CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 marzo 2018, n. 7701
Violazione degli obblighi di fedeltà da parte del dipendente – Svolgimento di un’attività analoga a quella del datore di lavoro – Risarcimento del danno in favore del datore di lavoro – Dedotta conoscenza della condotta da parte del datore di lavoro – Onere di prova a carico del lavoratore
Rilevato
che con sentenza in data 13 marzo 2012 la Corte di Appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Brescia che aveva condannato G.S. al risarcimento del danno in favore della sua datrice di lavoro, la M. s.p.a., che era stato quantificato dal ctu nominato dal Tribunale in € 93.678,78 oltre interessi legali dal 20 aprile 2007 al saldo effettivo. Il giudice di appello ha ritenuto che correttamente era stata accertata la responsabilità del S. per il danno conseguente alla violazione degli obblighi di fedeltà ed ha evidenziato che non era rilevante la circostanza, del cui omesso esame ci si doleva in appello, che la M., datrice di lavoro del S., fosse stata sempre a conoscenza dell’attività svolta dalla società facente capo a quest’ultimo stante i rapporti di collegamento societario esistenti con la I. con la quale lo stesso S. aveva intrattenuto rapporti commerciali. La Corte di merito ha osservato infatti che non era contestato che il S., per il tramite della sua società, aveva venduto in costanza di rapporto di lavoro ad una cliente della M. (la società C.) macchine usate simili a quelle commercializzate dalla M.. Ha sottolineato che era onere del S. dimostrare che la datrice di lavoro aveva autorizzato tale attività e che tale prova, al contrario, non solo non era stata offerta ma, al contrario, era risultato che la datrice di lavoro non era a conoscenza di tali commerci. Quanto alla misura del risarcimento del danno liquidato dal Tribunale, la Corte territoriale ha verificato la correttezza del calcolo eseguito dal consulente basato sulla contabilità della M., che sola aveva messo a disposizione i dati, tenendo conto del prezzo di vendita delle macchine, dedotto il costo di acquisto e delle spese di condizionamento e trasporto.
Che avverso tale sentenza G.S. ha proposto ricorso affidato a tre motivi, al quale ha opposto difese la M. s.p.a. con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1, cod. proc. civ..
Considerato
Che la sentenza è censurata per i seguenti motivi:
1. violazione e falsa applicazione dell’art. 2105 cod. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ..
Sostiene il ricorrente che la società, in costanza di rapporto, avrebbe dovuto tempestivamente contestare al dipendente l’illecito disciplinare cosa che, invece, non aveva mai fatto nel corso di quasi sette anni di rapporto di lavoro, avanzando le sue contestazioni, tendenziosamente, solo dopo la cessazione e tale circostanza, disvelatrice di un intento ritorsivo, sarebbe stata trascurata dalla Corte di appello.
2. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sulla quantificazione del danno da parte del consulente. Il consulente sarebbe incorso in una serie di errori generalizzando i criteri di calcolo adottati anche per casi nei quali non era stato possibile stabilire i costi di acquisto delle macchine ovvero utilizzando dati riferibili ad operazioni diverse dalla vendita. Tanto sarebbe accaduto con riguardo ad alcune macchine e riferendo a ricavi di vendita di un macchinario ciò che era una revisione aggiungendo poi per tutte costi di trasporto che esulano dal possibile danno per concorrenza sleale.
3. Vizio di motivazione e violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod. proc. civ.. La Corte di merito sebbene uno dei testi escussi fosse un consigliere delegato della società, con un ruolo gestorio attivo al suo interno, nulla aveva esplicitato nella motivazione quanto a tale denunciata incapacità né circa le ragioni per le quali, la testimonianza era stata ritenuta ammissibile.
che il primo motivo di ricorso non coglie il senso della motivazione della sentenza. La Corte di merito ha infatti evidenziato che la censura era priva di incidenza sulla complessiva valutazione della condotta da parte della sentenza impugnata. Ha osservato che sarebbe stato onere del lavoratore offrire una prova rigorosa che nell’operazione di vendita di presse usate a terzi le stesse fossero state prima offerte alla datrice di lavoro. L’ omessa valutazione, da parte del primo giudice, della circostanza che la società era a conoscenza dello svolgimento da parte del suo dipendente di una attività analoga a quella propria era ininfluente, secondo la Corte, per valutare la rilevanza della condotta e, pertanto la censura era inammissibile.
Orbene tale statuizione non è contrastata dal motivo di ricorso in esame che al contrario introduce elementi discordanti di valutazione che attengono ad una pretesa tardività della contestazione della condotta in ipotesi disciplinarmente rilevante ed una ricorsività della condotta datoriale. Prospettazione questa che non risulta essere stata prima sollevata.
Che del pari è inammissibile la censura formulata con il secondo motivo di ricorso con la quale si pretende da questa Corte un inammissibile nuovo esame delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, disposta per quantificare il danno reclamato. La Corte di merito ha dato conto della ricostruzione operata dal consulente condividendola. Va rammentato che il giudice del merito non è tenuto a fornire un’argomentata e dettagliata motivazione là dove aderisca alle elaborazioni del consulente ed esse non siano state contestate in modo specifico dalle parti, mentre, ove siano state sollevate censure dettagliate e non generiche, ha l’obbligo di fornire una precisa risposta argomentativa correlata alle specifiche critiche sollevate, corredando con una più puntuale motivazione la propria scelta di aderire alle conclusioni del consulente d’ufficio (cfr. tra le tante Cass. 19/06/2015 n. 12703). Orbene nel caso in esame mentre dalla sentenza risulta che la Corte ha tenuto espressamente conto dei rilievi formulati chiarendo la ragione per la quale le risultanze peritali erano attendibili e da condividere, nel ricorso non si precisa se come e in che sede le circostanze che si assumono disattese siano state sottoposte all’attenzione del consulente e del giudice di merito.
Che con riguardo all’ultimo motivo di ricorso, infine, si osserva che si tratta di questione che non risulta essere mai stata prima sollevata ed è perciò, anch’essa, inammissibile.
Che, conclusivamente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e le spese regolate come da dispositivo vanno poste a carico del ricorrente soccombente.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre accessori dovuti per legge.
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