CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 febbraio 2021, n. 5472
Comportamenti mobbizzanti sul luogo di lavoro – Risarcimento del danno – Nesso causale fra gli eventi verificatisi e l’insorgenza della patologia psichica – Risultanze testimoniali e documentali – Colpa del datore nell’aver tollerato che altri dipendenti ponessero in atto atti astrattamente leciti ma concretamente dannosi – Prova dell’elemento soggettivo intenzionale – Prova specifica di fatti addotti come di inadempimento tout court – Presunzione di colpa
Ritenuto che
1. la Corte d’Appello di Lecce, in riforma della sentenza del Tribunale di Taranto che aveva accolto la domanda, ha respinto il ricorso di A.S. con la quale essa aveva chiesto la condanna del Ministero della Difesa – Direzione Commissariato Marina Militare al risarcimento del danno subito per comportamenti mobbizzanti sul luogo di lavoro;
i giudici di secondo grado hanno escluso che dalle risultanze istruttorie emergesse la prova della denunciata condotta vessatoria ed hanno aggiunto che non poteva dirsi certo il nesso causale fra gli eventi verificatisi e l’insorgenza della patologia psichica, perché il nominato c.t.u. aveva fondato le proprie conclusioni sostanzialmente su quanto riferitogli dalla stessa S.;
2. la S. ha proposto ricorso per cassazione con sette motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso del Ministero della Difesa;
Considerato che
1. con il primo motivo la S. denuncia la omessa considerazione di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c.), affermando anche, nel contesto del motivo, l’illogicità manifesta e contraddittorietà della motivazione;
il motivo è inammissibile;
esso consta di una critica generale al fatto che la Corte di merito avrebbe svolto un esame atomistico dei singoli episodi e ripercorre poi vari dati istruttori, testimoniali e documentali, al fine di sostenere la loro erronea sottovalutazione; è dunque evidente l’estraneità dell’impostazione al disposto dell’art. 360 n.- 5 c.p.c., che postula l’identificazione di fatti, individualmente enucleati, di cui sia stato omesso l’esame e che risultino decisivi;
quanto alla contraddittorietà o manifesta irragionevolezza, essa, semmai da riportare ad un caso di motivazione apparente e quindi di violazione, da denunciare ex art. 360 n. 4 c.p.c., dell’art. 132 n. 4 c.p.c., non può consistere nella difformità della motivazione dalle attese che la parte riponeva rispetto alle risultanze istruttorie, ma, proprio per il trattarsi di un difetto processuale della sentenza e quindi di un vizio in procedendo, deve riguardare aspetti emergenti dal testo della motivazione stessa;
la Corte territoriale ha analizzato varie risultanze testimoniali e documentali per concluderne che gli episodi denunciati non comprovassero un comportamento mobbizzante o vessatorio;
non è neppure vero che la Corte di merito abbia affermato la necessità di un esame di sintesi e non semplicemente atomistico, per poi soffermarsi solo su singoli episodi, in quanto essa ha svolto, come detto, una disamina di dettaglio delle diverse vicende, per poi concludere che «dal coacervo di tali risultanze istruttorie» non emergeva la prova dell’illecito datoriale, in una coerente combinazione di analisi e sintesi;
analogamente non possono dirsi manifestamente irragionevoli le considerazioni svolte sul ruolo del sindacato (rimozione di alcuni inconvenienti in esito all’intervento sindacale, con valutazione della capacità della lavoratrice di far valere le proprie prerogative), su cui si concentrano alcuni passaggi del motivo, perché si tratta di considerazioni in sé non illogiche e proprie del ragionamento di merito che pertiene alla Corte d’Appello;
2. il secondo motivo contiene la denuncia della violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 1218, 2697 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.) e lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.), sostenendo che la Corte avrebbe preteso dal lavoratore la prova del coefficiente soggettivo (doloso), mentre, una volta allegato l’inadempimento ed il danno era a carico della controparte la dimostrazione dell’assenza di una condotta non imputabile; l’omissione valutativa è invece riferita nel motivo, come già in parte anche era avvenuto in alcuni passaggi della prima censura, essenzialmente al perdurare nel tempo delle condotte datoriali a carattere lesivo, segnalando la ricorrente come la stessa Corte d’Appello non avesse potuto non riconoscere il verificarsi di una sua sottoutilizzazione lavorativa;
