CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 10719 depositata il 20 aprile 2023
Lavoro – Indennità di rischio e indennità di disagio – Violazione del “prudente apprezzamento” – Motivazione incomprensibile – Insussistenza – Rigetto
Fatti di causa
A.R. e M.S., istruttrici culturali dipendenti della Regione Campania e distaccate, rispettivamente, presso il Comune di Teano e presso il Comune di Capua, convennero in giudizio l’ente datore di lavoro per chiederne la condanna al pagamento dell’indennità di rischio e dell’indennità di disagio previste dal C.C.I. anno 2001 per il personale della Regione Campania, in connessione con l’uso continuativo del computer e, per quanto riguarda la sola A.R., anche della fotocopiatrice.
Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in funzione di giudice del lavoro, accolse le domande, condannando la Regione Campania al pagamento della somma di € 13.087,56 per ciascuna ricorrente.
La regione propose appello, che venne accolto dalla Corte d’Appello di Napoli con la sentenza contro la quale A.R. e M.S. hanno proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi. La Regione Campania si è difesa con controricorso. La causa viene trattata in camera di consiglio ai sensi dell’art 380-bis.1 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, le ricorrenti denunciano, «Ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.: violazione dell’art. 116, comma 1, c.p.c.».
1.1. Si sostiene che la corte d’appello non avrebbe «operato secondo il prescritto “prudente apprezzamento” con riferimento alla valutazione delle prove offerte dalle ricorrenti».
1.2. Il motivo è inammissibile, perché – sotto l’apparente denuncia di una violazione della legge processuale – è volto a proporre un diverso apprezzamento del materiale istruttorio, che esula dai limiti del presente giudizio di legittimità. La corte territoriale ha ritenuto prove insufficienti dei fatti posti a fondamento della domanda le dichiarazioni del segretario comunale, in un caso, e del responsabile degli affari generali, nell’altro, perché prive di «pur minimi riferimenti concreti al tipo di attività» svolta e riferite a «un lasso temporale di estrema ampiezza», senza «qualsiasi richiamo alle fonti, documentali o di altra natura, da cui il Dirigente avrebbe mutuato, in via immediata o indiretta, la conoscenza dei fatti affermati». Ha quindi aggiunto che «le qualifiche professionali possedute dagli appellanti [recte: dalle appellate] non soccorrono in alcun modo a colmare siffatta lacuna, non potendosi ravvisare nell’espletamento delle attività di ciascuna quel profilo di imprescindibilità dal sistematico e continuativo utilizzo del personal computer, che avrebbe reso superflua l’indagine fattuale».
Le ricorrenti non condividono e ritengono non prudente tale valutazione del giudice di merito, ma ciò non vale a dare sostegno al preteso vizio di legittimità, perché – come questa Corte ha più volte affermato – «la violazione del “prudente apprezzamento” coincide con … il non avere liberamente valutato le prove, in un’ipotesi in cui mancava la deroga normativa all’esercizio di tale potere, o con l’avere liberamente valutato le prove, laddove invece era previsto un altro regime legale. La violazione del “prudente apprezzamento” non è invece denunciabile quale apprezzamento non prudente della prova da parte del giudice, e cioè quale cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove …, posto che le prove devono essere dal giudice valutate secondo il “suo” – precisa l’art. 116 – prudente apprezzamento.
Emerge qui, in base ad un dato testuale della legge, la sfera di autonoma, e non sindacabile in sede di legittimità, valutazione del giudice di merito» (Cass. n. 34786/2021; conf. Cass. n. 11892/2016).
2. Con il secondo motivo si denuncia, «Ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.: motivazione “obiettivamente incomprensibile” della sentenza impugnata e violazione del combinato disposto degli artt. 132, n. 4, c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e 111, comma 7, Cost.».
2.1. Secondo le ricorrenti la motivazione della sentenza impugnata sarebbe incomprensibile perché riferita a un aspetto irrilevante ai fini del riconoscimento del diritto alle indennità (il tipo di mansioni svolte dalle lavoratrici) e priva dell’indicazione delle norme che avrebbero imposto ai dirigenti dei due Comuni di menzionare le fonti di conoscenza utilizzate per le proprie dichiarazioni.
2.2. Il motivo è palesemente infondato.
Da quanto sinteticamente riportato al precedente punto 1.2. emerge che la decisione assunta dalla Corte d’appello è stata motivata con la chiara indicazione degli elementi di prova utilizzati e degli argomenti che hanno portato a considerarli insufficienti per assolvere all’onere pacificamente gravante sulle ricorrenti. Si tratta di prove e di argomentazioni pertinenti rispetto al thema probandum, sicché non è possibile discorrere di motivazione assente o meramente apparente, unica ipotesi censurabile quale violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., mentre l’eventuale vizio di insufficiente o difettosa motivazione non è più sindacabile in sede di legittimità, dacché è stato riformato il testo dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., con l’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella legge n. 134 del 2012 (Cass. n. 7090/2022, tra le tante).
È quindi addirittura superfluo aggiungere che non sono invece pertinenti le critiche mosse nel ricorso alla motivazione della sentenza impugnata, perché la Corte d’appello non ha affermato la rilevanza del tipo di mansioni svolte ai fini del diritto alle indennità richieste e nemmeno l’esistenza di un obbligo dei dirigenti di indicare le fonti di cognizione utilizzate per il rilascio delle loro dichiarazioni (ha soltanto ritenuto generica una dichiarazione sull’uso del computer priva di qualsiasi indicazione sull’attività concretamente svolta e sulle modalità dell’acquisita conoscenza dei fatti ivi dichiarati).
3. Con il terzo motivo, si denuncia, «Ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.: violazione art. 420, comma 6, c.p.c. – mancata ammissione dei mezzi di prova proposti dalle ricorrenti».
3.1. Le ricorrenti si lamentano che il giudice a quo, pur avendo ritenuto insufficienti le prove documentali, non abbia ammesso e disposto l’interrogatorio formale del Presidente della Regione Campania, la richiesta di informazioni alle associazioni sindacali ai sensi dell’art. 425 c.p.c. e la consulenza tecnica d’ufficio per accertare «l’esatto ammontare del credito».
3.2. Anche questo motivo è infondato, perché – pur essendo astrattamente censurabile con ricorso per cassazione la sentenza che rigetti la domanda per il mancato assolvimento dell’onere della prova dopo che il giudice non abbia ammesso altri mezzi di prova offerti e potenzialmente utili allo scopo (Cass. n. 66/2015) – tale circostanza non si ravvisa nel caso di specie, dato che evidentemente nessuna conoscenza dei fatti di causa potrebbe avere il Presidente della Regione convenuta (il quale nemmeno ha il potere di disporre del diritto dell’ente da lui rappresentato: artt. 2731 c.c. e 228 c.p.c.), mentre le informazioni e osservazioni richieste alle associazioni sindacali – tipicamente con riguardo al contenuto della contrattazione collettiva – «hanno la funzione di fornire chiarimenti ed elementi di valutazione riguardo agli elementi di prova già disponibili» (Cass. n. 11464/2004 e altre successive conformi); infine, la consulenza tecnica al fine di accertare «l’esatto ammontare del credito vantato dalle ricorrenti» non è mezzo di prova, né tanto meno mezzo di prova utile per dimostrare l’esistenza del fatto generativo di quel credito.
4. Respinto il ricorso, le spese relative al presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna le ricorrenti in solido al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 4.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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