” dell’attività dal 2001, lo stato di abbandono dell’immobile e il conseguente degrado dello stesso (senza chiarire in cosa consista il patrimonio nel suo complesso della società e le sue potenzialità reddituali), e la messa in liquidazione della società nel 2003, circostanza quest’ultima peraltro che non costituisce, di per sé, condizione sufficiente per escludere la società dall’ambito di applicazione dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994.
Pertanto, ritenuto fondato il motivo di impugnazione, il ricorso dell’Agenzia delle entrate va conseguentemente accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
P.Q.M
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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