il terzo motivo afferma la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.) e ancora l’omessa e contradittoria motivazione su un fatto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.), rimarcando come anche in caso di qualificazione della fattispecie come un’ipotesi di illecito extracontrattuale i fatti dolosi e colposi fossero stati ben evidenziati anche sotto il profilo della menzionata sottoutilizzazione;
il quarto motivo afferma la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo la ricorrente che la Corte territoriale avrebbe ammesso una prova testimoniale mai prima dedotta dalle controparti ed avrebbe omesso di considerare le condotte tenute dalla P.A. dopo la sentenza di primo grado, confermative della sottoutilizzazione, fermo restando che se anche si fosse ritenuto che l’URP, cui la Saracino era preposta, avesse acquisito oramai piena operatività, ciò sarebbe avvenuto ben dopo la pronuncia del Tribunale e dunque senza possibili effetti sananti delle condotte illecite del passato;
il quinto motivo afferma la violazione degli artt. 2087 e 2043 c.c. e la contradditoria motivazione rispetto ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sottolineando come la stessa Corte avesse individuato una sottoutilizzazione della lavoratrice, senza però trarne le debite conseguenze in merito al danno psico-fisico che da esso era derivato;
i predetti motivi, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente;
2.1 in relazione all’onere della prova, vanno richiamati gli ormai consolidati assetti della fattispecie;
il mobbing, ove riferito ad atti astrattamente leciti ma che in concreto si caratterizzino per l’intento vessatorio, presuppone evidentemente la prova dell’elemento soggettivo intenzionale (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698); non diversamente, qualora al datore si debba imputare la colpa nell’aver tollerato che altri dipendenti ponessero in atto atti astrattamente leciti ma concretamente dannosi (Cass. 15 maggio 2015, n. 10037), vi è necessità della prova di tale intento, anch’essa parimenti a carico di chi agisca, in quanto elemento caratterizzante della fattispecie;
è solo in presenza della prova specifica di fatti addotti come di inadempimento tout court che la colpa, come da regole generali, si presume ed il datore di lavoro è onerato della dimostrazione dell’esatta osservanza dei propri obblighi o della non imputabilità della condotta (principio costante fin da Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533);
nel caso di specie la Corte di merito ha ritenuto che tutte le condotte esaminate non fossero illegittime e non integrassero quindi inadempimento, sicché nell’onerare la ricorrente della prova di un intento vessatorio e dunque doloso essa ha correttamente dato attuazione ai principi di cui sopra;
2.2 sempre in punto di diritto, i motivi ripetutamente insistono sul fatto che la Corte d’Appello, pur ravvisando una sottoutilizzazione della Saracino presso l’ufficio URP, non abbia da ciò tratto le debite conseguenze rispetto alla domanda dispiegata;
la sentenza impugnata, sul punto, ha affermato che poteva ritenersi ricorrere «al più … una sottoutilizzazione de/l’appellata presso l’URP (ma non solo di essa, bensì anche delle restanti unità di personale assegnate all’URP, a dimostrazione dell’assenza di personalizzazioni a detrimento della Saracino) in attesa che questo ufficio fosse dotato di adeguate dotazioni informatiche, poi via via installate e in attesa di sufficiente specificazione attuativa dei compiti inerenti alle funzioni normativamente assegnate a detto Ufficio, poi mano a mano individuati ed attribuiti», come la Corte riteneva di desumere anche dalla prova assunta in sede di gravame, ritenendo altresì «normale e giustificabile» che «l’utenza esterna … andasse, almeno nella iniziale e non breve fase del passaggio del flusso informativo dagli uffici direttamente interessati all’URP, ad informarsi presso l’Ufficio Contratti», data la novità dell’ufficio URP di cui le Amministrazioni «per decenni» avevano fatto a meno; il senso della motivazione è dunque quello di una esclusione, espressamente manifestata e comunque desumibile dal contesto argomentativo, di un intento doloso verso la ricorrente, nei tempi resisi necessari per l’attivazione dell’ufficio URP;
quanto alla responsabilità dell’Amministrazione per la sottoutilizzazione della ricorrente, la Corte d’Appello, oltre a non parlare di demansionamento né di svuotamento sostanziale delle mansioni, chiaramente ne esclude la ricorrenza per il fatto che quella minore utilizzazione della professionalità era da collegare all’esigenza di attendere le dotazioni informatiche e per dare avvio ad un sistema in sé nuovo rispetto ai «decenni» in cui i percorsi informativi verso l’esterno erano stati diversi e più direttamente riferibili ai singoli uffici; l’apprezzamento attiene al merito, né, in punto di diritto, può dirsi che una sottoutilizzazione, intesa appunto come minore utilizzazione quantitativa delle professionalità messe a disposizione, in concomitanza con una fase riorganizzativa, pur prolungata, sia in sé illegittima, ove si ravvisino – come ha fatto la Corte territoriale – sufficienti ragioni giustificative, dovendosi altrimenti pensare a misure ancora più drastiche di soppressione temporanea del posto, che certamente non va nell’interesse del lavoratore o di trasferimento ad altre posizioni vacanti, ipotesi quest’ultima sulla cui concreta possibilità neppure i motivi di ricorso paiono fare leva;
2.3 in punto di fatto è poi evidente che il perdurare dei disagi lamentati, in quanto non attribuibili ad inadempimento del datore di lavoro, esclude la decisività dell’omesso esame, peraltro in sé neppure sussistente, visto che la Corte distrettuale si è fatta espressamente carico di valutare – in sostanza giustificandoli o comunque ritenendoli non pregiudizievoli – i tempi resisi necessari a rendere l’URP effettivamente operativo;
2.4 quanto ai comportamenti tenuti dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, non può dirsi che essi non sia stati valutati, visto che la Corte territoriale fonda sulla prova assunta in appello sul punto ulteriori ragioni per concludere nel senso della temporaneità della sottoutilizzazione delle professionalità degli addetti all’URP; non ricorre quindi di certo l’ipotesi di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c.; rispetto poi all’asseritamente ammissione irrituale in appello di una prova non dedotta prima dalla P.A., il motivo è in sé privo di specificità in quanto non trascrive i passaggi del provvedimento con la cui la Corte d’Appello dispose in tal senso; in ogni caso, come rileva giustamente il Ministero nel controricorso, è evidente che la prova su quanto accaduto dopo la sentenza di primo grado non poteva che rendersi necessaria dopo che l’appellata aveva in secondo grado lamentato il manifestarsi, in quel lasso temporale, di fatti a proprio dire lesivi;
2.5 infine, va in questo contesto precisato che i fatti successivi alla sentenza di secondo grado che sono stati dedotti con la memoria difensiva finale si collocano al di fuori dei limiti cronologici di deducibilità nel presente processo, da fissare nel momento della chiusura delle attività di parte che si verifica con la discussione finale in sede di appello;
3. il sesto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 61 ss, 112, 115, 191 ss. c.p.c., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso (art. 360 n. 5 c.p.c.);
la Corte d’Appello, pur ritenendo l’insussistenza di fattispecie di responsabilità ministeriale, ha ritenuto che, pur se si fossero dovuti ravvisare comportamenti mobbizzanti, sussisterebbero dubbi significativi sul ruolo concausale da essi rivestito rispetto alla patologia psichica accertata sulla persona dell’appellante, ritenendo essa insufficienti, perché basate essenzialmente su quanto riferito dalla stessa Saracino, le conclusioni in proposito raggiunte con la c.t.u. svolta in primo grado;
le censure a tale argomentazione, chiaramente tali da caratterizzarsi come riguardanti una ratio decidendi aggiuntiva, sono in questa sede superflue, in quanto assorbite dal rigetto dei motivi afferenti alla responsabilità del datore di lavoro;
4. l’ultimo motivo è infine destinato alla condanna alle spese del doppio grado pronunciata dalla Corte d’Appello, sostenendosi che esse sarebbero state liquidate in misura superiore ai parametri di cui al D.M. 44/2014 ed altresì che l’esistenza della menzionata sottoutilizzazione avrebbe giustificato quanto meno una compensazione parziale;
il motivo è inammissibile in entrambe le sue articolazioni;
quanto alla mancata compensazione, è principio acquisito quello per cui la definizione sulle spese nel rispetto del principio della soccombenza non consente la censura in sede di legittimità con cui si sostenga l’opportunità di una compensazione, trattandosi di profilo la cui valutazione è di spettanza esclusiva del giudice del merito (Cass. 4 agosto 2017, n. 19613; Cass. 11 gennaio 2008, n. 406);
quanto all’asserita violazione dei parametri tariffari la censura è inammissibile perché genericamente formulata, senza indicazione del valore della controversia da tenere presente e senza che sia evidenziato con specificità, rispetto al margine (minimi/medi/ massimi) entro cui il giudice può collocare la propria liquidazione, quale violazione sia in concreto intervenuta;
5. al complessivo rigetto del ricorso segue la regolazione delle spese del grado secondo soccombenza;
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito;
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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